mercoledì 24 dicembre 2014

Nell'oscurità germoglia una nuova Speranza

​Siamo tutti lì dietro a Giuseppe, siamo invitati da Georges de La Tour a entrare nella grotta più celebrata della storia. Luminista caravaggesco, de La Tour indugia in una narrazione più chiara, dove la luce è meno violenta e il fondo meno oscuro. Non ci permette di vedere null’altro che la gente assiepata attorno alla culla di un Bambino. Non si vede il cielo stellato che canta la gloria nel Nascituro, non le greggi e i pastori che ricevono l’annuncio, nulla di tutto questo.


Il trafficato inverno della Betlemme di Cesare Augusto al tempo del Censimento è lontano, ci sembra di udirne a tratti il suono ovattato mentre qui, in questa spelonca nuda, della quale neppure conosciamo i confini, è il silenzio. Quanto abbiamo bisogno di un silenzio contemplativo che ci aiuti a rischiarare le idee. Quanto vociare, quanta babele di lingue, di cose dette e ridette, di notizie amplificate, di atrocità reclamizzate quasi fossero un prodotto di consumo. Come ci fa bene questa natività di de La Tour.
Il titolo è importante: Adorazione dei Pastori. Adorazione: ad os, portare la mano alla bocca e baciare. La bocca tace e si apre a quello stupore magnificamente cantato dalle Antifone "O" sette giorni prima di Natale. È lo stupore che conosce.
Nella grotta ci sono cinque personaggi. Cinque come i libri della Torah attorno a un nuovo rotolo, una nuova legge: la Parola fatta carne. Tutti sono come colti da una rivelazione. Il pastore che ci sta di fronte ha tra le mani un flauto e si scosta la visiera come sorpreso da una luce altra e da un calore nuovo. Là fuori ha lasciato i suoi sogni, le sue speranze, l’attesa di un futuro immaginato. Ora, con quel gesto sembra allontanare tutto: c’è un Presente qui che azzera ogni desiderio, ogni attesa.
Questo pastore, proprio perché nascosto, dà profondità alla scena, la luce gli bagna appena il volto rivelando la gioia profonda che, ormai, lo abita. Vediamo in lui tutti i sognatori della storia, quelli che confidano nel loro flauto, nella loro capacità di immaginare un mondo nuovo e di comunicarlo. Ci sono necessari, eppure qui sono richiamati, come questo pastore, a una concretezza unica: il sogno è un bambino, una promessa di vita. Un futuro che ci veda spettatori (perché il centro è il bimbo) e protagonisti insieme.
L’altro pastore invece è diverso: serio, pensoso, regge il bastone con vigore e s’indovina ancora l’energia con la quale guida il gregge. L’ha lasciato là fuori e s’è portato appresso solo l’ultimo nato, e vive un conflitto tra le preoccupazioni del gregge, sperduto sopra i monti, e la luce di questo Bambino. Quanti volti così nella notte di Natale? Gente più avvezza al lavoro, che alle cose di Dio. Eppure in questo giovane uomo s’individua un passaggio, un cambiamento: cosa sarebbe la sua guida, la sua perspicacia senza il Pastore d’Israele, quello vero, quello che gli sta davanti inerme, ancora infante ma già carico di un’autorità che fa zittire?
La levatrice è straordinaria. Ha quell’aria indispettita di chi avrebbe dovuto essere la prima: la prima a sapere, la prima ad arrivare, la prima a conoscere, la protagonista. E invece è arrivata alla grotta e questa ragazzetta da nulla aveva già partorito, da sola. Così non sa cosa guardare, se la sua ciotola d’acqua calda inutilizzata o la compostezza grave di quella Madre e di quel Bambino. Il suo abito ci racconta molto di lei.
Nulla è lasciato al caso, non è una am ha arez, una del popolo della terra ma, potremmo dire, "veste firmato", è una donna battagliera. È davvero la domina della sua casa. Ora tutta la sua sicurezza s’infrange di fronte allo stupore di un fatto inusitato: un bambino nato senza sangue, né doglie, né lacrime. Tutto ciò è incomprensibile. Si scorgono, in questa donna, i cercatori di verità, quelli che forse non credono in Dio, mentre credono molto in loro stessi, eppure di fronte al soprannaturale si lasciano provocare, com-muovere.
L’altra donna del gruppo è la Madonna. Così solitaria e ieratica, tanto diversa dalle Madonne adoranti che siamo abituati a conoscere. Non capiamo neppure bene dove stia guardando, sembra vedere lontano, più lontano dei presenti, più lontano di noi. Vede già il sangue dell’Agnello sparso per i nostri peccati. Forse per questo il suo abito è rosso, quasi fosse già carica di quel sangue. Somiglia a un’altra Madonna di La Tour, anche lei vestita di rosso.




