giovedì 13 agosto 2015

Occhi aperti sulle “Auschwitz” dei nostri giorni

Era uno dei 70.000 ebrei della città di Vilnius. Sono tornati in duecento. Samuel Bak aveva undici anni ed è tornato stringendo il braccio a sua madre, il tesoro più prezioso che gli fosse rimasto. Tali cifre inquietanti sono un nulla se confrontate con i 44 milioni di aborti praticati in Europa nel 2014. Così, nell’anniversario dell’uccisione di Massimiliano Kolbe, morto ad Aushwitz per salvare un padre di famiglia, impressiona guardare alcuni dipinti di Samuel Bak. Uno, dal titolo Il cielo era il limite, racconta di orsacchiotti, gioco intramontabile per i bambini di ogni generazione, che giacciono inermi come anelanti al cielo. L’orizzonte è precluso da un alto muro di mattoni e il brandello di cielo che lascia intravvedere si riflette drammaticamente in una tela, posta su un cavalletto rudimentale.

Bak_riva1_47281488.jpg

Quegli orsi di peluche sono la memoria dei bambini che non sono più. Essi suonano come denuncia e monito verso noi adulti che guardiamo. Alcuni orsi sono irrimediabilmente sepolti dall’erba. Si sono lasciati annegare da quel mare di rabbia. Non c’è odio nelle loro espressioni, ma solo desolazione. Altri sono colti nell’ideale sforzo di sollevarsi, di cercare ancora - oltre quel cielo di cartone - il barlume della speranza. In un'altra opera, dal titolo Interruzione, il cielo non c’è. Esiste solo l’orsetto abbandonato tra giochi immoti che non possono più divertire. È colpito al cuore e l’unico cielo rimasto è quello stampato sul volto. Lo sguardo fisso nel vuoto denuncia un gioco interrotto che non sarà mai più ripreso.
Nella prima opera di Bak, sul cavalletto - dietro all’orso più grande, ancora sorridente, al quale si appoggia un orsetto più piccolo in cerca di protezione - si distingue il profilo di una chiesa. Non pare una Chiesa capace di dare speranza, il suo colore è lo stesso degli orsacchiotti. Sale dal nulla, quasi a volere ostinatamente sperare in quel Cielo, rimando a un Dio rimasto apparentemente muto di fronte a tanta violenza.

Bak_riva2_47281527.jpg

Anche noi durante l’estate, nei giorni di vacanza abbiamo la possibilità di contemplare quel cielo. Molti di noi giacciono sdraiati su una sabbia o un prato simile a quelli dipinti da Bak: come non pensare a quei 44 milioni di bambini che non vedranno mai il cielo? Bimbi che non hanno potuto nemmeno, similmente a Samuel Bak, stringere il braccio della madre per trovarvi rifugio? La madre, per loro, fu luogo di vita e di morte. Forse la riflessione parrà di cattivo gusto, messa lì bell’apposta per rovinare le vacanze. Ma queste ultime, per i più attenti, sono già state rovinate il 16 luglio scorso quando è esplosa la notizia del mercanteggio di feti. Estratti con cura (morti) dal grembo della madre, i feti sono smembrati e gli organi venduti. Tanta gratitudine allora a Samuel Bak che ci ricorda di tenere gli occhi aperti, molto bene aperti, perché, con il nostro tacito consenso, Auschwitz continua e le vittime non sono solo ebrei.

Immagini
Samuel Bak, Il cielo era il limite, olio su tela, 2001 cm. 36 x 36 " Collezione Privata
Samuel Bak Interruzione, olio si tela, cm 24 x 20 Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 6 agosto 2015

Trasfigurati con Lui in una mandorla di luce

Non è un uovo quello che incornicia il Cristo trasfigurato del Beato Angelico, ma una mandorla di luce. Chi non ha avuto occasione di notare opere in cui Dio Padre, o Cristo, o la Madonna stanno dentro una mandorla? O ancora: chi, sposandosi, non ha regalato confetti alla mandorla? La forma della mandorla, prodotta dall'intersezione di due curve dello stesso diametro, rappresenta l'unione tra cielo e terra, fra spirito e materia. Essa rimanda anche alla forma del pesce e di tutti gli orifizi umani: occhi, bocca ma anche alla vescica, non a caso il nome tecnico assegnatole nell'arte è vesica piscis. In tal senso la mandorla è rimando alla vita e alla fecondità femminile; per questo, nei matrimoni, invalse l'uso di regalare dolci a base di mandorle ricoperte di zucchero bianco, simbolo della verginità della sposa destinata a diventare feconda grazie alle nozze.

