venerdì 27 febbraio 2015

Dentro al pozzo dell'inconscio il volto del Salvatore

La chiamavano Santa Maritana, nella Lombardia di un secolo fa. Non era difficile, all’inizio della quaresima, incontrarla per le strade e la contrade. Era una bambina, di solito, a impersonarla, mentre un altro bambino interpretava Gesù, entrambe ingaggiavano un dialogo davanti alle porte di casa, nei cortili, e la gente correva a guardare questa sorta di Vangelo vivo, rieditato dai piccoli per far meditare i grandi. Nessuno si è mai scandalizzato per la storpiatura del nome, tanto il popolo l'aveva già canonizzata da un pezzo, quella samaritana giovannea che lasciati anfora e mariti si era messa ad annunciare a tutti il Salvatore. Oggi conosciamo tutto di quella donna di Samaria, ma ci siamo dimenticati il Vangelo che ella annuncia: la gloria di un Dio Trino che vuole entrare in relazione con l'uomo e lo salva dentro un miracolo di grazia e di comunione. La Santa Maritana, finita la sua diatriba con Gesù, riscuoteva da tutti i presenti un piccolo obolo: erano gli ultimi dolciumi, residuo di un carnevale appena passato, o qualche spicciolo per rifare il tetto della chiesa. Così, preghiera, elemosina e penitenza, i capisaldi della quaresima, si vivevano in diretta, guidati dai bambini. Oggi l'individualismo ci ha bloccato dentro le nostre villette a schiera dagli ingressi nascosti, dentro gli interminabili piani di palazzi dalle porte anonime, di modo che nessun Vangelo in scena turbi le coscienze. Un dipinto di un pittore tedesco, scomparso di recente, ci racconta bene l’esperienza di questa Samaritana post contemporanea. Il sole è allo zenit, per i Vangelo, come per Sieger Köder.

riva pozzo2.jpg

Il sole è allo zenit ma la donna è dentro il suo nadir rappresentato da un pozzo senza fine. Proprio da questo pozzo, cioè dalla solitudine di questa donna che per la vergogna attinge acqua a mezzodì così da incontrare nessuno, Köder ci racconta la scena. Da dentro il pozzo vediamo, in alto, la samaritana, avvenente, con l’abito rosso scarlatto e i capelli sciolti, simboli di sensualità. Grazie al dialogo con Cristo, il quale però non si vede, decide di guardare nel suo nadir, dentro al pozzo dell'inconscio dove talora a ci sprofonda senza rimedio la moderna psicologia. La donna di Samaria guarda lì ed ecco che, con intuito sorprendente, Köder ci fa vedere nell’acqua del pozzo non solo il riflesso della donna, ma anche quello Cristo. Eccolo lì, stampato nell’inconscio, il volto misericordioso del Salvatore che, a differenza di Freud, mentre ci fa vedere i nostri peccati ci rende l'abbraccio della sua compagnia, riscattandoci dall’individualismo che debilita e uccide. Non lo può vedere, invece, Cristo, ne pare sentirne l’abbraccio, la Samaritana dipinta da Julio Romeo Torres, pittore spagnolo morto nel 1930.

RIVA VASO1.jpg


Il realismo di Torres consegna la samaritana alla sua anfora. Egli la coglie prima della resa, ancora tenacemente attaccata al suo pensiero e alle sue abitudini mondane. Gesù le sta vicinissimo anzi, la invita quasi abbracciandola a una verità che sta più in alto, ma lei non pare desiderosa di capire. La Samaritana spagnola né guarda nel pozzo della sua miseria, né si lascia provocare dall’invito a guardare più in alto. Rimane lì con gli occhi fissi su di noi, forse un poco accusandoci di essere simili alla generazione di Cristo: «vi hanno suonato il flauto e non avete ballato, vi hanno cantato un lamento e non avete pianto». Sì, la donna di Torres ci somiglia di più, un po’ di più della samaritana di Köder. Forse dobbiamo deciderci a guardare nel profondo della nostra oscurità per ritrovare la luce che permetta di mirare più in alto e riprendere consapevolezza di ciò che siamo e di sia Colui che ci ha generato.