Una Madonna più dolce, fanciulla e principessa insieme, che ci porge il Figlio con mestizia. Pure in quest’altra tela si fa strada, nel buio, una levatrice con la sua candela. Anche qui non vediamo nulla se non il Nuovo Nato, che è il titolo del dipinto. Ma chi è Costui?
È proprio all’abito della Vergine che George de La Tour affida la sua risposta. Nell’Adorazione dei Pastori sull’abito della Madre si proiettano ombre. L’ombra delle mani della Vergine disegna ali come di colomba: è il segno dello Spirito di cui è ricolma. Qui è scritto il mistero del suo parto indolore. Un’altra ombra, più piccola, si trova all’altezza del ginocchio (simbolo di adorazione), la provoca l’agnellino che, avvicinandosi al divino Infante, si mette a brucare. Sì, è l’ombra di un germoglio. Ecco l’identità di Colui che adoriamo: il Germoglio giusto, atteso da Israele. Ora sappiamo qual è la rivelazione che riempie la grotta: tutti vedono, tutti sono entrati dietro a una fiaccola. Ma la luce vera non è questa. Giuseppe si fa schermo con la mano perché quella fiaccola non colpisca il nostro sguardo: la luce del dipinto viene da lui, da questo Germoglio di novità e di vita. Attorno al bimbo ruotano i volti e i simboli del dipinto. E proprio come nella tela de Il Nuovo Nato, Cristo è bambino, eppure già dormiente nel sonno della morte; è neonato, eppure già avvolto nelle bende e in un sudario, umile promessa di risurrezione.
L’oscurità cui ci costringe de La Tour somiglia molto al panorama di questo Natale. Non possiamo dimenticare il mondo in fiamme, il veto davanti a molti presepi, lo scempio impetrato contro inermi neonati eppure la Tour ci ricorda che una siffatta oscurità non è l’ultima parola sul mondo. Un Nuovo Nato ha chiamato a raccolta le genti dietro l’umile candela di Giuseppe, dietro la fiamma tremula della levatrice. Così siamo entrati anche noi attirati da questa fiamma per abbeverare il cuore di una nuova Speranza: ecco proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?

da Avvenire del 23 dicembre 2014, di Maria Gloria Riva

giovedì 18 dicembre 2014

Quel taglio è una ferita di luce, un dono di vera vita

Contro chi vedeva l'Incarnazione come un evento mistico (Cristo, in un bagliore di luce, entrava nel grembo di Maria) si sviluppò, in ambito agostiniano, la verità teologica della gestazione della Vergine. Fiorirono così le madonne del parto, dalle più antiche del duecento, fino alla Madonna di Monterchi, capolavoro di Piero della Francesca. L’ affresco era destinato all’antica chiesa di Santa Maria di Momentana, dove le donne incinte si recavano a impetrare grazie per sé e per il nascituro. Attorno al 1785 la chiesa fu in parte distrutta per edificare un cimitero. Nel 1911 l’affresco fu staccato per varie ragioni, passando di luogo in luogo.