Fra_Angelico_042.jpg

Nel Convento di san Marco in Firenze, per accedere alla cella n° 6 si passa di fronte alla Madonna, detta delle ombre, dove la Vergine seduta in trono indica il Cristo Bambino benedicente con il mondo in mano. L'antico monaco che, lasciando la luce dell'abito del divino Infante, entrava nella cella n°6, contemplava un altro abito candido, quello del Cristo trasfigurato che, pur nel fulgore della luce da risorto, apriva le braccia in croce. Solo il beato Angelico ha saputo fondere così sapientemente l'evento della trasfigurazione con la crocifissione, insegnando ai monaci che le sofferenze, se sopportate con Cristo, portano a una vita nuova e a una gloria duratura, come gloriosa appare la mandorla che avvolge il Cristo trasfigurato.
La mandorla, come la noce, per il suo guscio di legno che cela una polpa candida e per il suo sapore, che nella dolcezza del frutto conserva un gusto amarognolo, evoca il legno della croce che ci ha dato il frutto buono della risurrezione. E noi siamo lì, idealmente rappresentati dai tre discepoli che nella postura raccontano il loro destino. Pietro, a destra, in ginocchio a mani levate, rappresenta quanti, pur scelti per un ministero, fanno esperienza della loro fragilità. Giacomo di spalle, mentre si fa scudo con la mano per proteggersi dal bagliore del Cristo, è vicinissimo ai piedi del Maestro: egli indica quanti in una vita breve e sofferta seguono da vicino le orme di Gesù. Giovanni disegna il profilo degli assetati di verità: è l'unico che guarda il Mistero e tende le mani verso di esso quasi volesse abbeverarsi alla sua luce. Se rompere la mandorla porta al frutto, andare oltre la croce porta l'uomo al compimento di un destino buono che proprio la sofferenza rivela.


da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 30 luglio 2015

Le nostre vanità come bolle di sapone al vento

Una mistica, poco conosciuta ma di grande spessore umano e religioso, vissuta al tempo di san Giovanni Bosco e fondatrice delle Adoratrici Perpetue di Monza, Madre Serafina della Croce, un giorno ebbe una singolare visione. Mentre era in estasi, sotto lo sguardo delle consorelle che tutto annotarono diligentemente, madre Serafina prese a fare delle bolle di sapone protestando a Gesù, e a chi l’ascoltava, che tale è il nostro amore e la nostra fedeltà verso Dio e gli uomini. Certo Madre Serafina, che come Caterina da Siena era analfabeta, non poteva sapere quanto fosse in auge la bolla di sapone nell’arte. Innumerevoli opere la ritraggono suggerendo spesso significati reconditi e legati al tema della vanitas. Sì, vanità delle vanità, tutto è vanità. Tali soggetti, spesso non religiosi, mettono in guardia l’uomo dal promettersi troppo repentinamente a una vita senza valori né spessore.

riva1_47054266.jpg

Lo fa, ad esempio, il pittore francese Charles Joshua Chaplin, maestro della più celebre Mary Cassat, ritraendo una fanciulla seduta, intenta a fare bolle di sapone. La scena evoca quello che accadde nel Convento monzese solo una quindicina d’anni prima del dipinto e, dietro all’apparente ritratto, si celano ulteriori significati. In primo piano sta anzitutto un arcolaio, rimando allusivo alla femminilità, accanto vi troviamo un fuso che, invece, ha un significato negativo, di violazione della femminilità stessa (è spesso attributo delle donne di malaffare). La ragazza, bellissima nel suo candore verginale, è in attesa del ballo che forse la prometterà al principe azzurro, ma ancora indugia nel gioco preferito della sua fanciullezza: le bolle di sapone. Quelle bolle salgono verso l’alto andando a infrangersi davanti all’ombra di una finestra proiettata sul muro, l’ombra di una croce. Il contrasto, tra la rappresentazione pittorica piena di poesia e il significato amaro, è forte: con esso il pittore vuole mettere in guardia i contemporanei di fronte alle allettanti prospettive di piaceri che, se non ben governati, sfociano nella croce. Non faccio fatica a riconoscere in questo ritratto buona parte della nostra patria che ancora si trastulla nella sua antica libertà e nell’ingenua attesa di un Principe azzurro che la tolga dai guai. Invece, come amava ripetere Madre Serafina, che visse nelle turbolenze risorgimentali: chi gioisce è l’amore, ma chi trionfa è la croce. Sì, ciò che ci salva è davvero solo la croce che, nel panorama quotidiano, rimane ahimè solo come un’ombra o come sfondo alle notizie divulgate dai mass media sui martiri cristiani.