Immagini:
Sieger Koder, Die frau am Jakobsbrunnen (La donna al pozzo di Giacobbe) olio su tela, 2001, Museo Ellwange Bild und Bibel
Julio Romero de Torres (1874-1930) La Samaritana olio su tela Cordoba

(Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la bellezza)

mercoledì 18 febbraio 2015

La luce di Cristo sulle ceneri dell'umanità ferita

«Polvere sei e polvere ritornerai» era il versetto biblico che un tempo accompagnava l'imposizione delle ceneri all'inizio della quaresima, oggi preferito a un più innocuo «Convertiti e credi al Vangelo». Eppure il senso delle ceneri era proprio lì, nascosto in un memento mori che rendeva urgente dare senso e serietà alla vita. Oggi abbiamo addolcito i gesti liturgici ma, il memento mori, lo offre la cronaca quotidiana senza però ottenerci alcuna conversione, anzi. Alla morte ci si abitua e appare qualcosa di lontano che mai ci toccherà. Un'arte piena di cenere era quella dell'artista polacco Zdzislaw Beksinski, talmente visionario che le sue opere hanno faticato a trovare una sede museale per ricordarlo. Beksinski è morto dieci anni fa dopo aver visto gli orrori della guerra, quelli del comunismo, dopo aver visto morire la moglie prematuramente e il figlio suicida. È morto barbaramente accoltellato, ma la sua profezia vive ancora e in alcune sue opere è palese. Una impressiona per l’attualità: in un panorama fuligginoso, di cenere appunto, campeggia un albero maestoso la cui forma evoca l'albero della vita o la menorah.

boscoriva_45166022.jpg

Certo è un albero di alberi giacché il suo tronco pare sorreggere una schiera interminabile di altre piante e non solo. Proprio in corrispondenza del tronco sta un piccolo edifico, simile a una chiesa o a un faro, che denuncia inequivocabilmente la natura religiosa dell’albero. Un cono d'ombra, però, all'orizzonte nasconde, solo per un attimo, il divampare del fuoco il quale, avendo già arso alcuni rami dell'albero sembra inarrestabile e pronto ad inghiottire il resto. Davanti all'albero un mare di fuoco o di sangue registra l'eccidio. Sembra la drammatica immagine registrata alcuni giorni fa da tutte le Tv del mondo, un tragico reportage di 21 cristiani copti giustiziati lungo il mare, colpevoli solo, come ha detto il papa, d’esser cristiani. E impressiona come Beksinski abbia posto in evidenza, quasi come firma minacciosa, una mezzaluna. Una luna nera, in primo piano, in mezzo al sangue, una luminosa, sullo sfondo come sole sinistro che sorgerà, prima o poi, su un panorama desolato.
glora2_45166036.jpg

In un’altra opera un muro sta come quinta impassibile di fronte a una figura scheletrica avvolta scheletrica avvolta in un lenzuolo azzurro dalla luce sinistra. La figura è ricurva sopra una culla, dove appare ben visibile la R, forse di Rzymski (cattolico-romano), e la croce. Sulla parete sta, come promessa di un destino certo, il Cristo crocifisso. I corvi gli devastano il volto e altri sono in attesa di piombare su di lui per dilaniarlo. La scena è alquanto macabra, eppure è la profezia dell'odio anticristiano che vorrebbe cancellare dalla faccia della terra ogni sua radice. A ben guardare la foggia della morte è arabeggiante, sorveglia la creatura con la pazienza elefantina di chi ha un compito ben determinato e chiaro. La nostra quaresima inizia così con la minaccia di un potere che sa bene dove vuole arrivare e che attende, con pazienza e silenzio da anni, ciò che ora viene alla luce. Ci sono due punti luminosi però, nel dipinto di Beksinski, uno è il cuore di Cristo, lucente e fermo come il Santissimo Sacramento, l'altro è un rigagnolo di luce che esce dalla culla. Un telo sindonico tenace che testimonia di fronte all’unguento rovesciato e alla morte la sua vittoria. Prendere le ceneri allora, sia per noi, non un rito stanco, incapace di toccare vita e cuore, ma il segno di un'urgenza: quella di riprendere in mano seriamente la nostra vita e la nostra fede. Ed essere certi, più certi, che ancora oggi è possibile del trionfo della verità.