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Era straordinaria però, l'immagine di una Madonna del parto all'ingresso di un cimitero! Una Madonna del parto, così, come quella di Piero, che appare come arca dell'alleanza in uno squarcio di cielo indicando solennemente la ferita del Mistero. Sì, quel taglio nell’abito azzurro, è una ferita che addita all'uomo la bianca luce dell'eternità. Come si potrebbe raccontare meglio il Natale? Non è il cimitero, nel nostro quotidiano, il luogo della domanda, spesso angosciosa, di chi è assillato dal senso di una vita che approda alla morte? Contro certa cultura moderna che vorrebbe consegnare la morte al nulla, contro certuni che vorrebbero imporre agli uomini un credo con la spada e la violenza, il cristianesimo sorge da una donna incinta che sta come portale di vita davanti al luogo della morte. Com’è stabile la Vergine, dipinta da Piero, dentro le pesanti cortine della Shekinà! E com’è ferma mentre addita il luogo della novità divina! Il suo grembo, azzurro è come il firmamento (dal latino firme), cioè stabile. Sì, la tua Parola, o Dio, è stabile come il cielo! E chi affonda il suo piede in essa, Parola fatta carne, non avrà da temere. Davvero il piede destro della Vergine è fermo, certo nell'attesa di un evento che fonda la storia dell'umanità. Il Natale è la festa della pretesa cristiana: nessuna religione vanta questo. Noi abbiamo la pretesa di non morire perché una donna gravida di vita sta alle porte del cielo.

Piero della Francesca, Madonna del Parto, 1455, affresco, 260 cm × 203 cm.
Spazi espositivi, Monterchi
 
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 11 dicembre 2014

Lucia, uno sguardo nuovo per riconoscere la vera via

Era alta 1 metro e 50, corpo esile, capigliatura castana, si chiamava Lucia. Non fu figura inventata dalla Chiesa, per far piacere ai bambini in quelle aree del mondo dove lei porta i regali: Santa Lucia è esistita veramente. Il suo corpo riposa a Venezia, ma la sua fama gira in tutto il mondo. Anche nella Svezia progressista, la festa di Santa Lucia, è tra le più attese del periodo natalizio. Le ragazze si vestono di bianco e si adornano il capo con una corona di sette candele. La santa è nota per gli occhi che ostende in un piattino, ma in realtà Lucia morì di spada conservando perfettamente la vista. Ma allora perché quegli occhi sul piatto offerti ai fedeli in ogni affresco, tela o statua che la rappresenti? Impressionano, ad esempio, gli occhi fioriti sopra uno stelo, della Santa Lucia di Francesco del Cossa del 1472. Impressionano perché ti guardano fissi come aspettando qualcosa.
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 Una medesima sensazione ce la offre un altro artista duecento dopo, Francesco Furini nel 1646. La sua Lucia ci volge proprio le spalle e, se da una tal postura intuiamo la forza prorompente della sua bellezza, da quello che ci offre, i suoi occhi nel calice appunto (gli unici che ci guardano), siamo riconsegnati alla sensazione di essere attesi.

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In realtà è Lucia ad aspettare che noi si apra gli occhi. Abbiamo lo sguardo così abituato ai misteri del Natale, per i quali lei ha dato la vita; abbiamo una così bassa concezione per la verginità e ci pare così scontata quella libertà di cui godiamo, mentre per tutto questo Lucia fu uccisa, che ella non può che desiderare il nostro risveglio. La storia della martire sembra una cronaca dei nostri giorni: avendola scoperta cristiana e determinata a rinunciare al matrimonio per consacrarsi a Dio, il fidanzato la denuncia.

