«Io sono la Porta». È il primo annuncio del buon Pastore. Egli è pastore porta e ovile. La porta è, da sempre, elemento importante nell'architettura: città, chiese e case trovano nella porta il loro biglietto da visita, il segno di un’identità. Non è frequente, nell'arte, l'immagine di Cristo pastore che sta alla porta e bussa. Eppure c'è. C'è nell'iconodulia, c'è nelle sacre immagini di un tempo, quelle da conservare nei libri di preghiera, ormai scomparsi dall'uso quotidiano. C'è in William Hunt che nel suo «Cristo luce del mondo» dipinge un re Pastore che va girando con un lume, in attesa che qualcuno gli apra.
Dietro le sue spalle si vedono alberi nudi, avvolti in un inverno senza rimedio, ma là dove egli passa, gli alberi rinverdiscono e la vita fiorisce. Lo dimostra l'edera, simbolo di fedeltà e di eternità, che s'inerpica lungo la porta, proprio davanti a Gesù, lo dimostra il finocchietto selvatico che annuncia l'inganno in cui è stato tratto il diavolo. Come i dolci al finocchietto erano serviti per cambiare il sapore del vino meno buono e ingannare il cliente, così l'umanità del Signore ha ingannato il serpente antico. Questi ha addentato la preda per ucciderla, ma poiché Cristo è vita, è la vita non può morire, ecco che la morte (il serpente antico, il diavolo) è rimasta uccisa. Cristo guarda pensoso, mentre bussa, quasi presentendo che nessuno avrebbe aperto, che il suo richiamo sarebbe rimasto inascoltato. La porta dove bussa, infatti, non ha maniglia esterna, si apre solo da dentro.
L'immagine più potente del Cristo alla porta, però, l'ha dipinta Antonio Martinotti, artista italiano scomparso nel 1999. Non ci è dato di vedere nulla del corpo del Salvatore, se non il volto e la mano dietro a un'impressionate scorcio di porta. Anche questa non ha maniglia, la mano del Cristo è allo spiraglio, come canta il Cantico dei cantici, e apre il suo Mistero al nostro mondo, bruno di terra, come la porta che ci divide. Sopra le nostre oscurità si è aperto uno spiraglio di luce, schegge d’oro ci investono: il Signore ha bussato. Chi gli ha aperto? Qualcuno ha aperto. E dietro l'apertura di quell’uno, ora anche i nostri occhi vedono lo sguardo del Redentore così carico di dolente attesa e di domanda: «Quando tornerò sulla terra, troverò la fede?» Lo sguardo del Cristo tradisce ciò che lo stesso artista aveva visto negli orrori della guerra, nell'esperienza del Lager. Che cosa vedrebbe ora il Pastore se tornasse fra le sue pecore? Fa male quello sguardo. Tutta la luce del quadro è lì, negli occhi mesti e profondi di Gesù.
È una luce che non ammette ombre, che conosce, che ama e penetra nell’anima, rivelando quanto il nostro cuore sia lontano da quello sguardo. Gli infiniti lager dell’umanità ci danno fastidio, ci danno fastidio le persecuzioni, le eroiche affermazioni d’essere cristiani. Sono scomode, come lo sguardo del Cristo. Esse non accusano, anzi sono il belato di un agnello inerme, eppure risuonano in noi come una trafittura potente. E abbiamo l’impressione che quella porta debba restare così, socchiusa all’infinito, fino a che la nostra libertà non la spalanchi e si lasci abbracciare dal Redentore. Sopra il capo del Cristo c’è un triangolo blu turchino. È il Cielo abbracciato dai martiri, dai confessori della fede, è un Cielo che s’apre anche per noi, bruni di terra, che dietro la porta mendichiamo la bellezza di uno sguardo così.