riva2_47054267.jpg

Un altro artista, Ignaz Stern, di origine austriaca e molto attivo in Italia, dipinse un delicato Cupido che, circondato da rose, soffia acqua saponata dentro una cannuccia, producendo meravigliose bolle trasparenti. Anche qui la dolcezza dell’amorino e la vaporosità dei fiori, s’infrangono di colpo, di fronte alla visione di un teschio sopra il quale Cupido poggia l’avambraccio destro. Il teschio è rimando a quella morte che decreta la fine di tutte le cose, anche le più belle, rendendole appunto vane. Il messaggio allora è chiaro: solo Cristo con la sua croce cambia il volto della morte e, annientandola con la risurrezione, restituisce alla bellezza delle cose terrene il suo carattere sacro e imperituro.

Immagini: Charlie Joshua Chaplin Le bolle di sapone olio su tela 1881 Collezione Privata
Ignaz Stern (detto Ignazio Stella) 1679-1748 Vanitas con Cupido Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 23 luglio 2015

Santa Brigida e la birra, che il brindisi sia spirituale

Erano darwinisti anche gli antichi sumeri, visto che, nell'epopea di Gilgamesh, il mostro scimmiesco Enduki, diventa uomo grazie a un pasto a base di pane e birra. La birra ha, in effetti, una storia gloriosa e non sono rare le leggende e gli episodi che la collegano al divino. A differenza del frumento, simbolo di fertilità, l'orzo è sempre stato direttamente collegato con le realtà divine e spirituali. La birra dunque, alimento dorato, quasi una bevanda degli dei ottenuta dalla fermentazione dei semi d'orzo, ha assunto il ruolo, nell'immaginario dei popoli, di bevanda sacra che apre la mente alle cose divine. Contro la visione di una Chiesa oscurantista e chiusa ai piaceri della tavola s'impone una storia antica che ha fatto della birra una delle bevande più fabbricate nell'Europa cristiana. Nei luoghi dove la vite difficilmente cresce, per climi e altitudini, ecco che la birra occupò un posto d'onore. Non sono pochi i santi e i monaci che si resero famosi grazie al loro rapporto con questa bevanda.

riva1.jpg

Mi piace pensare a Santa Brigida, non quella di Svezia patrona d'Europa, ma quella di Kildare, in Irlanda, la quale, come attesta il Breviario di Aberdeen, fece spillare «birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale». Nella nostra Italia, a Trescore, dove il Lotto a servizio dei Suardi affrescò una delle cappelle più simboliche nel panorama cinquecentesco, un affresco raffigura la Santa che compie vari miracoli. In primo piano Santa Brigida benedice dei pani e due barili di acqua che, sotto lo sguardo attonito della fanciulla che li reca, diventano birra. Questo novello miracolo di Cana rimase così impresso nella mente degli Irlandesi che una benedizione, attribuita alla Badessa, recita così:«Vorrei un lago di birra per il Re dei Re. Vorrei che la famiglia celeste fosse qui a berne per l’eternità. Vorrei che ci fosse allegria nel berne. Vorrei anche Gesù qui».
Molti monaci consacrarono la loro vita alla fabbricazione della birra che assunse appunto il ruolo simbolico di bevanda che conduce a pensieri alti, rendendo l'uomo più sensibile al mistero. Dietro alcune nature morte in cui compare la birra, sorte soprattutto in ambito olandese, vi sono insegnamenti di natura morale. In questa natura morta di Jan Jansz van de Velde, ad esempio, un boccale di birra, altissimo, sovrasta su altri elementi estremamente simbolici. Vino, carte e pipa, alludono alla vita consumata dentro vizi e giochi d’azzardo, mentre le lenticchie simboleggiano la fortuna che può arridere a persone che si consegnano a un siffatto modus vivendi. Una corda bruciata, però, accanto alle nocciole, suona come monito, invitando a verificare la fragilità di tali fortune. Le nocciole poi, sono un antico simbolo di saggezza e di preveggenza rispetto alle scelte della vita.