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Seguono minacce e torture: vogliono avviarla alla prostituzione, ma lei diventa pesante come un macigno; la condannano al rogo, ma le fiamme la risparmiano; alla fine la uccidono trapassandola a fil di spada. E quando cessa la sua vita, inizia la sua fortuna. Ecco perché Francesco della Cossa le mette gli occhi-germoglio fra le dita! Sì, una nuova vita germoglia, ogni qualvolta la si perde per Cristo e per la sua Verità: ecco il dono di Lucia! La corona con sette candele delle giovani svedesi ricorda la sua carità: Lucia scendeva nelle catacombe a curare gli infermi recando una luce sulla testa per poter camminare nel buio. Forse per questo lei nasce al Cielo nel giorno più corto dell’anno, per essere una luce nella notte del mondo. Siamo un po’ meno a disagio, ora, di fronte agli occhi-germoglio della Santa, ora sappiamo perché ci guardano: che si possa incominciare a vedere, nonostante si viva nel periodo più miope della post modernità. Che germogli in noi uno sguardo nuovo per riconoscere la via. Che Lucia ci possa guidare verso la vera Luce, quella che apre all’intelligenza delle cose, quelle del Natale che rischiamo di non più riconoscere.
Immagini: Francesco del Cossa, Santa Lucia (dal Polittico Griffoni), 1472-1473 tempera su tavola 79 cm × 56 cm  National Gallery of Art, Washington
Furini Francesco, Santa Lucia, 1630 – 1646, olio su tela, cm 68,5 x 51,8. Galleria Spada, Roma     

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


mercoledì 10 dicembre 2014

Pericolo digitale

Segnalo l'interessante dossier apparso su Dimensioni Nuove, nel numero 7 di settembre-ottobre 2014. Vai al seguente link:  http://www.dimensioni.org/2014/09/pericolo-digitale.html

A questo proposito, la classe 3E, riflettendo in classe sui rischi connessi all'uso dei mezzi digitali (smartphone, socialmedia, ecc.) ha prodotto e pubblicato questo podcast


domenica 7 dicembre 2014

La nascita di Gesù nel polittico di Hugo van der Goes














Il 28 maggio del 1483 giungeva a Firenze via mare fino alla foce dell'Arno e poi via fiume, un imponente trittico e veniva collocato nella cappella Portinari della chiesa di Sant'Egidio nell'Ospedale di Santa Maria Nuova. La tavola proveniva dalle Fiandre ed era stata dipinta da uno dei più famosi e capaci pittori di quella terra: Hugo van der Goes. L'artista era nato a Gand attorno al 1440. Fu iscritto alla corporazione dei pittori nel 1467 e lavorò in diverse città delle Fiandre. Colpito da una grave malattia mentale, si ritirò in un monastero e vi morì a soli 42 anni.
Il polittico, capolavoro del pittore, era stato commissionato da Tommaso Portinari, un agente del banco dei Medici di Firenze nelle piazze del Nord Europa. L'opera, realizzata a Bruges, databile tra il 1477 e il 1478, è dipinta su tre tavole unite da cerniere, lo scomparto centrale reca una Adorazione dei pastori.


Nei due scomparti laterali, mobili, sono raffigurati i membri della famiglia di Tommaso Portinari e i lor santi patroni: a sinistra il capo famiglia con i due figli maschi Antonio e Pigello;


a destra la moglie Maria con la figlia Margherita.


Alle spalle dei maschi San Tommaso apostolo e Sant'Antonio Abate, mentre sullo scomparto opposto sono ritratte Santa Maria Maddalena e Santa Margherita. Il significato iconografico dell'Adorazione è complesso. La scena è incentrata sulla figura di Maria che inginocchiata adora a mani giunte il Figlio. Il piccolo è adagiato su un lettuccio di paglia, a significare la povertà della sua nascita.


San Giuseppe è defilato in un angolo, quasi nascosto da una colonna della tettoia. Arcangeli ed Angeli sono rivestiti
 con l'abito proprio della loro categoria: i ricchi piviali di prezioso broccato sono per gli arcangeli, altri hanno un camice bianco e la stola del diacono oppure indossano lunghe tuniche azzurre come i ministranti e tutti fanno corona alla scena centrale. Un'attenzione particolare meritano i pastori giunti alla capanna dopo l'annuncio degli angeli: i loro volti, le vesti e gli atteggiamenti sono di un realismo esemplare; sono pastori "veri", come quello in primo piano, con il viso rugoso e con la barba ispida, ma tutti sembrano impacciati, come se dovessero presentarsi ad un personaggio importante.


Anche i particolari hanno la loro valenza nel dare significato all'evento: i sandali abbandonati (forse dello stesso Giuseppe) fanno riferimento al testo di Esodo 3,5, quando Mosè si avvicina al roveto ardente e Dio gli comanda di togliersi i sandali perché il luogo che calpesta è santo.


La natura morta fatta da due vasi pieni di fiori, un'albarella e un bicchiere di vetro sono il simbolo della passione e morte di Gesù: i gigli rossi simboleggiano il sangue della passione, gli iris bianchi la purezza mentre gli iris purpurei e l'aquilegia i dolori di Maria.  Il covone di spighe abbandonato quasi per caso è un chiaro riferimento all'Eucarestia.



Altri particolari, sullo sfondo delle tre tavole, narrano il prima e il dopo della nascita di Gesù: alle spalle dei pastori si intravvede il riferimento alla visita di Maria alla cugina Elisabetta e poco più distante, l'annuncio degli angeli a quegli stessi pastori che per primi, sono giunti alla stalla. Nell'anta di sinistra, tra le rocce alle spalle di Sant'Antonio si intravvedono Maria e Giuseppe che affrontano il viaggio alla ricerca di un posto dove alloggiare, mentre sullo scomparto opposto il paesaggio è animato dalle avanguardie e dello sparuto corteo dei Magi.
L'impatto di questo polittico sulla pittura fiorentina dell'epoca fu dirompente. Il realismo dell'ambientazione e dei personaggi sconvolse gli schemi di alcuni pittori le cui opere, forse erano ancora piene di preziosismi tardogotici. Anche pittori del calibro di Filippino Lippi e di Leonardo da Vinci studiarono l'opera cercando ispirazione da simile originalità.
Basta ammirare la tavola della Natività di Domenico del Ghirlandaio sull'altare della cappella Sassetti nella chiesa fiorentina di Santa Trinità, datata 1485 per rendersi conto dell'attenzione e dell'entusiasmo che accompagnò il suo arrivo nella città toscana.

Il Trittico Portinari e un dipinto olio su tavola (253x141 cm i pannelli laterali, 253x304 quelle centrale) di Hugo van der Goes, databile al 1477-1478 e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

da Dimensioni Nuove, numero 9/2014

La natività del Ghirlandaio

Francesco Sassetti, un ricco banchiere fiorentino, aveva commissionato a Domenico del Ghirlandaio la decorazione della cappella di famiglia nella chiesa fiorentina di Santa Trinità. Il pittore l'aveva decorata, dalle volte fino alle quadrature di base, con affreschi dedicati alla vita di San Francesco, il patrono del Sassetti e vi aveva lavorato tra il 1482 e il 1485. Conclude l'opera con la pala dell'altare dove vi dipinge un'adorazione dei pastori. La scena è tradizionale: Maria in ginocchio adora il piccolo Gesù. San Giuseppe è teso con lo sguardo ad osservare gli angeli che annunciano ai pastori la lieta notizia. Già il corteo dei Magi si sta avvicinando, attraversa un arco di trionfo ad un unico fornice: la scritta, in latino, della trabeazione dice 'Eretto in onore di Gneo Pompeo Magno per volere di Ircano sacerdote del Tempio'.  La cultura classica era di casa nella Firenze della fine '400 e il Ghirlandaio dimostra di essere alla moda riportando sul sarcofago che serve da mangiatoia all'asino e al bue, sciorina la sua erudizione (forse con l'aiuto di un qualche intellettuale della cerchia medicea) la profezia dell'augure Fulvio, ucciso durante la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo: dal suo sarcofago sarebbe nato un dio, alludendo a Gesù che avrebbe sconfitto il paganesimo. Il gusto classico è ulteriormente confermato dai pilastri scanalati corinzi che sostengono la tettoia; su un plinto il pittore ha messo la data di esecuzione: MCCCCLXXXV. Alcuni particolari rimandano direttamente al polittico di Hugo van der Goes: il vivace realismo delle figure dei pastori in adorazione sono una citazione diretta di quelli del pittore fiammingo. I particolari come la sella e la borraccia e il piccolo cardellino, figura della passione di Cristo e lo splendido paesaggio del fono sono debitori della cultura fiamminga. Il realismo delle Fiandre dimostra di aver fatto il suo ingresso trionfante a Firenze. Pare che il pastore che indica ai compagni il piccolo Gesù sia l'autoritratto del pittore.

