giovedì 25 settembre 2014

La speranza oltre la montagna (di polenta)

Un contadino, un chierico e un soldato, disposti a raggera sotto una tavola imbandita, sono stremati. Sopraffatti dalla loro stessa ingordigia i tre ceti sociali dipinti da Bruegel, rappresentano tre grandi aeree della società occidentale: il lavoro; la religiosità; la giustizia. Sono ricchi e poveri, letterati e illetterati, tutti hanno raggiunto il paese della Cuccagna e ne sono rimasti vinti. Qui, ogni ben di Dio è a portata di mano, i cibi si servono da soli: l’uovo cammina con il suo cucchiaio; il maialino, già affettato, avanza con un coltello affilato; il polletto mette spontaneamente la testa nel piatto. Davvero c’è tutto, c’è anche la giovinezza – perché nel paese di Bengodi non s’invecchia mai - e purtuttavia manca l’uomo. Quegli oggetti che sono per l’uomo gloria e vanto, giacciono abbandonati: la mazza per la trebbia del contadino sta sotto il peso del proprietario, la lancia è calpestata dal soldato e il libro di preghiere e la pergamena del chierico sono abbandonati sul prato.

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Sorprendente, e dal sapore boccaccesco, è la montagna di polenta sullo sfondo all’estrema destra. Una montagna dalla quale sbuca un personaggio che si è fatto strada con un cucchiaio. Più volte la polenta è stata oggetto di attenzione da parte dei pittori e spesso con accenni allusivi ai vizi più svariati.


Pietro Longhi, ad esempio, dipinge un quadro e lo intitola proprio Polenta. Apparentemente l’artista ci introduce entro una innocua cucina dove due belle inservienti scodellano la polenta appena cotta. Una impugna ancora il paiolo mentre due uomini, dei quali uno è un suonatore di violino, assistono vogliosi. In realtà tutto rimanda ad altro: la tovaglia al lenzuolo, il vino e la musica allo stordimento dei piaceri e le due donne, nell’offrire la polenta, offrono loro stesse come cibo ambito. Così si camuffavano i vizi e si alludeva ai piaceri ricercati da poveri e ricchi.

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La polenta, del resto, è cibo dei poveri, ma è diventato, nei secoli, leccornia anche per i ricchi. È un cibo dalle innumerevoli proprietà e lo sapeva anche Bruegel che, con quella montagna di polenta, allude ai proverbi fiamminghi: mangiando – a sbafo – e scavandosi un buco è possibile raggiungere Bengodi. Ma quanto profetico è questo spaccato di mondo bruegeliano? Siamo così sopraffatti da quello che ci siamo faticosamente conquistati, da non vedere il pericolo che incombe. Qualcun altro sopraggiunge, impugnando non le armi, ma un modesto cucchiaio, sorpreso forse d’esser arrivato così facilmente a conquistare il paese.

Si sono scavati un buco modestissimo e hanno imparato a sfruttare le nostre stesse leggi, scoprendoci poi totalmente addormentati. Bruegel mette in guardia da certo gozzovigliare narcotizzante, ma offre anche l’appiglio della speranza. Se nel paese della Cuccagna tutto è brullo e gli alberi son secchi, sulle rive del lago ci sono alberi frondosi. Se da questa parte incombe l’oscurità, oltre la montagna di polenta, c’è un lago luminoso, dove la gente lavora e vive onestamente. La semplicità e la sobrietà della vita, ecco ciò che ci salverà! Radicarsi in sani principi e rimboccarsi le maniche, vivere in una corretta relazione con se stessi e con i propri istinti, ecco le regole d’oro per fare di noi, non cristiani in poltrona (come afferma il papa), ma uomini di speranza.

ImmaginiPieter Bruegel il Vecchio, Paese della cuccagna, 1567, olio su tavola, 52 cm × 78 cm. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera
Longhi Falca Pietro, La polenta, 1740, olio su tela. 61 x 50 cm. Collocazione; Ca' Rezzonico, Venezia.

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


giovedì 18 settembre 2014

Bambini o anziani. La scelta prima del diluvio

Nella pagina biblica del diluvio l'uomo ha sempre visto il travaglio della propria storia. Lo testimonia l'arte che ci offre opere di grande suggestione come quella di Joseph-Désiré Court, artista morto nel 1865 a soli 30 anni.