Immagini
William Holman Hunt, La luce del mondo, 1853-1854, olio su tela, 125×60 cm, Keble College, Oxford
Antonio Martinotti (Pavia 1908 - Milano 1999) Cristo alla porta, 1953, olio su tela, Collezione Privata, Monza.
da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza
giovedì 23 aprile 2015
giovedì 16 aprile 2015
La pernice a Emmaus e le nostre preoccupazioni
Una strana cena di Emmaus quella di Vittore Carpaccio. Non ci sono solo Cleopa e l'amico in fuga da Gerusalemme, ma si notano altri due figuri. L'opera fu attribuita al Bellini ma dopo il recente restauro, dove è emersa la data 1513, si attribuisce al Carpaccio. Il committente fu Girolamo Priuli un noto banchiere veneziano, ritratto, forse, alla destra del Cristo. Sul lato opposto, invece, siede un orientale con l'inconfondibile turbante. Benché enigmatico il simbolismo del dipinto è evidente. Cleopa si porta la mano al petto conquistato dal Mistero, è l’unico a vestire come Cristo. L’anonimo amico invece, veste da pellegrino, con tanto di ghette e di schiavina, tunica lunga con spacco per facilitare il cammino, porta anche pantaloni, indumento obbligatorio per i monaci.
Costui è l’uomo di fede, in cammino, nel quale tutti ci possiamo identificare. Nessuno guarda Cristo e solo Cristo guarda noi. Spezzando il pane, con tre pesci davanti a sé, il Salvatore chiede conto del nostro comportamento rispetto alla fede e alla vita: pani e pesci, infatti, cibo quaresimale, invitano alla sobrietà, mentre la mano benedicente sul pane, è rimando all’Eucaristia. I pellegrini mangiano pollame e sono invece a digiuno i due ospiti illustri. Il banchiere trattiene con una certa supponenza la veste, rendendo evidente la mano inanellata. La pernice in primo piano sembra monito per lui: se da un lato il volatile è simbolo di fedeltà per l’abitudine a seguire il compagno, dall'altro, rubando spesso uova da altri nidi e covando prole che, una volta adulta fuggirà associandosi alla propria specie, è segno di chi si appropria indebitamente di ricchezze altrui. Il banchiere è dunque invitato ad amministrare con lealtà i beni che gli sono affidati.
L'orientale rappresenta l'umanità lontana dai Sacramenti. Il Carpaccio aveva assegnato fogge orientali anche agli ebrei nel ciclo dedicato a Santo Stefano; un ghetto, del resto, sarà aperto a Venezia nel 1516, a causa dei dissidi con i cristiani. L'impero ottomano poi continuava a rappresentare una minaccia per la Serenissima e dunque, in quest’uomo scalzo e sorprendentemente rilassato, possiamo individuare quanti attendono con sufficienza l'ora propizia per ferire. L’anforisco in primo (vaso funerario), rappresenta una sorta di memento mori, tanto per il turco che per noi. Il Carpaccio ci aiuta a riflettere sul viaggio della fede lungo i secoli e le continue minacce mussulmane e non. Cristo ci guarda rilanciando a noi la domanda: non siamo forse più preoccupati dei crack finanziari che della difesa della nostra identità cristiana?
Carpaccio non fu il primo, del resto, a realizzare simili Cene in Emmaus. Un impianto scenico analogo, infatti, lo aveva già realizzato Marco Marziale, sempre a Venezia nel 1505. Qui i due invitati fuori programma rimandano alle conquiste del nuovo mondo e a quella parte di umanità che ancora non conosceva il Vangelo. Ai lati del Cristo, oltre allo schiavo di colore, abbiamo un devoto mercante, forse proprietario dello schiavo, che attesta la sua fede nel Mistero togliendosi il copricapo.
Se i due discepoli di Emmaus questa volta hanno entrambi abiti tipici dei romei e quindi esprimono la fede certa di quanti intraprendevano pellegrinaggi verso i luoghi santi mettendo spesso a rischio la vita, i due anonimi personaggi sullo sfondo hanno il compito di attualizzare la scena. È commovente lo sguardo dello schiavo, non al Cristo, ma al suo padrone che con il gesto umile di togliersi il berretto insegna la fede. Il Cristo, che anche qui ci guarda, interroga noi. Non le grandi gesta (quindi non solo pellegrinaggi e crociate), ma i gesti semplici vissuti nella fedeltà e nella verità possono, spesso, in-segnare la fede e cambiare il corso della storia.