da Dimensioni Nuove, 9/2014

sabato 6 dicembre 2014

Il vero San Nicola, le sfere della provvidenza

Ti guarda quasi minaccioso il San Nicola di Antonello da Messina della Pala di San Cassiano. Ti guarda ostendendo il libro della Sacra Scrittura con sopra tre sfere dorate, attributo frequente del Vescovo di Myra. Il loro significato risale alla storia del Santo che, prima ancora di essere consacrato vescovo, venne a conoscere il caso di una famiglia nobile e ricca, caduta in miseria. Il padre, vergognoso dello stato di povertà in cui versava, decise di avviare le figlie alla prostituzione. Nicola, nascostamente, lasciò scivolare dalla finestra dell’abitazione dell’uomo tre palle d’oro con le quali il padre poté maritare le figlie e risparmiare loro l’onta della prostituzione.

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Si comprende allora lo sguardo minaccioso del santo di Antonello: la fame non ci induca a comportamenti che ledono la dignità dell’uomo. La fede sostiene e la grazia viene in aiuto con la provvidenza. Un medesimo invito alla fiducia in tempo di crisi lo lancia Santa Maria Maddalena che, accanto a san Nicola, regge un vaso con l’unguento prezioso. Quel nardo che Giuda avrebbe venduto, per darne il ricavato ai poveri, Cristo lo rivendica per sé, assicurando che nulla sarebbe mancato a chi si fosse occupato di lui. Tutto questo, ahimè, male si accorda con l’attuale immagine del celebre vescovo di Myra, diventato l’emblema del Natale, grazie alla figura di Babbo Natale. Basta digitare in internet Natale, Santa Claus o san Nicola ed ecco apparire le più disparate rappresentazioni di Babbo Natale soprattutto legate alla Coca Cola. Spesso le immagini scadono nell’indecenza più amara dove, i bambini e il santo vegliardo portadoni, e tanto meno la diffusa Coca Cola, c’entrano poco. Vero è che la scristianizzazione del Santo iniziò dalla bevanda più famosa del mondo, quando nei primi decenni del 1800 San Nicolaus (da cui Santa Claus) divenne, grazie a una poesia di Clement Clarke Moore (o per alcuni di Henry Livingston Jr.), il Babbo Natale che tutti conosciamo.

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Questi, come il San Nicola di Antonello da Messina, inizialmente vestiva di marrone o di verde ma, a dipingerlo in rosso, fu il primo illustratore delle pubblicità della Coca, Haddon Sundblom, associando Santa Claus ai colori della bevanda per sempre. In una delle prime pubblicità, del 1931, appare già il Santa Claus in edizione commerciale. Qui di san Nicola non resta che un pallido ricordo e dell’attributo dei tre globi d’oro restano solo i campanelli appesi al berretto e i tre vistosi bottoni dorati, in evidenza è, invece, il bicchiere della Coca Cola con il quale il Santo brinda al Natale.  Proprio il mese scorso moriva in Gran Bretagna, all’età di 85 anni, John Moore, il Babbo Natale degli spot pubblicitari. Insomma San Nicola e le sue tre sfere hanno fatto molta strada, passando dalla casa del nobile di Patara ai nostri alberi di Natale come promessa di una provvidenza che non viene meno e di una visita dall’Alto che non mancherà di portare frutti nella vita.

