domenica 23 novembre 2014
sabato 22 novembre 2014
Lo strapotere della finanza e l'identità europea
«Paga l'Austria» si usava dire un tempo, nel Norditalia, specie in Lombardia dove la mano dell'impero austroungarico si fece sentire pesante per parecchio tempo. «Paga l'Austria» anche per Antonio Natale, autore di questo affascinante Ratto d'Europa. Chiamato artista delle banconote per le sue originali composizioni che hanno sempre, come in filigrana, varie tipologie di denaro, Natale allude qui alla celebre narrazione mitologica. Europa, bellissima giovinetta, era al bagno con le sue amiche, Giove la vide e volendola per sé si tramutò in toro bianco. Attirate dall'immacolata innocenza del toro le fanciulle presero ad accarezzarlo ma quando Giove sentì su di se la mano di Europa, la rapì portandola al galoppo nel suo regno per prenderla in moglie.
Nell'opera di Antonio Natale Europa è una seducente modella, femminile, ma priva della sua chioma e quindi, in certo qual modo, ermafrodita. Avanza verso di noi e si volge indietro, il suo volto è ancora ben delineato e caratterizzato, ma non così il volto del Giove di turno. Il toro bianco non ha volto e, benché si trovi sullo sfondo e un po' arretrato, è il vero dominatore della scena. Il potere non ha mai volto perché la sua prosperità si fonda esattamente sopra camaleontiche manifestazioni. Il mito greco paradossalmente, ritorna nell'Europa attuale con una precisione allarmante. Chi domina la bella Europa non si espone, arretra con un apparente distacco ma, ahimè, il suo potere ha già totalmente investito la donna che sta progressivamente perdendo la sua identità per assumere l'unica che il potere le manifesta, quella del denaro. Il corpo del toro, infatti, è totalmente rivestito di banconote, che riproducono quelle austroungariche del 1908 (cioè nell’anno dell’ennesimo rinnovo della Triplice Alleanza) e anche Europa ne è ormai totalmente rivestita.

Nell'opera di Antonio Natale Europa è una seducente modella, femminile, ma priva della sua chioma e quindi, in certo qual modo, ermafrodita. Avanza verso di noi e si volge indietro, il suo volto è ancora ben delineato e caratterizzato, ma non così il volto del Giove di turno. Il toro bianco non ha volto e, benché si trovi sullo sfondo e un po' arretrato, è il vero dominatore della scena. Il potere non ha mai volto perché la sua prosperità si fonda esattamente sopra camaleontiche manifestazioni. Il mito greco paradossalmente, ritorna nell'Europa attuale con una precisione allarmante. Chi domina la bella Europa non si espone, arretra con un apparente distacco ma, ahimè, il suo potere ha già totalmente investito la donna che sta progressivamente perdendo la sua identità per assumere l'unica che il potere le manifesta, quella del denaro. Il corpo del toro, infatti, è totalmente rivestito di banconote, che riproducono quelle austroungariche del 1908 (cioè nell’anno dell’ennesimo rinnovo della Triplice Alleanza) e anche Europa ne è ormai totalmente rivestita.
Anche Andrè Martins de Barros usa le banconote per denunciare una crisi economica della quale non si riescono a comprendere fino in fondo i motivi. Questa volta è il dollaro ad essere protagonista e in campo non c’è il mitologico ratto di Europa, ma la casereccia Befana con tanto di calza sul capo che tiene ben stretto il Vademecum dell’economista. Come nell’opera di Natale anche qui il volto è anonimo, sorridente e grottesco denuncia un mondo immerso nel pensiero unico dettato dagli equilibri economici.
Allo stesso modo ci ammonisce Antonio Natale prendendo a prestito, forse inconsapevolmente, la parabola del ricco Epulone: questi, benché ricco, non ha né volto né nome, mentre ha un volto preciso il povero Lazzaro. Così l'identità del popolo europeo sta per essere inghiottita dallo strapotere di una finanza di vario colore politico che, come suggeriva l'antico proverbio lombardo, pagherà tutti i nostri debiti, chiedendo però un prezzo in natura molto alto. Forse la crisi ci scuote dal torpore in cui siamo precipitati. Difendiamo la nostra cultura dall'asservimento a poteri che la distruggeranno! Meglio essere poveri e liberi che ricchi ma schiacciati da potentati prepotenti e irrispettosi.Immagini:
Antonio Natale, Il Ratto d’Europa (The Abduction of Europa), 2011, acrilico su 6 banconote originali Austro-ungariche del 1902; 38,5 x 38,5 cm.
André Martins de Barros Crise Economique, 2010; 236 x 300 cm, olio su tela Collezione Privata
Fonte: Da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza
venerdì 21 novembre 2014
La Vergine e l'Unicorno, dove è certa la salvezza
Lungo i secoli, l'immagine dell'unicorno, come animale rarissimo, ha accompagnato l'immaginario collettivo al punto tale che anche la scienza non tardò a interessarsene. Si scandagliarono graffiti e referti giungendo alla conclusione che l'unicorno non fu mai esistito. Vero è che di corni dell’unicorno è piena l'Europa e persino la regina Elisabetta ne conservava un esemplare. Benché la scienza abbia le sue ragioni, l'unicorno esiste nell'arte e nella cultura dei popoli con una miriade di significati.
Nell Trittico d'altare della chiesetta in Tonndorf (Turingia) il pannello centrale presenta una singolare annunciazione. La Madonna siede con tranquillità in un sontuoso giardino. La sua compostezza è tale da farla apparire una regina che delicatamente volge lo sguardo a uno strano cavaliere. Si tratta dell’arcangelo Gabriele che, in effetti, pare un guerriero con lancia in resta e corno da cacciatore. La preda è un placido unicorno che riposa sulle gambe della Vergine. Secondo il bestiario medioevale l’unicorno è un animale velocissimo e imprendibile, unico modo per catturarlo è quello di attirarlo con la presenza di una vergine, allora egli si accovaccia mansueto e immobile. Qui, nel Trittico, l’unicorno è Cristo stesso il quale non ha trovato miglior riposo in tutta la terra se non nel grembo della Vergine. Così attorno alla Madonna si sviluppano molti simboli che raccontano del suo candore verginale: il vello di Gedeone, la porta di Ezechiele, la verga di Arone, il vaso d’oro e la fonte sigillata. Ma il simbolo più sorprendente è quello dei quattro cani che accompagnano l’Arcangelo cacciatore; essi recano cartigli con le scritte: pace, verità, giustizia e misericordia. Sono parole contenute nel Salmo 85: «Amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo». I cani a caccia di questi beni si arrestano di fronte all’unica preda che potrà fornirli loro: la verità germogliata nel grembo di Maria, il Cristo, e la misericordia che sprigiona dalla sua passione.
In un manoscritto miniato del XIII secolo l’unicorno, tenuto stretto da una Madonna regina, viene raggiunto e ucciso da uomini armati. Mentre l’unicorno getta un ultimo sguardo, sereno e implorante, alla Madre, tra quest’ultima e il cacciatore in primo piano si svolge un dialogo muto. La Vergine sembra indicare col gesto della mano che proprio quel sangue darà agli uccisori la salvezza, mentre il Cacciatore sembra colpito da una corrente di grazia che gli muta lo sguardo. La sua lancia infatti, è totalmente rossa a differenza delle lance degli altri due cacciatori, come se il sangue di quell’unicorno lo avesse raggiunto proprio attraverso la sua arma. Da questo sangue soltanto sprigiona la misericordia che dà vita.
Noi, disincantati uomini del Duemila, che sappiamo con certezza come l’unicorno non esista, non sappiamo però indicare nessun luogo dove si possano trovare pace e misericordia, verità e giustizia. La nostra precisione scientifica fallisce di fronte al desiderio di un ordinamento nuovo che salvi la dignità dei singoli e restituisca ai popoli la loro unità nazionale. Bisognerebbe allora tornare a quel simbolo efficace dell’Unicorno, l’unico capace di promettere una salvezza certa che viene dall’Alto.
Immagini: La vergine e l’unicorno Trittico della Chiesa di Tonndorf Turingia. XV sec, olio su tavola, Pannello centrale.
L’uccisione dell’unicorno Codice miniato, Bestiario XII sec. Bodleian Library (Università di Oxford), Oxford, Regno Unito
Fonte: rubrica Dentro la bellezza, da Avvenire
venerdì 14 novembre 2014
Natale 1914: e il fante impose la tregua
E' stato pubblicato solo due giorni fa ed ha avuto già quasi 5 milioni di clic, quello che è destinato a diventare lo spot di Natale 2014. La particolarità di questo video è il soggetto, la I Guerra mondiale, di cui si celebra il centenario proprio questo anno.