ImmaginI Vittore Carpaccio, Cena in Emmaus, 1513, dipinto su tavola, 260 x 375 cm, Chiesa di San Salvador, Venezia
Marco Marziale, Cena in Emmaus, 1506, dipinto su tavola, 122 x 141 cm, Gallerie dell'Accademia, Venezia
da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza
Costui è l’uomo di fede, in cammino, nel quale tutti ci possiamo identificare. Nessuno guarda Cristo e solo Cristo guarda noi. Spezzando il pane, con tre pesci davanti a sé, il Salvatore chiede conto del nostro comportamento rispetto alla fede e alla vita: pani e pesci, infatti, cibo quaresimale, invitano alla sobrietà, mentre la mano benedicente sul pane, è rimando all’Eucaristia. I pellegrini mangiano pollame e sono invece a digiuno i due ospiti illustri. Il banchiere trattiene con una certa supponenza la veste, rendendo evidente la mano inanellata. La pernice in primo piano sembra monito per lui: se da un lato il volatile è simbolo di fedeltà per l’abitudine a seguire il compagno, dall'altro, rubando spesso uova da altri nidi e covando prole che, una volta adulta fuggirà associandosi alla propria specie, è segno di chi si appropria indebitamente di ricchezze altrui. Il banchiere è dunque invitato ad amministrare con lealtà i beni che gli sono affidati.
L'orientale rappresenta l'umanità lontana dai Sacramenti. Il Carpaccio aveva assegnato fogge orientali anche agli ebrei nel ciclo dedicato a Santo Stefano; un ghetto, del resto, sarà aperto a Venezia nel 1516, a causa dei dissidi con i cristiani. L'impero ottomano poi continuava a rappresentare una minaccia per la Serenissima e dunque, in quest’uomo scalzo e sorprendentemente rilassato, possiamo individuare quanti attendono con sufficienza l'ora propizia per ferire. L’anforisco in primo (vaso funerario), rappresenta una sorta di memento mori, tanto per il turco che per noi. Il Carpaccio ci aiuta a riflettere sul viaggio della fede lungo i secoli e le continue minacce mussulmane e non. Cristo ci guarda rilanciando a noi la domanda: non siamo forse più preoccupati dei crack finanziari che della difesa della nostra identità cristiana?
Carpaccio non fu il primo, del resto, a realizzare simili Cene in Emmaus. Un impianto scenico analogo, infatti, lo aveva già realizzato Marco Marziale, sempre a Venezia nel 1505. Qui i due invitati fuori programma rimandano alle conquiste del nuovo mondo e a quella parte di umanità che ancora non conosceva il Vangelo. Ai lati del Cristo, oltre allo schiavo di colore, abbiamo un devoto mercante, forse proprietario dello schiavo, che attesta la sua fede nel Mistero togliendosi il copricapo.
Se i due discepoli di Emmaus questa volta hanno entrambi abiti tipici dei romei e quindi esprimono la fede certa di quanti intraprendevano pellegrinaggi verso i luoghi santi mettendo spesso a rischio la vita, i due anonimi personaggi sullo sfondo hanno il compito di attualizzare la scena. È commovente lo sguardo dello schiavo, non al Cristo, ma al suo padrone che con il gesto umile di togliersi il berretto insegna la fede. Il Cristo, che anche qui ci guarda, interroga noi. Non le grandi gesta (quindi non solo pellegrinaggi e crociate), ma i gesti semplici vissuti nella fedeltà e nella verità possono, spesso, in-segnare la fede e cambiare il corso della storia.
ImmaginI Vittore Carpaccio, Cena in Emmaus, 1513, dipinto su tavola, 260 x 375 cm, Chiesa di San Salvador, Venezia
Marco Marziale, Cena in Emmaus, 1506, dipinto su tavola, 122 x 141 cm, Gallerie dell'Accademia, Venezia
da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza
giovedì 9 aprile 2015
Le api in primavera, simbolo di resurrezione
Un tempo davvero strano quello in cui questo imitatore di Mantegna (per alcuni il Mantegna stesso) colloca l’incontro fra il Risorto e la Maddalena. Un cielo terso primaverile, un alveare che pullula di api bottinatrici come se ne vedono a maggio e ancora, sopra il capo di Cristo, grappoli d’uva già matura, come a settembre. Il Risorto inaugura un tempo che durerà fino alla parusia e abbraccia tutte le stagioni.
