giovedì 16 dicembre 2010

Un sogno per domani (Pay it forward): alcune riflessioni...


Il metodo-Trevor (il protagonista) prevede che non si possa restituire il favore, ma che questo vada passato. C’è qualcosa di diverso in questa scelta: la gratuità. Io faccio un “favore” per bontà e non per sdebitarmi. Fare qualcosa per gli altri e non per se stessi: è questa la logica di Trevor, perché se si avesse la possibilità di avere qualcosa in cambio si sceglierebbero le persone da aiutare anche e soprattutto in base alle proprie esigenze e nessuno aiuterebbe chi davvero ne ha bisogno. La gratuità, inoltre, non consiste solo nel farlo senza “nulla a pretendere”, ma anche nello stile: io non lo faccio per sentirmi superiore agli altri, per vedermi riconosciuto uno status di bontà dagli altri o per prendermi i meriti (il ragazzo nero che in prigione dice al giornalista di essere l’ideatore del metodo). Quando aiuto gli altri lo faccio davvero gratuitamente? Mi aspetto qualcosa in cambio? Lodi, apprezzamento, maggiore considerazione? Mi sento superiore rispetto alla persone che ho aiutato? Ma la totale gratuità comporta, per assurdo, un curioso effetto collaterale: “sorridi ed il mondo ti sorriderà” oggi si può tradurre in “aiuta qualcuno e penseranno che gatta ci cova”. La sfiducia nel prossimo, infatti, è tale che non siamo in grado di riconoscere la bontà e il disinteresse di alcuni gesti: il giornalista che non si fida del regalo dell’avvocato e pensa possa esplodere, il professore quando Trevor gli chiede come sia rimasto ustionato (dimostrando interesse verso di lui) pensa subito che l’abbiano mandato i suoi amici per “gusto-per-la-chiacchiera”. Come siamo arrivati a questo punto? Ci è mai capitato di diffidare di chi ci voleva aiutare? Riusciamo a vedere un amico, un compagno di strada in chi ci è accanto o no? Restiamo sconvolti anche noi dall’amore e dalla bontà come il giornalista? Perché un tale messaggio di fiducia e speranza, di amore e di possibilità è così spiazzante? Forse perché se ci riesce un ragazzino di undici anni noi non abbiamo scuse? Perché ci sbatte in faccia la realtà del nostro io e della nostra natura? Perché ci fa capire che basta poco e che noi quel poco non lo facciamo?

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