La spontanea mobilitazione di soldati sul fronte occidentale produsse tante piccole «tregue di Natale», coinvolgendo in particolare militari inglesi e tedeschi, che si fronteggiavano nei campi trincerati nella zona di Ypres, Armentières e Lille. I testimoni ricordano molti commoventi episodi: i canti natalizi, primo fra tutti Stille Nacht che si rimbalzavano nelle due lingue da una trincea all’altra, poi la timida apparizione di cartelli con scritte augurali. E, finalmente, con molta circospezione, gruppetti di soldati disarmati che uscivano dalle trincee, camminando lentamente verso le postazioni nemiche recando doni e biglietti augurali. Quasi sospinti da una forza invisibile– la forza residua dell’umanità dopo mesi di orrori e violenze – ben presto decine, centinaia di fanti dei due eserciti si ritrovarono nella terra di nessuno, stringendosi le mani, abbracciandosi, scambiandosi regali e cartoline, mostrandosi a vicenda le foto delle fidanzate e, persino in qualche caso, suonando, ballando e dando vita a partite di calcio con una palla fatta di stracci.
Fu il New York Times, con una corrispondenza dalla Francia settentrionale del 30 dicembre del 1914, a rompere il velo di silenzio su questi episodi che furono numerosi. Il corrispondente di guerra del giornale americano notava che tra i reticolati i combattenti dei due fronti erano riusciti a dar vita a una vera e propria celebrazione in comune delle festività. E raccontava un fatto curioso di cui era venuto a conoscenza. A iniziare erano stati due soldati inglesi che, dopo aver inalberato il segnale di tregua, si erano avvicinati prudentemente alle trincee tedesche. Lì erano stati ricevuti con tutti gli onori: e in cambio di fette di mince pie (un dolce tipico natalizio inglese) avevano ricevuto vino e liquori, tornando incolumi alla base. Poche ore dopo, due fanti prussiani si apprestavano a restituire la visita, ma una zelante sentinella inglese, vedendoli arrivare, li aveva arrestati puntandogli il fucile contro. L’incidente venne prontamente risolto dall’intervento di un ufficiale inglese, che accettati i doni e scambiati gli auguri, ordinò alla sentinella di lasciare che i due tornassero alla loro trincea.
Non tutti gli ufficiali, specie quelli superiori, però furono condiscendenti. Gli alti comandi dell’una e dell’altra parte, colti di sorpresa da questa esplosione di umanità, andarono su tutte le furie. Non potendo punire migliaia di soldati (tale fu l’ampiezza del fenomeno), decisero di porre rimedio alla pericolosa “fraternizzazione” coi nemici a partire dalle festività successive, con tassativi divieti, rigidi controlli e avvicendando i combattenti nelle trincee alla vigilia dei giorni di festa. L’Italia nel 1914 non era ancora in guerra. Ma nemmeno il Comando supremo italiano avrebbe tollerato scambi di auguri natalizi con il nemico. Come attesta, tra le tante, la vicenda (raccontata da Alberto Monticone nel suo libro
Plotone di esecuzione) dell’aretino M.E., 23 anni, caporale in forza del 129° fanteria, condannato a un anno di reclusione militare per «rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico». Cosa era successo? Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 1916 sul Monte Zebio, è riportato nella sentenza di condanna, «gli austriaci esposero un cartellone con suvvi scritto a grandi caratteri “Buon Natale” in lingua tedesca. Il caporale M.E. rispose, gridando nella stessa lingua un ringraziamento e un contraccambio». E questo nonostante che dal comando del corpo d’Armata fossero state date «precise istruzioni» per «evitare rigorosamente siffatte deplorevoli manifestazioni».

FRONTE OCCIDENTALE. 1914, soldati tedeschi ed inglesi in Belgio fraternizzano a Natale
Fonti: http://www.robertosconocchini.it/ e http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/TREGUA-.aspx
Il regista mette in scena un fatto realmente accaduto il giorno di Natale del 1914, quando i cannoni tacquero e i due eserciti tedeschi e britannici si incontrarono in terra di nessuno, si scambiarono dei doni e finirono persino per improvvisare una partita di calcio. E' quella che venne denominata la "Tregua di Natale". Lo sponsor del video è Sainsburry, che ha messo in vendita la barretta di cioccolato presente nello spot per donare in beneficienza alla Royal British Legion l'intero ricavato. Nel sito web di Sainsburry trovate tutte le informazioni su questa inziativa
Ecco il video
La spontanea mobilitazione di soldati sul fronte occidentale produsse tante piccole «tregue di Natale», coinvolgendo in particolare militari inglesi e tedeschi, che si fronteggiavano nei campi trincerati nella zona di Ypres, Armentières e Lille. I testimoni ricordano molti commoventi episodi: i canti natalizi, primo fra tutti Stille Nacht che si rimbalzavano nelle due lingue da una trincea all’altra, poi la timida apparizione di cartelli con scritte augurali. E, finalmente, con molta circospezione, gruppetti di soldati disarmati che uscivano dalle trincee, camminando lentamente verso le postazioni nemiche recando doni e biglietti augurali. Quasi sospinti da una forza invisibile– la forza residua dell’umanità dopo mesi di orrori e violenze – ben presto decine, centinaia di fanti dei due eserciti si ritrovarono nella terra di nessuno, stringendosi le mani, abbracciandosi, scambiandosi regali e cartoline, mostrandosi a vicenda le foto delle fidanzate e, persino in qualche caso, suonando, ballando e dando vita a partite di calcio con una palla fatta di stracci.
Fu il New York Times, con una corrispondenza dalla Francia settentrionale del 30 dicembre del 1914, a rompere il velo di silenzio su questi episodi che furono numerosi. Il corrispondente di guerra del giornale americano notava che tra i reticolati i combattenti dei due fronti erano riusciti a dar vita a una vera e propria celebrazione in comune delle festività. E raccontava un fatto curioso di cui era venuto a conoscenza. A iniziare erano stati due soldati inglesi che, dopo aver inalberato il segnale di tregua, si erano avvicinati prudentemente alle trincee tedesche. Lì erano stati ricevuti con tutti gli onori: e in cambio di fette di mince pie (un dolce tipico natalizio inglese) avevano ricevuto vino e liquori, tornando incolumi alla base. Poche ore dopo, due fanti prussiani si apprestavano a restituire la visita, ma una zelante sentinella inglese, vedendoli arrivare, li aveva arrestati puntandogli il fucile contro. L’incidente venne prontamente risolto dall’intervento di un ufficiale inglese, che accettati i doni e scambiati gli auguri, ordinò alla sentinella di lasciare che i due tornassero alla loro trincea.
Non tutti gli ufficiali, specie quelli superiori, però furono condiscendenti. Gli alti comandi dell’una e dell’altra parte, colti di sorpresa da questa esplosione di umanità, andarono su tutte le furie. Non potendo punire migliaia di soldati (tale fu l’ampiezza del fenomeno), decisero di porre rimedio alla pericolosa “fraternizzazione” coi nemici a partire dalle festività successive, con tassativi divieti, rigidi controlli e avvicendando i combattenti nelle trincee alla vigilia dei giorni di festa. L’Italia nel 1914 non era ancora in guerra. Ma nemmeno il Comando supremo italiano avrebbe tollerato scambi di auguri natalizi con il nemico. Come attesta, tra le tante, la vicenda (raccontata da Alberto Monticone nel suo libro
Plotone di esecuzione) dell’aretino M.E., 23 anni, caporale in forza del 129° fanteria, condannato a un anno di reclusione militare per «rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico». Cosa era successo? Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 1916 sul Monte Zebio, è riportato nella sentenza di condanna, «gli austriaci esposero un cartellone con suvvi scritto a grandi caratteri “Buon Natale” in lingua tedesca. Il caporale M.E. rispose, gridando nella stessa lingua un ringraziamento e un contraccambio». E questo nonostante che dal comando del corpo d’Armata fossero state date «precise istruzioni» per «evitare rigorosamente siffatte deplorevoli manifestazioni».
FRONTE OCCIDENTALE. 1914, soldati tedeschi ed inglesi in Belgio fraternizzano a Natale
Fonti: http://www.robertosconocchini.it/ e http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/TREGUA-.aspx
giovedì 6 novembre 2014
La nostra speranza non finirà in pasto ai corvi
L’artista danese August Friedrich Schenck scandaglia i rapporti umani attraverso la metafora degli animali. In uno dei suoi dipinti, un panorama innevato e freddo con un cielo plumbeo esprime fortemente la sensazione di angoscia di fronte alla morte. Angoscia, del resto, è il titolo stesso dell’opera. Una pecora madre sta al centro della composizione, statutaria. Le zampe, affondate nel suolo innevato, vogliono proteggere ancora un poco il giovane agnello che appare senza vita. Ignoriamo la causa della morte, vediamo solo un rigolo di sangue che traccia la neve. Capiamo che la pecora non si arrende alla sconfitta, il fiato disegna una colonna di vapor acqueo nell’aria che racconta il suo grido, il suo pianto. Attorno, corvi, come avvoltoi, attendono che la madre abbandoni la preda, ma essa la difende, sperando contro ogni speranza che il figlio torni a vivere. Scorgiamo in questa pecora, come in filigrana, l’uomo ferito dalla morte di coloro che gli sono cari. L’uomo che ha in sé il germe dell’eternità e vorrebbe gridare a chi ama: tu puoi non morire!

Eppure accade ora di vedere, a tratti, che per qualcuno non è cosi. Qualcuno di fronte alla morte ha mollato la presa, si è arreso, l’ha accettata come componente normale dell’esistenza, anzi ha deciso di programmarla per sottrarsi alla morsa del dolore o dell’incognita. Così mi appaiono, in fondo, i corvi di Schenck: avidi nello sfruttare al minimo le occasioni, rapaci, appunto, per nulla scossi dalla determinazione fiera di quella madre a salvaguardare il suo piccolo fino all’ultimo respiro e anche oltre. Oltre la morte. No, quel piccolo non sarà abbandonato in pasto ai corvi, non finirà inghiottito dalla neve come dal nulla. Egli vivrà nella memoria di questo grido materno e di quella zampa protesa a preservare il suo corpo esanime.

Viene in mente il cipresso di van Gogh nella notte stellata, dipinto quasi negli stessi anni. Anche quello è un grido di speranza che sale verso il cielo ingombro di stelle. In questa tela di van Gogh il cielo sembra essersi fatto così basso e le selle rotolare così gioiose per quella vita che esse conoscono ma che, in fondo, ignorano i parrocchiani di Saint Remy! Anche se la piccola chiesa lancia nel cielo il suo campanile come certezza di una vita senza fine, non sempre le sue pietre parlano al cuore di chi, come van Gogh, dispera. Per questo il pittore guarda il panorama notturno come dall’alto del cipresso. Quel cipresso segna il cimitero, il luogo della memoria, il luogo di chi non accetta la fine della vita come l’approdo a un nulla senza speranza. Di questo c’è bisogno. L’avventura dell’homo sapiens, del resto, incomincia con un cimitero, la civiltà comincia dall’uomo che vuole conservare la memoria della vita in attesa di una risposta definitiva. Molto più noi non possiamo rassegnarci a un di meno, non possiamo come i corvi sfruttare la vita al massimo possibile. Deve salire al cielo il nostro grido, simile a quello della pecora di Schenck, deve verdeggiare nel cuore la speranza, come verdeggia il cipresso di van Gogh: qualcuno ha attraversato la morte e ha dato all’uomo la certezza dell’eternità. È Cristo l’agnello mansueto che ha accettato la morte, ridonando all’uomo la vita.
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
Eppure accade ora di vedere, a tratti, che per qualcuno non è cosi. Qualcuno di fronte alla morte ha mollato la presa, si è arreso, l’ha accettata come componente normale dell’esistenza, anzi ha deciso di programmarla per sottrarsi alla morsa del dolore o dell’incognita. Così mi appaiono, in fondo, i corvi di Schenck: avidi nello sfruttare al minimo le occasioni, rapaci, appunto, per nulla scossi dalla determinazione fiera di quella madre a salvaguardare il suo piccolo fino all’ultimo respiro e anche oltre. Oltre la morte. No, quel piccolo non sarà abbandonato in pasto ai corvi, non finirà inghiottito dalla neve come dal nulla. Egli vivrà nella memoria di questo grido materno e di quella zampa protesa a preservare il suo corpo esanime.
Viene in mente il cipresso di van Gogh nella notte stellata, dipinto quasi negli stessi anni. Anche quello è un grido di speranza che sale verso il cielo ingombro di stelle. In questa tela di van Gogh il cielo sembra essersi fatto così basso e le selle rotolare così gioiose per quella vita che esse conoscono ma che, in fondo, ignorano i parrocchiani di Saint Remy! Anche se la piccola chiesa lancia nel cielo il suo campanile come certezza di una vita senza fine, non sempre le sue pietre parlano al cuore di chi, come van Gogh, dispera. Per questo il pittore guarda il panorama notturno come dall’alto del cipresso. Quel cipresso segna il cimitero, il luogo della memoria, il luogo di chi non accetta la fine della vita come l’approdo a un nulla senza speranza. Di questo c’è bisogno. L’avventura dell’homo sapiens, del resto, incomincia con un cimitero, la civiltà comincia dall’uomo che vuole conservare la memoria della vita in attesa di una risposta definitiva. Molto più noi non possiamo rassegnarci a un di meno, non possiamo come i corvi sfruttare la vita al massimo possibile. Deve salire al cielo il nostro grido, simile a quello della pecora di Schenck, deve verdeggiare nel cuore la speranza, come verdeggia il cipresso di van Gogh: qualcuno ha attraversato la morte e ha dato all’uomo la certezza dell’eternità. È Cristo l’agnello mansueto che ha accettato la morte, ridonando all’uomo la vita.
Immagini
August Friedrich Schenck, Angoscia, 1880, olio su tela cm 151 x 251, Collezioni internazionali della Galleria Nazionale di Victoria, Melbourne.
Vincent van Gogh, Notte stellata 1889, olio su tela, cm 73 × 92 Museum of Modern Art, New York
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
giovedì 30 ottobre 2014
L'origine cattolica delle mele di Halloween
L’artista ottocentesco irlandese Daniel Maclise immortalò, in diverse opere, le celebrazioni notturne di Halloween, in cui è possibile vedere uno dei giochi più usati in quella circostanza. Tali giochi (come pure la festa) prendevano le mosse da un’usanza cristiana.

Il gioco cristiano era detto di Adamo ed Eva o gioco dell’albero. Su un albero, spesso una conifera – simbolo della Trinità - si appendevano mele e ostie: le prime, cibo di Eva, madre dei morenti; le seconde, cibo di Maria, madre dei viventi. Bimbi bendati dovevano accostarsi all’albero e ricevere le cibarie da due bambine che rappresentavano Eva e la Madonna. Occorreva riconoscere le mani dell’una e dell’altra e acquistarsi la vita eterna, con le ostie, o la morte, con le mele.

Il celebre Polittico dell’Agnello di van Eyck, il cui tema di fondo è proprio la festa di Ognissanti, pone, all’interno del polittico, in alto ai lati, proprio i due progenitori dove Eva tiene fra le mani una mela. La Madonna invece, ha in mano il libro della vita e indica, con il capo, Dio Padre che ha sul trono il ricamo del pellicano, segno del banchetto di vita cui il Figlio suo (presente sotto in forma d’agnello) invita. Secondo la Legenda aurea il 1° novembre tutti i Santi si recano in Paradiso a rendere omaggio alla Trinità, cosicché van Eyck raffigura otto gruppi di uomini e donne, rappresentanti di tutti i ceti della società di allora che, come esponenti delle beatitudini, salgono a Dio esultanti. La festa dei defunti era strettamente legata, a livello cristiano, a quella dei santi, cosicché Halloween nasce come festa cattolica tesa a rassicurare circa il destino eterno dei propri cari.
In una illustrazione del 1840 Maclise mostra, appunto, un gioco vigente ancor oggi ad Halloween: lo snap apple (addenta la mela). Bambini con le mani legate devono addentare una mela che viene gettata in un secchio d’acqua o fissata su un’asta incrociata. È evidente, dunque la valenza simbolica dei giochi, che producendo una cultura popolare, erano tesi ad educare. Nel corso dei secoli la festa di Halloween, anche a causa delle polemiche (luterane prima e puritane poi) che la tacciarono di magia e di esoterismo, è scivolata verso una cultura del macabro e dell’occulto che poco ha a spartire con la sua origine cattolica. Lo esprime il gioco stesso della mela: il primo educava a capire come nella vita siamo tutti bendati e che occorre affinare i sensi per scegliere bene. Il male, infatti, ha una sua appetibilità (com’è appetibile la mela), ma porta alla morte, mentre il bene non sempre porta con sé una soddisfazione immediata (come l’ostia), ma apre a una vita senza fine. Il secondo, invece, educava a lasciar liberi gli istinti (la bocca) legando le mani – cioè escludendo la ragione - per conquistare quel frutto a danno di altri.
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
Il gioco cristiano era detto di Adamo ed Eva o gioco dell’albero. Su un albero, spesso una conifera – simbolo della Trinità - si appendevano mele e ostie: le prime, cibo di Eva, madre dei morenti; le seconde, cibo di Maria, madre dei viventi. Bimbi bendati dovevano accostarsi all’albero e ricevere le cibarie da due bambine che rappresentavano Eva e la Madonna. Occorreva riconoscere le mani dell’una e dell’altra e acquistarsi la vita eterna, con le ostie, o la morte, con le mele.
Il celebre Polittico dell’Agnello di van Eyck, il cui tema di fondo è proprio la festa di Ognissanti, pone, all’interno del polittico, in alto ai lati, proprio i due progenitori dove Eva tiene fra le mani una mela. La Madonna invece, ha in mano il libro della vita e indica, con il capo, Dio Padre che ha sul trono il ricamo del pellicano, segno del banchetto di vita cui il Figlio suo (presente sotto in forma d’agnello) invita. Secondo la Legenda aurea il 1° novembre tutti i Santi si recano in Paradiso a rendere omaggio alla Trinità, cosicché van Eyck raffigura otto gruppi di uomini e donne, rappresentanti di tutti i ceti della società di allora che, come esponenti delle beatitudini, salgono a Dio esultanti. La festa dei defunti era strettamente legata, a livello cristiano, a quella dei santi, cosicché Halloween nasce come festa cattolica tesa a rassicurare circa il destino eterno dei propri cari.
In una illustrazione del 1840 Maclise mostra, appunto, un gioco vigente ancor oggi ad Halloween: lo snap apple (addenta la mela). Bambini con le mani legate devono addentare una mela che viene gettata in un secchio d’acqua o fissata su un’asta incrociata. È evidente, dunque la valenza simbolica dei giochi, che producendo una cultura popolare, erano tesi ad educare. Nel corso dei secoli la festa di Halloween, anche a causa delle polemiche (luterane prima e puritane poi) che la tacciarono di magia e di esoterismo, è scivolata verso una cultura del macabro e dell’occulto che poco ha a spartire con la sua origine cattolica. Lo esprime il gioco stesso della mela: il primo educava a capire come nella vita siamo tutti bendati e che occorre affinare i sensi per scegliere bene. Il male, infatti, ha una sua appetibilità (com’è appetibile la mela), ma porta alla morte, mentre il bene non sempre porta con sé una soddisfazione immediata (come l’ostia), ma apre a una vita senza fine. Il secondo, invece, educava a lasciar liberi gli istinti (la bocca) legando le mani – cioè escludendo la ragione - per conquistare quel frutto a danno di altri.
Immagini:
Daniel Maclise (1806-1870) Snap-Apple Night (Festa di Halloween in Blarney Co. Cork) 1832 litografia colorata a mano.
Jan e Hubert van Eyck Adorazione dell’Agnello Mistico, Polittico, 1432, olio su tavola, 350 x 461 cm. Cattedrale di San Bavone, Gand.
Daniel Maclise (1806-1870) Snap-Apple Night (Festa di Halloween in Blarney Co. Cork) 1832 litografia colorata a mano.
Jan e Hubert van Eyck Adorazione dell’Agnello Mistico, Polittico, 1432, olio su tavola, 350 x 461 cm. Cattedrale di San Bavone, Gand.
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
sabato 25 ottobre 2014
Riflessioni sul tema della vita come viaggio
In questo inizio di anno scolastico sto riflettendo con le classi terze sul tema della vita come viaggio. Un viaggio dall'uomo alla persona nel senso che ogni uomo nel corso della sua esistenza va formando una propria personalità. Si tratta di un viaggio fatto di tappe, tra le quali una delle più importanti è di sicuro l'adolescenza. Tra i materiali che ho usato per far riflettere i miei studenti ho usato la canzone Life is Sweet di Fabi, Silvestri, Gazzè.
Molto bello l'articolo di Pino Fanelli, su Insegnare Religione di settembre/ottobre 2014, che va a prendere in esame alcuni passaggi della canzone, di cui riporto di seguito il testo completo.
Disteso sul fianco passo il tempo, passo il tempo
fra intervalli di vento e terra rossa.
Cambiando cambiando prospettive
cerco di capire il verso giusto,
il giusto slancio per ripartire.
Questa partenza è la mia fortuna
Un orizzonte che si avvicina
Sotto il mio camion c'è la mia cucina
e intanto aspetto aspetto aspetto
che il fango liberi le mie ruote
che la pianura calmi la paura
che il giorno liberi la nostra notte
tutti insieme, tutti insieme
Ma tutti insieme siamo tanti, siamo distanti
siamo fragili macchine che non osano andare più avanti
siamo vicini ma completamente fermi
siamo famosi istanti divenuti eterni
E continuare per questi pochi chilometri sempre pieni di ostacoli
e baratri da oltrepassare sapendo già
che fra un attimo ci dovremo di nuovo fermare
Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
Con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!
Un ponte lascia passare le persone
un ponte collega i modi di pensare
un ponte chiedo solamente
un ponte per andare andare andare
E non bastava già questa miseria
Alzarsi e non avere prospettiva
E le punture quando viene sera
e la paura la paura
La paura che ci arresta che ci tempesta
non insetti che volano ma proiettili sopra la testa
È una puntura ma direi che è un po' diversa
La cura c'è ma l'aria non è più la stessa
E continuare non è soltanto una scelta
ma è la sola rivolta possibile.
Senza dimenticare che dopo pochi chilometri
ci dovremo di nuovo fermare
Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!
A prescindere dal tempo che è un concetto qui inutilizzabile
mi basterebbe avere un posto giusto da raggiungere
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet! Life is sweet!
E qui il link al podcast sullo stesso argomento costruito dalla classe 3E:
Molto bello l'articolo di Pino Fanelli, su Insegnare Religione di settembre/ottobre 2014, che va a prendere in esame alcuni passaggi della canzone, di cui riporto di seguito il testo completo.
Disteso sul fianco passo il tempo, passo il tempo
fra intervalli di vento e terra rossa.
Cambiando cambiando prospettive
cerco di capire il verso giusto,
il giusto slancio per ripartire.
Questa partenza è la mia fortuna
Un orizzonte che si avvicina
Sotto il mio camion c'è la mia cucina
e intanto aspetto aspetto aspetto
che il fango liberi le mie ruote
che la pianura calmi la paura
che il giorno liberi la nostra notte
tutti insieme, tutti insieme
Ma tutti insieme siamo tanti, siamo distanti
siamo fragili macchine che non osano andare più avanti
siamo vicini ma completamente fermi
siamo famosi istanti divenuti eterni
E continuare per questi pochi chilometri sempre pieni di ostacoli
e baratri da oltrepassare sapendo già
che fra un attimo ci dovremo di nuovo fermare
Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
Con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!
Un ponte lascia passare le persone
un ponte collega i modi di pensare
un ponte chiedo solamente
un ponte per andare andare andare
E non bastava già questa miseria
Alzarsi e non avere prospettiva
E le punture quando viene sera
e la paura la paura
La paura che ci arresta che ci tempesta
non insetti che volano ma proiettili sopra la testa
È una puntura ma direi che è un po' diversa
La cura c'è ma l'aria non è più la stessa
E continuare non è soltanto una scelta
ma è la sola rivolta possibile.
Senza dimenticare che dopo pochi chilometri
ci dovremo di nuovo fermare
Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!
A prescindere dal tempo che è un concetto qui inutilizzabile
mi basterebbe avere un posto giusto da raggiungere
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet! Life is sweet!
E qui il link al podcast sullo stesso argomento costruito dalla classe 3E:
Etichette:
Adolescenza,
Podcast,
Riflessioni,
Terze,
Valori
Iscriviti a:
Post (Atom)