riva2.jpg

Quindi il bicchiere di birra che si eleva sopra tutto invita a puntare lo sguardo su valori più alti, a orientare bene le scelte anche nei momenti di svago, senza abbandonarsi a piaceri facili e fallimentari. Volesse il Cielo che anche i nostri contemporanei, in questo tempo vacanziero, voraci consumatori di birra, potessero, attraverso questa bevanda, diventare più spirituali. Sette boccali hanno reso umana la scimmia Enduki, possano altrettanti bicchieri di birra restituire all’uomo postcontemporaneo quell’anima spirituale che sembra aver perduto, donandogli di scorgere nelle cose della terra il legame profondo con il Signore del Cielo.

ImmaginiLorenzo Lotto, Cappella Suardi, 1524, Storie di Santa Brigida. Affresco della parete destra (sud) Trescore Bergamo
Jan Jansz van de Velde III Natura morta con pipa bianca e birra 1653 olio su tela cm 43,3 x 40,5 Ashmolean Museo di Arte e Archeologia Università di Oxford

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

domenica 19 luglio 2015

I nostri peccati e la Madonna lavandaia tra le rocce

La festa della Vergine del Carmelo sigilla idealmente il viaggio del Papa in America Latina. E proprio in America Latina troviamo un dipinto singolare dal titolo la Virgen Lavandera. Il monte Carmelo domina la valle di Iezreel come una promessa d'acqua e di fertilità e l'acqua è l'elemento più comune ai santuari mariani.

gloriaz1_46921845.jpg


Non sono rare, nell'arte, le Madonne col Bambino incorniciate da un paesaggio rupestre e fertilissimo. Qui, la Sacra famiglia, è colta nel momento della sosta, durante la fuga verso l'Egitto. Il paesaggio è tutt'altro che orientale: sullo sfondo si nota uno sperone roccioso tipico delle montagne andine, ma l'interesse dell'artista è concentrato sul gesto domestico del bucato.
La Madonna, con il cappello a tesa larga e il caratteristico poncho andino, sta lavando i panni. Mentre strofina vigorosamente il sapone sulla biancheria, sorveglia il sonno del Figlio. Anche san Giuseppe è impegnato in tale faccenda quotidiana: ha appeso una camicia bianchissima ad asciugare ed ora, con l'aiuto di un angelo, si appresta a dare alla sposa un mantello rosso. Altri due putti corrono in aiuto alla Sacra Famiglia: uno tiene a bada il piccolo Gesù, il secondo corre a riempire una brocca alla fonte d'acqua. E, fin qui, nulla di strano se non la singolarità del soggetto iconografico; tuttavia, guardando più a fondo, vediamo l'espressione sorpresa del putto che sta contemplando Gesù con un telo candido sul braccio. Il sonno del divino Infante è prefigura di quel sonno mortale che lo coglierà dopo la passione e il putto medita attonito sull'accettazione della morte da parte del Figlio di Dio.
Per una tale morte siamo salvati dalla morte ultima, cosicché il lavaggio che impegna i genitori è quel lavacro di acqua e spirito che dispensa la Chiesa per salvare i suoi membri. Grazie ai meriti di Cristo, e della Madre sua, se anche i nostri peccati fossero rossi come scarlatto (scrisse Isaia) diventeranno bianchi come neve. Non a caso il patriarca regge un drappo rosso mentre steso c'è un indumento candido! Anche il putto in primo piano tiene una brocca rossa e guarda a Cristo, unica fonte di salvezza.

rivaz2_46921852.jpg

La Chiesa, come Maria, mediante l'acqua del Battesimo compie nel mondo un'azione salvifica, ma quell'acqua non avrebbe alcun potere se non fosse stata fecondata dal corpo di carne del Verbo, seconda persona della Trinità. Oggi si fa un gran parlare di misericordia, ma forse meno facilmente si ricorda che una tale grazia è frutto di un reale sacrificio e che il lavacro in cui siamo immersi, mediante i sacramenti della Chiesa, è frutto del sangue del Redentore versato sulla croce.