ImmaginiZdzislaw Beksinski Senza Titolo (DG-2224) cm 87 x 73, olio su faesite, 1979 Collezione dell’Artista.
Zdzislaw Beksinski Senza Titolo (In hoc signo vinces: DG-2216) cm 87 x 73, olio su faesite, 1974 Collezione dell’Artista.

(Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)

venerdì 13 febbraio 2015

L'abbraccio d'amore eterno di San Valentino

Pochi sanno che la festa di San Valentino, tra le più popolari del mondo, è nata per opporsi a certi licenziosi festini pagani (i Lupercalia) celebrati proprio tra il 13 e il 15 febbraio. All’origine della festa sta un santo vescovo vissuto nel terzo secolo e divenuto rapidamente famoso per i suoi miracoli: guarì epilettici e restituì la vista a una fanciulla pagana, conquistando a Cristo l’intera famiglia. Benché perseguitato a lungo, raggiunse la veneranda età di novantasette anni, che coronò col martirio. Tra i miracoli leggendari, che ne fecero il santo degli innamorati, ve n’è uno che si è rivelato vero. A Terni, quattro anni or sono, sono state ritrovate le ossa di due fidanzati, seguiti da San Valentino, dalla storia controversa. Erano Sabino e Serapia: lui centurione romano e pagano, lei cristiana fervente. Per amore di lei, Sabino si convertì al cristianesimo ma scoprì, poco dopo, che Serapia era ammalata di tisi, malattia allora incurabile. Non volendo separarsi da lei, Sabino si rivolse a San Valentino il quale benedì le loro nozze e pregò per l’eternità del loro amore. I due morirono abbracciati e ancora oggi le loro ossa riposano in quella postura.

 
 
Un abbraccio simile lo ritroviamo in quest’opera di Margarita Sikorskaia, artista russa, che vive e opera negli Stati Uniti. Pur carico di sensualità l’abbraccio tra questi due innamorati conserva in sé qualcosa di eterno, proprio come l’abbraccio dei fidanzati ternani. Le loro vesti, bianche e rosse, rimandano alle due dimensioni dell’amore eros e agape che, nell’amore cristiano vivono abbracciati. L’oscurità che incombe all’orizzonte sembra rimandare al pericolo di una morte che, mentre sottrae i corpi alla terra, come testimoniano Sabino e Serapia, non può sottrarre l’amore all’eternità. Una leggenda che consegna san Valentino all’amore umano narra che il vescovo, vedendo due fidanzati litigare si avvicinò, dando loro una rosa. Dopo aver pregato, il cielo si riempì di coppie di colombi che tubavano, volteggiando sopra i due innamorati. Pace fu fatta e così, accanto all’abbraccio dell’amore, anche le colombe entrarono a pieno titolo nella simbologia di San Valentino, tanto che l’espressione “piccioncini”, riferita agli innamorati, sembra derivare proprio dal leggendario miracolo del Santo.
 
In una chiesa del XV sec, ora anglicana, a Tenna nel Canton dei Grigioni (Svizzera) dedicata a San Valentino, tra i fregi che corrono lungo il soffitto di legno, risalenti al XVIII secolo, ci sono proprio due colombi rivolti l’uno verso l’altro.
 