Sopra la roccia sepolcrale c’è anche un albero secco, segno di quell’inverno di morte che Cristo ha sconfitto con la sua risurrezione. Né la Maddalena, né il Signore Gesù sembrano preoccupati dello sciame d’api che li circonda, anzi esse sono la principale significazione dell’accaduto. Fin dall’antichità le api erano tenute in gran conto: per Plinio il vecchio, uscendo dall’alveare a primavera, esse sono segno della risurrezione; anche Cristo è uscito dal Sepolcro a primavera dopo aver attraversato l’inverno della morte. Per il Phisiologus le api, che per difendere il miele sacrificano il loro pungiglione e muoiono, sono segno del Cristo Cristo il quale, per darci il suo miele (l’Eucaristia), si è sacrificato per noi. Le api poi sono vergini tutta la vita proprio come Cristo e la sua beata Madre, vivono laboriosamente e proteggono eroicamente l’alveare e la loro regina (o il loro re, cioè Cristo, come interpretavano i Medievali). Abbiamo molto da imparare da questi simboli nascosti nell’arte. Abbiamo da imparare a difendere un po’ più gelosamente il nostro Re, la nostra cultura cristiana, la nostra fede. Abbiamo a difendere un po’ di più l’alveare della Chiesa, che, pur producendo da secoli “miele” di civiltà, oggi (con molti luoghi comuni senza alcuna fondatezza storica, ma pieni zeppi di bugie riprodotte, in un isterico copia incolla, su molti “autorevoli” libri di storia) si vuole conculcare o misconoscere. La Maddalena nella venerazione del suo re si è persino scordata il vasetto di nardo.
È rimasta lì a mani aperte a indicare a tutti la via della salvezza. Il Mantegna, questa volta lui sicuramente, dipinge due arnie, simili a questa, nella predella della Pala di San Zeno proprio dietro al Cristo in agonia nell’orto.
Le ha dipinte come torri minacciose che si levano contro la turba capitanata da Giuda che sopraggiunge da Gerusalemme per catturare il Maestro. Non ci sono ancora le api, perché il momento è segnato dall’inverno dell’agonia, presto però verrà la primavera della risurrezione e le api usciranno. Tuttavia anche qui, nel Getsemani, ci sono frutti e fiori e la vite è nel pieno del suo rigoglio, per significare agli sfiduciati che l’inverno mortifero non è l’ultima parola sull’uomo. La minaccia certo è in agguato: nel Noli me tangere dell’artista Anonimo là, in cima alla vite, c’è una vipera che attenta con il suo veleno un nido pieno di uova. La minaccia è in agguato ma Cristo, giardiniere del mondo, è vigilante. Egli ama la sua piantagione e la fa fruttificare.
ImmaginiNoli me tangere Anonimo (Andrea Mantegna?) 1475-1500 olio su legno 43.9 x 32 cm Londra National Gallery.
Andrea Orazione nell'orto, 70 x 92 cm, Mantegna particolare della Predella Pala di San Zeno, Tours, Musée des Beaux-Arts.
Andrea Orazione nell'orto, 70 x 92 cm, Mantegna particolare della Predella Pala di San Zeno, Tours, Musée des Beaux-Arts.
Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
sabato 4 aprile 2015
venerdì 3 aprile 2015
giovedì 2 aprile 2015
La tavola rotonda banchetto dell'umanità
Siamo nella sala del Cenacolo, vertiginosamente condotti in alto da questo anonimo bavarese che nel 1430 illustra l’ultima cena. Si tratta di una pagina della bibbia miniata di Otthaynrih, considerata la prima edizione tedesca di questo genere, che mostra, come vuole la tradizione orientale, una tavola rotonda. Ogni gerarchia è eliminata ma anche ogni rivendicazione di fedeltà. A questa tavola, ahimè, siede l’umanità che tradisce. Solo Giovanni si sottrae alla logica del cerchio, volgendosi di scatto e nascondendo il capo nel petto del Redentore. Anche Giuda non è immediatamente visibile. Sì, sono tutti traditori eppure sono anche tutti santi, nessuno manca dell’aureola, neppure Giuda.