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La tela, oggi al Museo di Lione, s’intitola Scène de déluge, e descrive l’attimo in cui un giovane uomo, sorpreso con la famiglia dalle acque, si trova di fronte a una scelta: salvare il vecchio genitore che sta per essere risucchiato dai gorghi o salvare il figlioletto che la moglie solleva disperatamente dalla furia del diluvio? Il tema, caro alla pittura rinascimentale (si pensi all’affresco di Michelangelo nella Sistina) riprende un dramma già scandagliato dalla mitologia greca: Edipo e il suo complesso rapporto col padre; Anchise, Enea e il figlioletto Ascanio in fuga da Troia ecc. Insomma di fronte all’imminenza di una fine, chi salvare? La sapienza del padre o l’innocenza del figlio? La ricchezza di un’esistenza, tuttavia già segnata dalla morte, come quella del padre, o la promessa di un’esistenza tutta da vivere rappresentata dal figlio? I volti raccontano l’esito. Il giovane uomo sembra preferire l'anziano genitore, l’unica mano libera, infatti, viene offerta al vecchio. Le dita si sfiorano senza agganciarsi, lasciandoci eternamente nel dubbio circa l’esisto dell’intervento. Il vecchio si salverà? Oppure la furia dell’acqua se lo porterà con sé? E poi perché scegliere il vecchio? Perché lasciare inascoltate le suppliche di una madre che tenta disperatamente di intercedere per il suo piccolo?
L'opera parrebbe una profezia del nostro tempo. Guardandoci attorno scopriamo come ogni generazione stia vivendo il dramma della storia in solitudine. Oggi non sappiamo chi salvare. Il disprezzo per la vita abbraccia padri e figli. Generare è diventato un diritto, come sopprimere una vita al suo sorgere o al suo tramontare. Oggi siamo così abituati alla tragedia che rischiamo di non vederla più.

A ben guardare, nell’opera di Court, solo l’uomo che ha già raggiunto la riva è nudo, l’uomo e il figlioletto ormai destinato alla morte. La donna e l’anziano indossano invece ancora degli abiti. Che strana capacità profetica quella degli artisti! In un’opera così distante da noi, già è tracciata la povertà terribile di un’umanità che ha perso dignità e che vede naufragare nel mare dell’oblio, tanto l’eredità dei padri che l’istinto sano di sopravvivenza e di conservazione della specie, racchiuso nelle madri. Cosicché le generazioni dell'adulto, che regge la storia, e del bambino, promessa del futuro, restano nudi e senza identità.

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Sorprende la diversa interpretazione dell’evento che ne dà Michelangelo. Pur nella medesima drammaticità di corpi in balia delle acque. Michelangelo pone sullo sfondo l’arca di salvezza, la Chiesa, verso la quale alcuni approdano. Mentre in primo piano, uomini attaccati alle cose umane, stanno per essere risucchiati dall’acqua, vi sono i perversi che su una barca fanno guerra all’arca della Chiesa. Tali perversi, pur essendo fra loro nemici, trovano qui un apparente momento di unità. Sul lato destro si presenta una scena simile  a quella di Court, ma colma di speranza. In questo gruppo, messo al sicuro su un isolotto, si delinea il profilo di quanti sono abbandonati alla volontà di Dio e cercano la salvezza guardando, pieni di desiderio, l’arca della Chiesa. Qui un padre, senza rassegnarsi all’evidenza, prende su di sé il corpo del figlio esamine, affermando così il desiderio di una salute che supera quella del corpo. Il confronto tra le due opere pone in evidenza la perdita di senso della vita e dei principi fondamentali dell’esistenza che, molto chiari a Michelangelo, risultano già offuscati per l’ottocentesco Court, fino a giungere all’obnubilamento quasi totale dei nostri giorni.

IMMAGINI
Michelangelo Buonarroti Il Diluvio Universale affresco (1509) Affresco 280 cm × 570 cm
Cappella Sistina Città del Vatican.
Joseph-Désiré Court (1797–1865) Scène de déluge 1827 Museo delle Belle arti di Lione
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

domenica 14 settembre 2014

Scuola il rischio noia se si perde la meraviglia



L’alternativa a una scuola noiosa non è una scuola divertente. Non esiste una scuola spensierata e senza fatica (e il digitale non la renderà tale), ma questo non vuol dire che debba essere noiosa (e il digitale ci darà una mano). La vera alternativa è una scuola interessante. Interesse (essere dentro) vuol dire coinvolgimento con tutto l’essere (corpo, cuore, testa, spirito) da ciò che viene presentato o rappresentato (dal corpo, cuore, testa, spirito dell’insegnante). L’interesse è perfettamente compatibile con l’impegno e la fatica, cosa che la noia non potrà mai ottenere, e neanche il divertimento che si esaurisce nella consumazione dell’esperienza.
Ma che cosa ha il potere di attraversare l’essere da dentro in tutti i suoi strati? Quale presenza riesce a muovere la persona nella sua completezza chiedendole di andare oltre?