Immagini:
Melchor Perez Holguin 1701-1800 Virgen Lavandera olio su tela 1,2x1,84 m. Museo Nazionale d’Arte (La Paz, Bolivia)
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce 1483-1486, olio su tavola 199×122 cm Musée du Louvre, Parigi

da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

martedì 14 luglio 2015

Religioni in cammino


giovedì 9 luglio 2015

Se oggi manca il desiderio del calice di salvezza

Il Calice dell’Ultima Cena, il leggendario Graal, non raccolse solo il vino dell’Alleanza Nuova, ma anche il Sangue del Redentore versato sulla croce. L’arte non mancò di mettere a fuoco quest’oggetto simbolico consegnandolo nelle mani di Gesù fin dalla più tenera età.

rivacz1_46845575.jpg

A Budapest si trova una singolare Madonna del vino di Joos van Cleve, dove la Vergine Madre, offre al piccolo Gesù, un calice di vino. Mentre la Madonna veste abiti sontuosi e invernali il bimbo è interamente nudo, come sarà nudo nell’ora della croce. Anche il movimento dei piedi allude alla sua volontà ferma di salire sulla croce per la nostra salvezza. Il contrasto fra la nudità del Figlio e l’abbigliamento della Madre vuole affermare la dimensione profetica del gesto materno. Gesù sorseggia quel vino senza imbarazzo, serio nello sguardo, esprimendo così la prontezza al sacrificio cui quel vino allude..


Una bella tela della Scuola di Guido Reni ritrae la Sacra Famiglia a tavola.  La scena è tenerissima e del tutto domestica: Gesù siede fra Giuseppe e Maria a una tavola rotonda, rimando alla dimensione eterna di quella mensa. Gesù e la Madonna vestono il medesimo colore rosso perché, come scrisse Tertulliano, Caro Christi, caro Mariae.

rivacz2_46845581.jpg


Essi condividono la medesima carne e, sia pure in forma molto diversa, il medesimo sacrificio. La Madonna non è protagonista dello svolgimento di quella scena, anzi osserva compiaciuta ciò che accade. È Giuseppe a prendere l’iniziativa. Dalla bottiglia collocata in primo piano, il padre putativo ha attinto il vino versandolo nella coppa che porge al Figlio. Il divino Infante, avvolto in un largo tovagliolo per non sporcarsi, segno evidente della sua umanità, ha un attimo d’incertezza. Lo sguardo, bellissimo, esprime da un lato la naturale diffidenza dei bambini verso il vino, dall’altra lascia indovinare il rimando simbolico di quella bevanda. Un giorno Cristo, nell’orto, pregherà che passi da lui quel calice; la stessa domanda balena anche ora, nell’inconscio di quel Dio Bambino. Il calice in tutta la Sacra Scrittura è legato al destino, spesso inteso come destino avverso. Il vino invece è associato soprattutto alla gioia e alla festa. Sorte e felicità trovano un prezioso sodalizio nel sangue di Cristo, il quale, mentre è versato sulla croce (compiendo un destino avverso), diventa per tutti calice di salvezza e dunque pegno di un destino felice. In tempi calamitosi come i nostri, il simbolo del Graal fa pensare alla leggenda del Re pescatore. A un re malato e depresso, con il regno semi distrutto per la povertà, si presenta Parsifal che, a differenza di altri che erano transitati dando dotti consigli, senza alcun preambolo chiese: dov’è il Graal? La domanda fu per il re il risorgere di un desiderio. Si alzò dal suo giaciglio e con la sua ripresa anche il regno si risollevò. Forse anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che, come Giuseppe a Gesù, come Parsifal al re, ci rimandi all’urgenza di riappropriarci del nostro destino; al dovere di accettare le sfide della vita e riaccendere così quel desiderio che può condurre noi e altri al conseguimento di un calice di salvezza. 
Immagini:
Joos van Cleve, La Vergine col Bambino che beve vino, olio su tela. 1540 (?) Museo delle Belle Arti, Budapest.
Scuola di Guido Reni, Sacra Famiglia a tavola, olio su tela,  VII sec. Quadreria Arcivescovile. Milano
Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza