martedì 25 marzo 2014

Il Cristo bambino, un feto che porta già la croce


 


È una giornata tersa, primaverile, quella che si respira nel pannello centrale del Trittico di Mèrode. Ė ancora Robert Campin a raccontarci l'evento cardine della nostra fede: il Verbo si è fatto carne. Le pesanti ante di legno, poste alle finestra, inquadrano subito il mistero entro l'evento pasquale. La Vergine dice un sì che la condurrà, col Figlio, alla croce. Non ci curiamo, ora, della Vergine che sta nel suo abito rosso, colore della passione, tutta intenta alla lettura di quello stesso Verbo che l'angelo le annuncia. No, ora siamo attratti da un raggio di luce che penetra da una finestrella ogivale totalmente chiusa da inferriate. È un implicito rimando alle parole del Cantico dei Cantici:«Ecco viene, il mio diletto spia attraverso le inferiate».
L’irruenza della venuta è tale da spegnere la tremula fiamma di una candela. Ecco: il tempo è compiuto, l'ora è giunta. Quale ora? L'ora dell’Incarnazione, l’ora di un destino che quel bimbo, prima ancora di formarsi nel grembo della Madre, già porta in sé. L'uomo medioevale non ha timore di associare il bambino anzi, il feto, alla croce. Nessuna riserva nel credere che l'uomo nasca già con il suo compito, con la sua missione verso questo mondo malato; nessun timore di render meno libero l'uomo con l’indicargli già lo spessore del suo destino. Così, ciò che ci cattura del raggio di luce che filtra dall'ogiva è, appunto, la figurina che lo cavalca. La mettiamo a fuoco: è un bimbo, anzi è il Cristo bambino che non entra nudo nel grembo, ma porta già con sé il suo abito di legno, la croce. Una siffatta interpretazione compare già in alcune miniature dei libri di preghiere.



In una miniatura di Jean Mansel, contenuta nella Vie de Nostre Seigneur Jésus Christ del XV secolo, la sacralità dell’origine della vita è colta nell’ambito dell’unione coniugale. Il talamo nuziale è paragonato al roveto di Mosè. Sul camino campeggia la statua di Mosè, mentre i coniugi, come lui, hanno tolto i calzari perché la loro unione è sacra. Corona l’unione la Trinità, inviando loro un bimbo. L’immagine spiega come dentro il corpo immaturo del feto l’anima sia già adulta. Nel libro delle ore di Caterina di Cleves, al grido: «O Dio vieni a salvarmi» risponde il dipinto del Padre che manda il Figlio bambino con la sua croce. Il fedele era così condotto dalla liturgia a comprendere che non c’è Natale senza Pasqua e non c’è Pasqua senza Natale. Se la prima Chiesa cristiana ha guardato anzitutto al Kerigma (passione, morte e risurrezione del Signore), subito dopo ha sentito l’esigenza di scandagliare l’Incarnazione. Origine e fine – dunque- sono strettamente legati e mai come ai nostri giorni lo si comprende. Questo pertanto ci insegna il piccolo feto portacroce: se vogliamo comprendere la fine di un uomo, illuminiamo il suo inizio. Se vogliamo comprendere il mistero della sua origine, non abbandoniamo la sua fine a un nulla senza speranza. La Quaresima, che idealmente si tende tra Annunciazione e Pasqua, ci aiuta - nel contesto del dibattito attuale e grazie alle testimonianze dell’arte cristiana - a mettere a fuoco una tale verità.

Immagini:
Robert Campin, Trittico dell'Annunciazione di Mérode,1427/32; olio su tavola 64.5 x 27.3 cm, Metropolitan Museum of Art, New York, particolare del pannello centrale. Jean Mansel

Il momento del concepimento e l’arrivo dell’anima, Vie de Nostre Seigneur Gesù Cristo, miniatura del XV secolo, fol. 174. 11.1 x 15.8 cm. Bibliotheque Nationale, Paris


Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

mercoledì 19 marzo 2014

Le trappole per topi sul desco di San Giuseppe





Entriamo nella bottega di San Giuseppe grazie allo sguardo indagatore di Robert Campin, artista fiammingo del XV secolo. La bottega è ritratta nello sportello di destra del suo Trittico di Mérode. Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l'impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Nel pannello centrale del Trittico, infatti, è raffigurata l’Annunciazione della Vergine. Sul desco di Giuseppe, però, c'è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ci sono due trappole: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant'Agostino (discorso 256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l'esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l'esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: dov’è o morte la tua vittoria? - ripete instancabilmente l’Apostolo- Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi. Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e disonestà e, perciò stesso, simbolo del maligno.



Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente a significare l’ingannevole audacia del male. Nel giardino delle Delizie, un trittico che affronta proprio il tema del male, insinuatosi attraverso i progenitori nell’intera creazione. Bosch dipinge nel pannello centrale un curioso particolare. Un uomo, confinato dentro la bacca di una pianta carnivora (simbolo di lussuria), si trova a faccia a faccia, in un muto dialogo, con un topo: è l’uomo che si abbandona alle sue pulsioni sperimentando dentro di sé la presenza del Maligno. Tuttavia, mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà. Così l’uomo medievale che ammirava la placida bottega di san Giuseppe imparava a comprendere che la morte è stata vinta e che la penitenza quaresimale ci rende più consapevoli del prezzo di tale riscatto. Che sia proprio san Giuseppe a fabbricare quella trappola la quale, simbolicamente, sconfiggerà il maligno, è significativo. Il maligno non è onnipotente, è una creatura, dunque non siamo noi a doverlo temere, ma lui deve temere noi, per i quali Cristo ha dato tutto se stesso.

Immagini: Robert Campin, Trittico dell'Annunciazione di Mérode,1427/32; olio su tavola 64.5 x 27.3 cm, Metropolitan Museum of Art, New York, pannello di destra.

Hieronymus Bosch, Trittico delle Delizie, Museo del Prado, 1503–1504, olio su tavola, 2,20 m x 3,9 m. Particolare del pannello centrale

Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 15 marzo 2014

Il colore viola, per cambiare la nostra vita


In Quaresima, come in Avvento, le chiese si tingono di viola, colore che la liturgia usava già nel Medioevo. Quando appariva il viola: strade, contrade e piazza ammutolivano, i teatranti erano costretti a tacere perché era tempo di penitenza. La gente dello spettacolo, in Quaresima, viveva un tempo di magra e faceva la fame, per questo motivo il viola, ancora oggi, negli ambienti di teatro “porta male”. Non è corretto tuttavia, associare il viola alla penitenza. Il viola è un colore sontuoso portato dai re; la porpora viola appare, nella bibbia, nell’abito del Sommo Sacerdote e negli arredi della Dimora. Più ancora il viola - prodotto dal rosso e dal blu, colori associati all’umanità e alla divinità di Cristo - è il colore della sapienza, della capacità, cioè, di cambiare in vista di un bene ultimo.
Lo dimostra un’opera dedicata a San Paolo presente a Siena e dipinta dal capostipite del manierismo senese: Domenico Beccafumi. La grande pala presenta l’Apostolo in primo piano, seduto in trono. Sul lato sinistro si narra dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco. Il dialogo fra Saulo e Cristo è espresso dai colori dell’abito dell’apostolo, identici a quelli del Signore. Si comprende, dunque, come egli sia chiamato a una identificazione con il suo Maestro. Sul lato opposto il martirio è consumato e il corpo esanime di Paolo è interamente avvolto dal blu, colore della gloria ormai raggiunta.
Proprio in questo lato della pala, a contemplare il martirio, vi sono alcuni personaggi. Quello che appare a prima vista un semplice paesaggio di maniera è in realtà una rappresentazione simbolica della predicazione paolina. Vediamo una donna anziana scossa dal vento che sale la china e due bambini impauriti: è un riferimento al monito di Paolo che voleva i cristiani presbiteri, cioè anziani nella fede e non sballottati come fanciulli da qualunque vento di dottrina.  I tre personaggi poi, che guardano il corpo esanime dell’Apostolo, vestono vari colori. Una donna voluttuosa veste l’oro: è l’emblema di chi si abbandona alle proprie passioni; un uomo con il manto verde (qui segno di malizia) calato sugli occhi è il discepolo invidioso, cieco di fronte agli eventi della grazia. L’ultimo discepolo è vestito di viola (come la donna che sale la china) e guarda pietoso il suo maestro: costui è l’uomo sapiente che accetta di essere provocato dall’esempio dell’apostolo e quindi di cambiare la propria vita. Uno schizzo di come ancora oggi si possa stare di fronte alla realtà di certe notizie (il martirio di tanti cristiani nel mondo, l’esempio di tanti santi), in modo diverso. E noi come vi stiamo? Impauriti come i due bambini? Indifferenti come la donna? Duri e lontani come l’uomo in verde? O aperti al cambiamento, pronti a lasciarci provocare dalla grazia come l’uomo in viola? La Quaresima è il tempo per dare una risposta.

1° Immagine: Domenico Beccafumi 1515 circa olio su tavola 230 cm × 150 cm Museo dell'Opera del Duomo, Siena
2° Immagine: Particolare

Fonte: Avvenire - Dentro la bellezza -

giovedì 6 marzo 2014

Cenere che non offusca ma rende luminosi

Polvere sei e polvere ritornerai: non lo si dice più, preferendo l’evangelico:« Convertiti e credi al Vangelo!» Così la modernità fa fuori il gesto, lo impoverisce e non lo spiega.
Oggi il segno della cenere rimanda per lo più alle sigarette o ai rari camini di montagna. Impressiona, a questo proposito, un’immagine elaborata da Abdullah Awad, un artista di arte digitale. La foto di una sigaretta (scattata da Jaime Nefar) si trasforma, attraverso gli occhi dell’artista, in un monito anti fumo. L’umanità ridotta in cenere a causa di uno dei vizi più diffusi: questa Digital Art potrebbe rappresentare un ottimo invito a dedicare questa Quaresima al digiuno dal fumo. Tutto ciò, però, poco ha a che fare con le ceneri quaresimali. Un tempo la cenere era utilizzata per disinfettare e lavare; nel linguaggio comune l’espressione «essere polvere e cenere» evocava la fragilità della natura umana e la necessità della penitenza.
Nella bibbia la cenere è segno di purificazione: Giuditta ed Ester, due grandi eroine del Primo Testamento, prima di affrontare i sovrani che avversavano il loro popolo, si cosparsero di cenere il capo, così Giona e Giobbe, nel momento del dolore, sedevano nella cenere, coperti di piaghe.
Proprio al beato Giobbe si riferisce un’opera di Sieger Köder, sacerdote tedesco, vivente. A differenza di altri artisti, come William Blake o, prima ancora il de Ribera e tanti altri, Köder non ci fa vedere nulla di Giobbe; non lo ritrae seduto sulla cenere con un coccio in mano per grattarsi le piaghe: di Giobbe, Köder, ci mostra solo il volto, intensissimo e orante. 
Giobbe è tutto viso, emerge dall’oscurità con un’espressione straordinaria e, di ciò che gli sta attorno, vediamo solo i volti dei suoi amici. Questi sono i difensori di Dio, quelli che intervengono per spiegare il male, per assicurare a Giobbe che certamente in qualche cosa deve aver peccato, visto i guai che sta passando. Sembrano il ritratto di tanti laicisti odierni che pretendono di insegnare al Papa e ai Vescovi a dirigere la Chiesa e che vogliono dettar legge persino sul sacramento della confessione. È proprio in questi presunti amici che Köder, con grande acutezza di sguardo, ci fa vedere la cenere: essi stanno attorno a Giobbe tutti grigi e spenti, come la fuliggine. Solo Giobbe è luminoso.
Sì, la cenere che riceviamo all’inizio della Quaresima ha proprio questo senso forte: da un lato ci ricorda la nostra creaturalità, il nostro bisogno di purificazione e di penitenza, ma dall’altro ci ricorda quanto siano più forti coloro che approfittano delle avversità per crescere nella fede e confidare nella provvidenza. Non siamo soli in questo mondo. La crisi non sarà l’ultima parola sulla nostra patria se, prendendo le ceneri in Quaresima, sapremo assumere con esse la certezza che ad astra per aspera: si giunge alla gloria (anche umana come quella di Giobbe), passando per le asperità della vita, portate con l’aiuto del Cielo.

Immagini: Anti rokok (Digital Art); Art Director: Abdullah Awad; Fotografia: Jaime Nefar; Agenzia: Riyadh, KSA Sieger Köder (nato in Wasseralfingen - Stoccarda – il 3 gennaio 1925)
Giobbe attende da Dio una risposta (Collezione Privata)

Fonte: Avvenire - Dentro la bellezza -

martedì 4 marzo 2014

L'invito ad una scelta più alta: giù la maschera

L’etimologia del carnevale non è certa: per alcuni viene da Carrus Navalis, come i carri processionali dell’antica Roma, per altri dal medievale Carnem levare, l’addio alle carni prima della Quaresima. Certo è che la licenziosità imperava nel Carnevale e che le maschere servivano proprio per celare l’identità di quanti, in quei giorni, si prendevano libertà da tener nascoste.
Pietro Longhi dedicò molte tele al Carnevale, soprattutto al Ridotto, vero e proprio casinò della città. In una sua tela, dall’omonimo titolo, dipinge una coppia in baùtta, costume del tempo composto da un cappuccio di seta nera, un ampio mantello (il tabarro), un cappello a tricorno e la larva (maschera bianca che copriva il viso, assicurando l’incognita). La donna ha gettato la maschera, rivelando la sua identità mentre il corteggiatore, anonimo e malizioso, tenta le sue avances. Sullo sfondo si scorgono alcuni giocatori d’azzardo: un inserviente, ritto in piedi, regge una borsa colma di denaro che verrà irrimediabilmente perduto, mentre uno dei giocatori in baùtta denuncia un baro: la carta che indica, il due di denari, è la stessa che tiene fra le mani il mazziere. Uno spaccato fedele della disonestà di quei luoghi che le maschere non facevano altro che comprovare.
Per i greci, invece, la maschera, prósopon, aveva un significato nobile: è da lì che deriva il termine persona; la maschera indicava perciò un’identità forte e immutabile, quasi eterna. Non così per la fede giudaico-cristiana, dove l’identità coincide con il nome della persona e con la sua chiamata all’esistenza e dove, dunque, la maschera assume una connotazione negativa.
Interessante, da questo punto di vista, la rilettura che Hieronymus Francken II, pittore fiammingo olandese del 1600, fa in una sua tela della celebre parabola delle dieci vergini. L’arrivo dello sposo, raffigurato in alto al centro, è atteso in preghiera dalle cinque vergini sagge (a destra) e nei bagordi dalle cinque vergini stolte (a sinistra). Più della scompostezza delle donne in scena, sorprendono gli oggetti seminati per terra. Accanto alle carte, simbolo universale dell’azzardo (e di una vita giocata sull’improvvisazione più che sulla serietà dell’impegno), si vedono due maschere. Una di queste, più vicina alle vergini sagge, è rovesciata, quasi a dichiarare la sua inutilità, l’altra invece, vicina alle vergini stolte, è appoggiata per il verso diritto quasi in attesa di chi la indossi. A ben vedere, oltre alla donna con la mandola, uniche a guardarci sono le maschere e paiono invitarci alla riflessione. Anche per noi lo Sposo tarda a venire e l’entusiasmo per una vita veramente cristiana sembra cadere sotto i colpi di una cultura laicista-edonista capace di dominare l’uomo e le sue aspirazioni. Così l’umanità, similmente alle vergini stolte, spende la vita nell’azzardo e nella ricerca spasmodica di un’identità virtuale.
Che fare dunque? Abbandonarsi, come denuncia Francken, allo stordimento dei sensi, o riparare attraverso una sana riflessione, fatta di capacità di attesa, ponderatezza e preghiera? Se il mondo ha già fatto la sua scelta, l’artista fiammingo invita noi a farne un’altra, certo meno popolare, ma più capace di andare oltre le maschere quotidiane e “vedere” finalmente la salvezza che viene. Dall’alto.

Immagini: Pietro Longhi, Il ridotto, 1740 circa, olio su tela, Querini Stampalia Venezia Hieronymus Francken il giovane, Parabola delle Vergini sagge e stolte, 1616, olio su tela cm 111x172, Hermitage, San Pietroburgo Russia.

Fonte: Avvenire - Dentro la bellezza -