 
 
La colomba, che ai tempi di San Valentino era noto come il volatile preferito da Afrodite, si trasformò in attributo del Santo e segno dell’amore puro e sempiterno. Oggi, ahimè, la festa di san Valentino celebra amori più vicini ai Lupercalia che al concetto cristiano dell’amore, difeso dal santo vescovo. Per i “valentini” cristiani, verginità e fecondità, eros e agape conservano un abbraccio carico di eternità che neppure la morte può dissolvere.

Immagini:
Margarita Sikorskaia, Two in the Hills, olio su tela 2010 Collezione Privata.
Chiesa Riformata in Tenna, XV sec fregio del soffitto ligneo. Safiental Svizzera Cantone dei Grigioni
 
Fonte: Avvenire (rubrica Dentro la Bellezza)


giovedì 22 gennaio 2015

L'agnello, il pallio e la vacuità del male

L’artista inglese Frank Cadogan Cowper ci trascina dentro la prigionia ove, nel 305, il lussurioso figlio del Prefetto aveva confinato la giovane Agnese. Non potendo conquistarne il cuore, totalmente offerto a Cristo, il giovane credette di poter approfittare di lei, costringendola nuda alla prostituzione. Ma ad Agnese, nel postribolo in cui si trovava, i capelli crebbero a dismisura, coprendo le sue nudità e un angelo le portò un abito così lucente da turbare quanti tentavano di unirsi a lei. Il giovane, accecato più dalla brama di vendetta che dalla bellezza della fanciulla, le si accostò per abusarne, ma cadde a terra morto. Il Prefetto, costernato, scongiurò Agnese di restituirgli il figlio. La santa pregò e il ragazzo riebbe vita. Per questo la accusarono di stregoneria, condannandola al rogo. Cowper racconta il martirio con discrezione: ai piedi dell’angelo sprigionano le fiamme del supplizio le quali si divisero risparmiando la vita di Agnese. Il miracolo indispettì a tal punto il suo aguzzino, che la uccise trafiggendole la gola.

Santa_Ines_44814167.jpg

Questo il martirologio, ma allora da dove scaturisce l’iconografia della martire sempre associata all’agnello? La leggenda narra di un’apparizione di Agnese splendente di luce con in braccio l’animale. Così la rappresenta, ad esempio, lo Zurbaran, pittore spagnolo luminista chiamato pittor dei frati per la sua religiosità. Agnese, ritratta di profilo, come era solito fare l'artista, si volge appena verso di noi. Non ci guarda però, abbassando gli occhi sull'agnellino che le riposa in seno. Lo splendore del manto giallo dice la regalità del suo martirio eppure non compare nessuna spada, né l'attributo della palma tipico delle martiri. Zurbaran ritrae la Martire solo con l'agnello e il libro: sintesi estrema della sua vicenda. Agnese mori sgozzata come un agnello per la fedeltà al Verbo Incarnato, a quella Parola che è Cristo stesso. Il suo nome greco Hagnḗ, casta, fu associato al latino Agnus e si collegò, così, la martire all’Agnello che è Cristo. Del resto, l’agnello portato sulle spalle, era l’attributo principale dei Vescovi metropoliti, uniti al papa. Per questo invalse l’uso di porre sulle loro spalle strisce di lana con croci ricamate trafitte da spilli (rimando alla passione di Cristo) detti pallia.

N01961_10_44814166.jpg

Non per nulla Cowper colloca a destra del dipinto una stele sulla quale compaiono molti agnelli: il riferimento è, appunto al pallium, indossato anche dall’angelo. In primo piano si vedono pani assaliti da due sorci, simboli di lussuria e di astuzia demoniaca. L’immagine esprime la vacuità del male: i potenti che decretarono la morte della Santa svanirono nel nulla, mentre la memoria di Agnese, dopo 17 secoli, vive ancora. Ogni anno, infatti, il 21 gennaio festa della santa, due agnelli adornati con un manto rosso e uno bianco rimando alla verginità e al martirio della stessa, sono condotti alla basilica di Sant’Agnese fuori le mura, per essere benedetti dal Papa. Con la lana di questi agnelli sono tessuti i pallia che si conservano poi accanto alla tomba di Pietro, memoria confortante di come, nella storia, tutti gli strapoteri periscono mentre non muoiono quanti vivono nella stessa fedeltà a Cristo testimoniata dalla vergine dodicenne.