Ancora una volta chiedo la soluzione alla lettera ricevuta da una giovane lettrice:
«Ho 15 anni, ho fatto il primo anno al classico e più l’inizio della scuola si avvicina più vado in crisi. Non mi fraintenda: io ho una sete di apprendere smisurata, la mia curiosità più viene alimentata e più cresce. Io ho veramente voglia di studiare. Ma se da una parte i miei occhi ardono di scoperta, dall’altra i miei professori, con occhi di ghiaccio assolutamente inespressivi, parlano con disinteresse alla materia, senza amore verso ciò che fanno. Come facciamo a mantenere vivo l’interesse e a realizzare noi stessi in una scuola che insegna senza amore? In una scuola che pensa solo a classificarci tutti tramite voti, voti e ancora voti? Ho avuto la fortuna di assistere a una lezione di un poeta, mentre parlava di Leopardi e parafrasava alcuni suoi versi, non si poteva che rimanere lì, incantati dal suo sapere, meravigliati da come la faceva diventare parole per noi, stupiti da come "un’altra poesia da studiare" si trasformasse in "questa poesia parla di me, la voglio approfondire!" Questo è ciò che io chiamo imparare».
Occhi ardenti (movimento) contro occhi di ghiaccio (immobilità). Interesse (esserci in pienezza) contro disinteresse (esserci se non in parte). Che cosa ha di diverso quell’uomo che parla di Leopardi: incanta, meraviglia, porge la poesia come un pane buono, spinge l’eros di sapere ad andare oltre, a lanciarsi nell’alto (altum in latino è l’aperto e il profondo al tempo stesso) dell’Ulisse dantesco, per dissetare la sete dei sensi in veglia.

L’alternativa ad una scuola noiosa è una scuola "meravigliosa", cioè capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia. Già Aristotele descriveva così questo sentimento capace di unificare sensi, cuore e mente: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere». Sorprende la somiglianza tra la descrizione di Aristotele e le parole della quindicenne: questa cosa mi interessa, cioè riguarda tutto il mio essere da dentro, non posso perdermela, devo andare oltre.

Ma dobbiamo capire meglio cosa sia questa meraviglia, per poterla recuperare e suscitare. La definisco un sentimento misto: sorpresa unita a pace. Qualcosa di nuovo si impone alla nostra attenzione e spiazza la nostra intelligenza, ma non basta. Siamo chiamati a fermarci, sostare, osservare, andare alle fonti di quello stupore che ci ha afferrato, per attingerne la causa. Veniamo trasformati da passanti distratti in spettatori curiosi e attenti, per questo prima parlavo di (rap-)presentazione del sapere (il professore agisce il sapere).
La generica sete di sapere che caratterizza ogni essere umano attraverso la meraviglia diventa interesse specifico: dal bambino affascinato dal gioco nuovo che cerca di aprire per capire come faccia a muoversi, al ricercatore che osserva al microscopio un grumo di cellule.

La realtà è una promessa di sapere che aggancia attraverso la meraviglia, capace di generare una ricerca (un girare attorno all’oggetto: ri-circa) di tipo sapienziale o scientifico, come dice Aristotele.

Il compito di ogni insegnante è proprio quello di presentare nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi, la meraviglia verso l’oggetto in esame. Non esistono aspetti della realtà poco interessanti, esistono casomai persone poco interessate.

Quest’estate ho ascoltato da un amico appassionato di pesca il racconto di una notte passata a prendere i pesci-lama. Alla fine del racconto volevo sapere come erano fatti questi pesci, volevo capire il tipo di esca e di amo che aveva usato, volevo andare a pesca, che non è stata mai al centro dei miei interessi, ma la meraviglia del suo racconto mi aveva cambiato in pochi minuti.

L’insegnante è un narratore-attore della meraviglia verso ciò che insegna, provoca eros manifestando il suo eros. L’attenzione dell’allievo agganciata si porta verso la cosa e non verso l’insegnante, altrimenti non si tratterebbe di meraviglia ma di seduzione. Il sapere somiglierà ad un regalo impacchettato: un pacchetto ben fatto segnala qualcosa che è per me e solo per me, una sorpresa. Nessuno però si accontenta del pacchetto: va oltre, apre, riceve, ringrazia.

Questo non vuol dire che avrò una classe di occhi ardenti e assetati, ma semplicemente che darò a coloro che saranno pronti la possibilità di accendersi. Solo al fuoco della meraviglia cuore e mente vengono unificati e lanciati oltre. Solo chi coltiva questo fuoco in sé riesce a insegnare, altrimenti con il tempo si riduce ad assegnare.

da Avvenire, editoriale di Alessandro D'Avenia
11 settembre 2014

venerdì 12 settembre 2014

Il nodo di Salomone che Cristo lega e scioglie

Il nodo lega, collega, stringe. Il nodo può simboleggiare un legame profondo positivo, vitale, come ad esempio i nodi del cordone dei francescani, ma può anche alludere al cappio e dunque alla schiavitù, a un dominio dispotico.
Sono infiniti i crocifissi fra XII e XVI secolo ad avere alla cintola una cintura annodata. Ciò che a prima vista appare come un ornamento casuale, è in realtà un simbolo molto antico che già ornava la pavimentazione delle basiliche paleocristiane.

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Ne troviamo un esemplare nella basilica di Aquileia (UD) del VI sec. (ma anche nella Sinagoga degli scavi di Ostia antica). Il singolare nodo riprodotto dal mosaico è, detto nodo di Salomone e allude alla sapienza del grande sovrano per il quale nulla era sigillato e dal quale provenivano enigmi irrisolvibili. Nella sinagoga di Ostia (risalente al I secolo) il simbolo del nodo compare nell’antica cucina dell’edificio, dove si impastava il pane e si conservavano le derrate alimentari. Il nodo veniva così a indicare come la sapienza dell’uomo inizi proprio da ciò che introduce in sé stesso, il cibo, ma anche i pensieri, le idee, le filosofie. Non così nella sinagoga di Bova Marina, in Calabria (altrettanto antica) dove il nodo appare nell’aula della preghiera, qui il simbolo fa riferimento all’unione fra l’uomo e Dio, scopo ultimo della lettura della torah.

Il nodo di Salomone, tirato per un verso, prontamente s'apre, mentre tirato per il verso contrario, irrimediabilmente chiude. Ecco allora che Cristo sulla croce è il nuovo Salomone. I nodi del peccato e della morte, insolubili all'uomo, trovano in Lui una risposta e la vita eterna, irraggiungibile allo sforzo umano, è da Lui offerta con gratuità.

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Anche nel famoso crocifisso che, in san Damiano, parlò a san Francesco, incontriamo questo nodo. Il volto sereno con gli occhi spalancati, tipici dei Christus Triumphans, rendono già evidente, sulla croce, la risurrezione, mentre il sangue che zampilla copioso dalle sue piaghe, denuncia la sofferenza e la morte. La capacità di sciogliere e legare data a Cristo dal Padre: sciogliere dal peccato e dalla morte e legare con sé al Cielo, è simboleggiata appunto dal nodo che regge il perizoma.

Il nodo di Salomone è presente al nostro quotidiano più di quanto non si creda. Sulle tastiere di chi usa Macintosh, il tasto detto «mela» reca il simbolo di questo nodo rovesciato (in inglese chiamato nodo di Bowen), alludendo alle proprietà del tasto che apre e chiude molti comandi dei programmi MAC. Fa pensare come, nonostante la gran fortuna di questo nodo, le sue caratteristiche ci siano ancora tanto estranee. La nostra società, pur credendo di estendere il suo dominio sulla vita e sulla morte, in realtà ignora la fonte della sapienza che il nodo di Salomone sigilla: quella fonte del vero e del bene che solo la Rivelazione biblica, e in particolare quella di Cristo, offre. Come già annunciava San Paolo ai greci: noi parliamo sì di sapienza, ma non di una sapienza di questo mondo, bensì di quella che viene dalla croce, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani. E i tanti martiri di oggi continuano a dimostrarlo

Immagine:
Nodo di Salomone, mosaico nell’antica Sinagoga, IV sec. Scavi di Ostia
Crocifisso di San Damiano, croce dipinta del XII sec. Anonimo. Basilica Santa Chiara Assisi.


da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

lunedì 8 settembre 2014

Quell'affanno che ci spinge a guardare il Cielo

La mela evoca immediatamente l’antica discordia dell’Eden, una discordia che si perpetua nel tempo rivestendosi di sempre nuovi pretesti. È il caso abbastanza recente della mela di Apple, a lungo disputata con la Apple Record dei Beatles. Gli antichi Baronetti fecero causa all’intraprendente Steve Jobs a motivo del logo della mela, una causa che si risolse solo nel 2007. Pochi sanno che il tutto ebbe origine da un dipinto di Magritte. Paul McCartney si era appassionato a René Magritte e alla sua pittura stravagante. Un giorno mentre il baronetto era impegnato in prove di registrazione, Magritte gli fece visita e, per non disturbare, lasciò un dipinto con una grande mela e una scritta: Au revoir. Quella mela, tagliata a metà, divenne il logo della casa discografica dei Beatles.
In una delle molteplici versioni della mela, Magritte confina il frutto dentro una casa. Il titolo: la camera d’ascolto fa riferimento alla proverbiale incapacità di ascoltare dell’uomo. Il primo comandamento biblico: Shemà Israel, resta ancora il principale comando disatteso dall’uomo. Ascoltare è un’arte difficile. La stanza di Magritte è inospitale, tutta piena del pomo dell’origine. Forse il buon René non poteva immaginare quanto drammaticamente noi potessimo essere testimoni di ciò. Cuore e orecchie oggi sono pesantemente segnati dalle pulsioni dei sensi che paiono l’unico criterio di giudizio sulla realtà. Non c’è possibilità di lasciar spazio allo sguardo in una stanza così, impossibile prendere le distanze dalla propria istintività, giacché questa la fa da padrona.
 
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Il pavimento di parquet rende ancora più soffocante l’atmosfera sebbene Magritte lasci, come spesso nei suoi quadri, la via di fuga della speranza. La speranza sta in quell’unica finestra della stanza chiusa. C’è un mondo là fuori, vasto e terso, un mondo che chiama ad allontanare lo sguardo da sé per volgerlo a un reale che ci supera e ci orienta verso l’alto: il Cielo. Magritte ci obbliga a pensare a tanti temi oggi ricorrenti: gli abusi sulle donne; le questioni legate al gender; la disputa sui figli nati in uteri affittati o per uno strano mixer di ovuli e inseminazioni; la pedofilia e la repulsione verso il disabile con la conseguente eutanasia. L’elenco potrebbe continuare, ma non voglio. Chiedo a Magritte (che era più religioso di quanto non si pensi) di darci una mano a cambiare aria, a spalancare finalmente la finestra dell’angusta stanza del terzo millennio e aiutarci a vedere più chiaro dentro e fuori di noi e valutare meglio i punti chiave delle nostre discordie.
 
Un artista contemporaneo, scomparso nel 2002, Vanni Viviani, ha dedicato alla mela tutta la sua vita. La sua villa ottocentesca, Ca di Pom, è diventata una sorta di scrigno dove il frutto dell’Eden è rivisitato in molti modi. Proprio qui, un’opera del Viviani, desta non poco stupore. Riferendosi a Leonardo da Vinci egli rilegge l’ultima Cena alla luce dell’antico frutto proibito. Il cenacolo vede accalcarsi alla tavola non i discepoli gesticolanti del grande genio vinciano, ma pomi di vario tipo: mele intonse, mele tagliate, mele mancanti di una fetta. Solo la mela di Cristo è aperta e scavata all’interno come fosse una coppa. In lui non c’è la polpa del male. Egli è una sorta di alfa e omega come sembra alludere il taglio dei bordi della mela scavata.
 
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Gli altri hanno in sé il seme del male, mentre Cristo ha davanti a sé due semi. Solo lui è capace di unire i contrari, di fare dei due un popolo solo, di trasformare le nostre discordie in un banchetto di pace. Viviani non era artista religioso, anzi le sue mele rimandano spesso all’aspetto erotico del frutto, eppure qui coglie magicamente un senso profondo, arcaico. Quello di una discordia antica che proprio nel punto culminate della vita del Cristo si svela e inizia la sua caduta. L’ultima cena annienta il veleno dell’antico frutto e ci regala un cibo nuovo che, come la finestra spalancata di Magritte (cui peraltro Viviani faceva esplicito riferimento), invita a volgere lo sguardo altrove, oltre il verdeggiante paesaggio che s’intravvede nel cenacolo vivianesco.
 
 
René Magritte, La chambre d'écoute (La camera d’ascolto) 1952 olio su tela 45 cm× 54,7 cm The Menil Collection, Houston.
Vanni Viviani, L'ultima cena, 1996 tecnica mista su tela, cm. 150 x 200 Ca di Pom San Giacomo Delle Segnate MN
 
(da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)