Quest’ultimo siede proprio alla destra di Cristo e lo riconosciamo solo perché la sua aureola è interrotta, brilla sull’abito, ma non sul capo. Giuda è un chiamato, ma liberamente si è sottratto all’elezione. Un altro segno di riconoscimento per l’Iscariota è il gesto di mettere la mano nel piatto di Gesù. La miniatura, infatti, illustra il vangelo di Matteo. Nei sinottici Gesù indica il traditore come Colui che intinge la mano nel piatto, mentre in Giovanni Gesù stesso gli porge il boccone sacrilego. Lo sguardo dell’anonimo bavarese è pieno di misericordia per quest’umanità inconsapevole della gravità dell’ora. Giuda non si trova confinato in un angolo, è lì, in mezzo a tutti. Tutti mangiano un cibo che sarà farmaco d’immortalità. Al centro della tavola, sorprende come accanto all’agnello ci siano quattro uova, altre sono nel piatto di quattro apostoli, tra i quali Giuda. Le uova, alimento prescritto dalla Pasqua ebraica, sono un simbolo di rinascita e di risurrezione. Qui sono otto, segno di quella vita assolutamente nuova che Cristo è venuto a portare. Anche il pane è a forma di mandorla, altro simbolo di vita. Sul pavimento e sulla tovaglia ci sono losanghe segni di quella rete di morte che si abbatterà sopra il Salvatore. La tavola rotonda, diventata famosa per i cercatori del Santo Graal, è dunque il segno di quella mensa celeste dove Cristo passerà a servirci. A un tale banchetto si accede solo mettendosi in gioco. L’ombra del tradimento avvolge tutti, ma soccombe chi si ciba in modo indegno. Nel recente dibattito su chi ammettere all’Eucaristia forse non si è tenuto conto di un fattore fondamentale: ricevere la comunione significa condividere il sacrificio di Cristo per l’umanità, offrire se stessi per la salvezza del mondo. Dunque non un privilegio, ma la partecipazione a un parto che le uova e il pane a forma di mandorla del miniaturista bavarese annunciano.
Una ultima cena dalla tavola rotonda si trova anche nel Retablo de la Virgen a Sijena in Spagna ad opera di Jaume Serra (realizzato tra il 1367 e il 1381). Gli apostoli stanno consumando il pane già spezzato e Giuda, questa volta dall’altra parte del tavolo rispetto a Cristo sta mettendo la mano nel piatto centrale dove campeggia l’agnello. Qui non ci sono uova, ma l’eternità del banchetto è simboleggiata dal calice e dall’ostia che Cristo benedicente regge nella mano sinistra. Giovani è tra Gesù e l’agnello sacrificale e ancora una volta con la sua postura si sottrae alla dinamica del gruppo che sembra invece attraversata da un brivido di ansietà. Giuda è la figura più inquietante: consigliato dallo stesso Satana, stende la mano nel piatto mentre l’agnello sembra in procinto di addentarla. Nel piatto, attorno all’Agnello, ci sono otto croci simbolo dell’ottavo giorno, quello della risurrezione, inaugurato da questa mensa. Anche qui il significato permane, Giuda pur chiamato a quel banchetto vi si accosta senza accoglierne liberamente tutte le implicazioni. Se anche gli altri apostoli non saranno da meno in quanto a paura e tradimento, sono però certamente più abbandonati a quel mistero di sacrificio e grazia cui l’ultima cena di Gesù allude. L’abbandono totale lo denuncia solo l’apostolo Giovanni proprio in quell’umanissimo gesto di dormire tranquillo sotto il volere di Cristo al punto da scompigliare tutta la tovaglia.
Immagini
Maestro Anonimo Ultima Cena (pag 40) 1430, Pagina miniata della Otthereinrich-Bibel Bayerische Staatsbibliothek
Jaume Serra 1367 – 1381 Tempera su tavola 346,3 x 321 cm Museo Nazionale di Arte di Catalogna, Barcellona Spagna.
Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
Quest’ultimo siede proprio alla destra di Cristo e lo riconosciamo solo perché la sua aureola è interrotta, brilla sull’abito, ma non sul capo. Giuda è un chiamato, ma liberamente si è sottratto all’elezione. Un altro segno di riconoscimento per l’Iscariota è il gesto di mettere la mano nel piatto di Gesù. La miniatura, infatti, illustra il vangelo di Matteo. Nei sinottici Gesù indica il traditore come Colui che intinge la mano nel piatto, mentre in Giovanni Gesù stesso gli porge il boccone sacrilego. Lo sguardo dell’anonimo bavarese è pieno di misericordia per quest’umanità inconsapevole della gravità dell’ora. Giuda non si trova confinato in un angolo, è lì, in mezzo a tutti. Tutti mangiano un cibo che sarà farmaco d’immortalità. Al centro della tavola, sorprende come accanto all’agnello ci siano quattro uova, altre sono nel piatto di quattro apostoli, tra i quali Giuda. Le uova, alimento prescritto dalla Pasqua ebraica, sono un simbolo di rinascita e di risurrezione. Qui sono otto, segno di quella vita assolutamente nuova che Cristo è venuto a portare. Anche il pane è a forma di mandorla, altro simbolo di vita. Sul pavimento e sulla tovaglia ci sono losanghe segni di quella rete di morte che si abbatterà sopra il Salvatore. La tavola rotonda, diventata famosa per i cercatori del Santo Graal, è dunque il segno di quella mensa celeste dove Cristo passerà a servirci. A un tale banchetto si accede solo mettendosi in gioco. L’ombra del tradimento avvolge tutti, ma soccombe chi si ciba in modo indegno. Nel recente dibattito su chi ammettere all’Eucaristia forse non si è tenuto conto di un fattore fondamentale: ricevere la comunione significa condividere il sacrificio di Cristo per l’umanità, offrire se stessi per la salvezza del mondo. Dunque non un privilegio, ma la partecipazione a un parto che le uova e il pane a forma di mandorla del miniaturista bavarese annunciano.
Una ultima cena dalla tavola rotonda si trova anche nel Retablo de la Virgen a Sijena in Spagna ad opera di Jaume Serra (realizzato tra il 1367 e il 1381). Gli apostoli stanno consumando il pane già spezzato e Giuda, questa volta dall’altra parte del tavolo rispetto a Cristo sta mettendo la mano nel piatto centrale dove campeggia l’agnello. Qui non ci sono uova, ma l’eternità del banchetto è simboleggiata dal calice e dall’ostia che Cristo benedicente regge nella mano sinistra. Giovani è tra Gesù e l’agnello sacrificale e ancora una volta con la sua postura si sottrae alla dinamica del gruppo che sembra invece attraversata da un brivido di ansietà. Giuda è la figura più inquietante: consigliato dallo stesso Satana, stende la mano nel piatto mentre l’agnello sembra in procinto di addentarla. Nel piatto, attorno all’Agnello, ci sono otto croci simbolo dell’ottavo giorno, quello della risurrezione, inaugurato da questa mensa. Anche qui il significato permane, Giuda pur chiamato a quel banchetto vi si accosta senza accoglierne liberamente tutte le implicazioni. Se anche gli altri apostoli non saranno da meno in quanto a paura e tradimento, sono però certamente più abbandonati a quel mistero di sacrificio e grazia cui l’ultima cena di Gesù allude. L’abbandono totale lo denuncia solo l’apostolo Giovanni proprio in quell’umanissimo gesto di dormire tranquillo sotto il volere di Cristo al punto da scompigliare tutta la tovaglia.
Immagini
Maestro Anonimo Ultima Cena (pag 40) 1430, Pagina miniata della Otthereinrich-Bibel Bayerische Staatsbibliothek
Jaume Serra 1367 – 1381 Tempera su tavola 346,3 x 321 cm Museo Nazionale di Arte di Catalogna, Barcellona Spagna.
Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
mercoledì 1 aprile 2015
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