Immagini
Francisco Zurbaran (1598-1664) Santa Inès, olio su tela, 171x107 cm. 1640-1650 Museo delle Belle Arti di Siviglia.
Frank Cadogan Cowper (1877-1958) Sant’Agnese in prigione riceve dal Cielo abiti bianchi e splendenti, olio su tela, 74.3×45.1cm. 1905 Tate Gallery, Londra

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


venerdì 16 gennaio 2015

Sant'Antonio, il maiale e il fuoco "rubato" per noi

Da quando erano nati gli Antoniti, i maiali scorrazzavano per le strade di La Motte, in Francia, e la gente impazziva. Erano i maiali di Sant’Antonio, non si potevano prendere né uccidere; per distinguerli dagli altri maialini del posto giravano con appeso un campanello. Così quei porci avevano miglior sorte di tanti cristiani, proprio come oggi in certi paesi del Medioriente. Un seguace di Hieronymus Bosch ritrae il villaggio davanti al quale domina il Santo in orazione. Un maialino pascola indisturbato davanti alla chiesa ed è il Santo a tenere il campanello appeso alla cintura. Sul lato sinistro si vede un cascinale costituito da un grande volto di donna. Si tratta di una casa di prostituzione che, scimmiottando una chiesa, annega gli uomini nel vizio. All’orizzonte, proprio accanto alla chiesa con la sua canonica, ecco divampare un grande fuoco dal quale escono demoni. Quel fuoco sembra domato dall’abito rosso di Antonio in preghiera davanti a una melagrana.

Seguace_di_44722667.jpg

Egli, che visse nel deserto fin dall’età di 18 anni, fu soggetto a grandi tentazioni che vinse applicando quell’ora et labora che diverrà famoso con San Benedetto. Ebbe anche la visione di una Chiesa umiliata dai vizi dei suoi figli. Solo la preghiera l’avrebbe salvata, così visse fino a 105 anni. Dopo la morte, i seguaci portarono via le reliquie dall’Egitto per custodirle a Costantinopoli. In seguito furono traslate in Francia, a La Motte, che prese il nome di Saint-Antoine. Giunsero nel secolo XI quando l’ergotismo, grave intossicazione alimentare dovuta al consumo della farina di segale contaminata, decimava l’Europa.
La malattia, già chiamata in antico ignis sacer, fu detta fuoco di Sant’Antonio. Molti, invocando il Santo, guarivano, così nacquero gli Antoniti, religiosi ospedalieri che si occupavano di questi malati nutrendoli con carne di maiale e ungendo le piaghe con il grasso dell’animale. I maiali allevati dai frati giravano, come vediamo nel dipinto, indisturbati per le vie della città. Il falò raffigurato allude anche a una leggenda. Antonio, volendo rubare il fuoco al demonio per riscaldare gli uomini, introdusse un maialino nell’inferno che suscitò un tal putiferio da indurre i demoni a pregare Antonio di riprenderselo. Con la bestiola il Santo prese anche il fuoco mediante il quale incendiò una catasta di legna capace di riscaldare l’intero villaggio.
La fama di Antonio crebbe a tal punto che neppure la riforma protestante poté spegnerla e falò, filastrocche su maiali e campanelli, continuano a ricordare all’uomo che la preghiera può più della scienza e della strategia umana. Un dipinto di Lucas van Leyden ritrae un maialino con il campanellino appeso ad un orecchio, condotto da un gryllos, un piccolo mostro tutta testa e zampe. Il mostro, che porta il copricapo rosso della lussuria, apre un corteo di demoni viziosi che sembrano uscire dalla bocca dell’inferi. Sullo sfondo del dipinto la terra sprigiona fuoco proprio accanto a un serpente, è il segno di quell’inferno che il Santo poté varcare. Antonio veste l’abito monastico e guarda intensamente il crocefisso, dalla cui grazia scaturisce tutta la sua forza.
Tentazioni_44722668.jpg

Accanto al Santo un libro riposa aperto: è il libro della Regola che è l’attualizzazione del Vangelo nell’oggi della Chiesa. Sull’abito di Antonio riposa una grossa farfalla. Forse è simbolo della trasformazione che in tutti noi attua la preghiera, l’unica capace di risolvere tentazioni e contese. Come dice un antico detto rabbinico: se vuoi salvare il mondo, cambia te stesso. È questo il messaggio di Antonio alla Chiesa di ieri e di sempre.

Immagini: Seguace di Hieronymus Bosch (circa 1450–1516) Le Tentazioni di Sant’Antonio, circa 1551-1600, olio su panello cm 61,8 x cm. 79,7. North Brabant Museum Paesi Bassi

Lucas van Leyden (1494–1533) Le Tentazioni di Sant’Antonio, circa 1530, olio su panell,o cm 66 x cm. 71 Royal Museums of Fine Arts del Belgio

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 8 gennaio 2015

Lo scandalo del male, la vittoria della croce

La capanna di Davide è veramente messa male nel Trittico dell’Adorazione di Hieronymus Bosch. Sembra miracolosamente sorretta da un lungo legno curvo posto proprio in primo piano.

Trittico_Magi_Bosch_centrale.jpg

Un legno che separa la Madre dal Figlio, come più tardi avverrà con la croce. Eppure la Vergine Madre sta sotto di essa con la solennità di una regina, reggendo il Figlio suo. Nessun timore che la capanna possa cadere! Anche nel paesaggio Bosch narra un identico contrasto: la stella spende allo zenit della storia segnando un cambiamento epocale, l’anno zero di una nuova era e all’orizzonte ecco cavalli schierati e guerre in atto. Luce e oscurità. Il tema si ripete poi, di nuovo, nei pressi della capanna. Tre re sono rivolti al Divino infante, ma nessuno di essi ha la corona. Una è posta ai piedi del Bambino mentre l’altra è in mano ad un quarto re. Questi è l’unico a essere incoronato ed è un re inquietante. È piagato a una gamba (che sia lebbra?), spia da dietro le inferiate, compaiono sul suo manto sfere e anelli e simboli demoniaci sopra la stola che pende dal precario riparo del mantello rosso. È l’Anticristo? È il fumo di Satana entrato nella casa di Dio? A ben guardare questo re è nudo, come il Cristo che sta in grembo alla Madre come su un altare, porta una corona di spine, è ferito, incatenato e indossa il manto rosso della pazzia. La scena è nel pannello centrale del Trittico che, chiuso, mostra la Messa miracolosa di papa Gregorio (inginocchiato similmente al mago canuto) e un chierico incredulo. Gregorio Magno, papa dal 540 al 604, ebbe nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, una visione.

Trittico_Adorazione_Chiuso_Bosch.jpg

Mentre celebrava la Messa un chierico fu preso da incredulità rispetto al Mistero e proprio nel momento della Consacrazione si manifestò il Cristo piagato. Bosch dipinge, con la tecnica grisaille, il papa in ginocchio e, sulla sinistra dietro la tenda, il chierico incredulo che addita il miracolo, mentre a destra un (anacronistico) frate che regge la tiara del papa. Nella parte alta dell’altare sporge, appunto, il Cristo vilipeso. L’Ecce Homo. Ecco svelato allora, almeno in parte, il mistero del re nudo che contende il trono al Re Bambino, nudo anch’esso: Erode l’idumeo, l’usurpatore che siede sul trono di Davide, spia sornione la nascita del re promesso, il Germoglio della radice di Davide. Sì, è il fumo di Satana entrato nelle file del popolo di Dio, un fumo che, suo malgrado, cela in sé i segni della vittoria del Salvatore. Come l’incredulità del chierico ci ha meritato l’apparizione del Salvatore, così il re usurpatore manifesta a noi il destino di passione del Figlio di Dio: i flagelli, la corona di spine, il mantello del Re di burla, la morte in croce, saranno per Lui supplizio, per noi Salvezza. Qui s’infrangono le potenze del male. Qui sarà la pace. Così capiamo le antinomie del Trittico: il mondo continua con le sue guerre e con le trame di potere, ma dentro lo scandalo del male, serpeggia già la vittoria della croce che il Salvatore ha voluto eterna e certa, come la capanna diroccata della dinastia di Davide.


Immagini:
Hieronymus Bosch, Trittico dell’Adorazione dei Magi, pannello centrale, 1485-1500 circa. Olio su tavola 138×144 cm. Museo del Prado, Madrid

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


giovedì 1 gennaio 2015

È nelle mani di una madre il motivo della nostra festa

MadonnaGrecaApre400x600inte.jpg

La storia dell’arte cristiana è unica, perché unica è la storia cristiana, cioè la storia di Cristo. Si lascia alle spalle tutta la seduzione dell’arte antica e mette in scena, riscattandola in bellezza, la verità sul cuore dell’uomo e sul cuore di Dio. L’uomo è violento, Dio è buono, come nell’incompiuta Adorazione dei Magi di Leonardo in cui, nella metà alta del quadro, si svolge una cruenta scena di guerra e distruzione. Gli uomini, adoratori di Cristo, sono anche portatori di morte, il cuore che adora è lo stesso che sacrifica l’altro uomo.

L’arte cristiana mette in scena la strage degli innocenti, grande risposta storica a tutti coloro che, troppo comodamente, giustificano la non esistenza di Dio a partire dalle stragi. Proprio la venuta del bambino-Dio indifeso smaschera subito la violenza degli Erode di tutta la storia, sacrificatori di innocenti in nome del potere e del dominio, tecnico, politico, sociale, economico... La vicinanza di Dio scatena la violenza dell’uomo perché la smaschera, senza per questo privare l’uomo che continua a fidarsi della compagnia di Dio.
Per questo l’arte cristiana ha nella sua faretra una galleria di immagini straordinarie, soprattutto Madonne con il Bambino, che gettano piena luce, nel momento in cui narrano la scena più dolce della vita umana, sull’orrore della violenza dell’uomo, violenza resa evidente proprio perché l’uomo senta il bisogno di essere salvato. Non fuga di vinti nell’aldilà per dimenticare l’aldiqua, secondo l’accusa di Nietzsche, ma al contrario smascheramento proveniente dall’aldilà proprio per farci aprire gli occhi sull’aldiqua, per essere raggiunti nell’aldiqua da un principio che lo trasforma in e attraverso di noi.

L'arte cristiana racconta e rappresenta il dolore della vittima, sacrificata per ragioni senza ragione. Una bellezza scavata nell’abisso di tenebra del cuore dell’uomo, da cui zampilla l’acqua pura della grazia trasformante dell’assolutamente buono.
Ho scelto tra queste immagini una che amo particolarmente e che si sposa bene con la festa della Madre di Dio. La Madonna greca di Bellini, conservata a Brera. Operando a Venezia, Bellini conosceva bene la tradizione iconografica bizantina, di cui riprende la composizione generale del quadro ma in una nuova sintesi originale. All’oro dello sfondo sostituisce una più quotidiana tenda nera, che ha il compito simbolico di rappresentare il trono delle Madonne di tradizione occidentale, ma serve primariamente a far risaltare le figure come se uscissero fuori dal quadro, fino a toccare non solo gli occhi ma anche il cuore dello spettatore. Bellini muta la fissità frontale delle icone in umanissimo sguardo malinconico di tre quarti, che dà tutto il senso della drammaticità della storia che sta raccontando, quasi che i soggetti del quadro non riescano a guardare negli occhi l’artefice di ciò che accadrà a quel bambino: noi spettatori, messi sottosopra da un quadro, bisognosi di un’inversione di marcia: la conversione.

Il bambino poggia il suo corpo pesante su un davanzale, come se stesse per buttarsi in avanti e l’abbraccio della Madonna lo trattiene come qualsiasi bambino in pericolo. Ma quel bambino è in pericolo, si metterà nelle mani di chi guarda il quadro, uscito dalla sua condizione divina per farsi uomo. Ma grazie a Dio le prime mani che incontra sono quelle di Maria, vestita di blu e rosso, divino e umano si intrecciano: come in una Pietà nascosta, sostiene il corpo del figlio, a cui ha dato la vita e che un giorno terrà esanime tra le braccia. E la croce fa capolino non solo nella malinconia del volto del Bambino, ma anche nel frutto che tiene in mano: Maria è la nuova Eva e Cristo il nuovo Adamo.
La malinconia non serve a rendere malinconici noi, ma a portarci dentro uno spazio di consapevolezza che l’evento trascendente della sola icona bizantina non basterebbe a raccontare ad un occidentale. Si sposano perfettamente trascendenza e quotidianità, divino e umano, Dio entra nella storia e la storia ha la sua malinconia, dovuta alla violenza umana, l’essere peccatori, cioè distruttori dell’opera di fioritura del creato.

Eppure possiamo rallegrarci, perché tutta la malinconia della storia se la prende lui, sul suo corpo, sulle sue spalle, sul suo volto. Si prende la tortura e la morte sulle spalle e le tramuta in amore, ribadendo la sua innocenza, ci apre gli occhi ma non ci condanna.
Quello sguardo dice: tu sei violento, ma io ti amo, mi rende triste, ma è per trasformare questa tristezza che sono venuto qui, senza di me non puoi fare nulla. È il motivo per cui questi quadri continueranno ad attirare osservatori distratti o inconsapevoli, che vi troveranno quello che forse non sapevano di cercare e che solo il Dio incarnato può offrire: la verità, senza che essa ci schiacci, perché quella verità ha adesso un volto di bimbo. Ma anche di Madre.

La violenza è nella nostra vita sotto molteplici forme: dall’invidia per i successi altrui agli sguardi in cagnesco in una coda al supermercato, da un bambino strangolato a un’insegnante che dice al suo alunno "non combinerai mai nulla di buono", dalla raccomandazione che mette fuori gioco chi merita un posto alla cresta su un prezzo stabilito dalle leggi, dalla femminilità ridotta a gioco degli occhi e del dominio allo scherno verso chi ha un difetto.

L’originalità dell’arte cristiana è l’originalità di Cristo: nel dire il male lo supera, non lo nasconde ma non gli lascia l’ultima parola: neanche il Bambino è solo. Lo tiene saldo la Madre, come dice il monogramma greco ai margini del quadro (MHTHP OEOY, "Madre di Dio"). Non è malinconica come lui, anche se ha già saputo che anche a lei una spada le trafiggerà l’anima, proprio nel momento di massima gioia: la presentazione di quel bambino al tempio pochi giorni dopo la nascita. Dice un proverbio ebraico, che mi ripete spesso mia madre, che Dio creò il mondo e quando vide che non arrivava a tutto creò le madri.
È un’intuizione popolare di una verità teologica da far tremare: anche Dio ha avuto bisogno di una madre, per nascere e per resistere alla sua morte. Senza quelle mani di madre nessuno può raggiungere Dio, «sua disianza vuol volar sanz’ali» direbbe Dante: non è forse lei a "costringerlo" ad accelerare i tempi, quando gli uomini non hanno più vino (cioè non hanno più sangue, perché questo viene anticipato a Cana) per far festa. Possiamo cercare quelle mani all’inizio di un nuovo anno, perché la festa non finisca, tutte le volte che non abbiamo più vino.

(Fonte: da Avvenire, Commenti, 30.12.2014)