Immagini: Pala di San Cassiano Antonello da Messina (1475-76) olio su tavola 55,9cm×35cm
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Cartellone pubblicitario della Coca Cola del 1931 ideazione di Haddon Hubbard Sundblom
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

Un filo per non perdersi nel labirinto della vita

Così sovente si sente l'espressione «ho perso il filo» che neppure più pensiamo all'origine dell'eponimo. Perdere il filo può essere in verità un gran danno, specie quando si parla in pubblico e la consequenzialità dei pensieri ci abbandonano per un attimo: lo smarrimento è totale. Non è tuttavia così drammatico come lo sarebbe stato per Teseo che, costretto dentro i meandri del labirinto del Minotauro aveva quel filo di Arianna che lo legava all'uscita, unica via di salvezza, dopo l'uccisione del Mostro. Il labirinto è citato anche nella Bibbia a proposito di uno dei cortili del tempio di Salomone. Non a caso nelle cattedrali medioevali (famosa è certamente quella di Chartre), la sequenza di cerchi concentrici che costituiscono il percorso è interrotta in alcuni punti da sbarramenti detti Nodi (o labirinti) di Salomone. La distanza che intercorre fra l'ingresso del labirinto e il centro è breve, ma per raggiungere il centro - almeno nel labirinto di Chartre - occorre percorrere 261,5 m e tutto ciò volutamente. I percorsi del labirinto, nelle cattedrali, erano detti anche Chemins à Jérusalem e sostituivano il pellegrinaggio in Terra Santa. Spesso si percorrevano in ginocchio, con un rosario al collo, pregando per la salvezza o della propria anima o dell'anima della persona per la quale si chiedeva la grazia. Sieger Köder, artista tedesco contemporaneo, realizza una curiosa versione del percorso di Chartre: al centro del labirinto non trionfa Teseo che uccide il Minotauro, né si vede Arianna, all'esterno, in trepida attesa; non dipinge i fedeli di Chartre che imboccano quel sentiero pregando in ginocchio, ma al centro del labirinto c'è un albero di vita nel quale fiorisce un mazzo di rose. Dietro si scorge il rosone della cattedrale di Chartre quasi a evocare, con i suoi bagliori di luce, Colei alla quale la cattedrale è dedicata: la Vergine Madre (vera Arianna per Köder). Le rose sono quattordici come le tradizionali stazioni della via Crucis del Salvatore. L'artista ci aiuta a comprendere, dunque, come il cammino verso Gerusalemme, che fiorirà per Cristo nella risurrezione, è un cammino spinoso.

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Pessimista e inclemente verso il tema religioso del labirinto, la fotografa e artista russa Larissa Kulik. Nella sua illustrazione digitale «Il giovane melo», colloca al centro di un labirinto il biblico albero. La solitudine che regna in questa immagine è drammatica. Nessuno s’interessa più al percorso di santità che l’antico labirinto di Chartre ancora propone. Qualcuno, che ha desiderato intraprendere il percorso, è morto all’esterno e se ne vedono i resti alla destra dell’immagine. Il labirinto è abbandonato all’erosione del tempo e anche il filo di Arianna giace a terra dimenticato. Soltanto due corvi vigilano sul tracciato, forse in attesa di qualche altro sfortunato pellegrino pronto a diventare loro preda. Larissa incarna, nella sua opera, quell’umanità che ha perso il filo della straordinaria meta per la quale è nata e ha abbandonato il desiderio.

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Immagini: Sieger Köder, Labirinto e rose, Olio su tela 1991-1992 Collezione Privata
Larissa Kulik, Giovane melo nel labirinto, Illustrazione digitale

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

domenica 23 novembre 2014

Il canto di Natale che sta scaldando il web


sabato 22 novembre 2014

Lo strapotere della finanza e l'identità europea

«Paga l'Austria» si usava dire un tempo, nel Norditalia, specie in Lombardia dove la mano dell'impero austroungarico si fece sentire pesante per parecchio tempo. «Paga l'Austria» anche per Antonio Natale, autore di questo affascinante Ratto d'Europa. Chiamato artista delle banconote per le sue originali composizioni che hanno sempre, come in filigrana, varie tipologie di denaro, Natale allude qui alla celebre narrazione mitologica. Europa, bellissima giovinetta, era al bagno con le sue amiche, Giove la vide e volendola per sé si tramutò in toro bianco. Attirate dall'immacolata innocenza del toro le fanciulle presero ad accarezzarlo ma quando Giove sentì su di se la mano di Europa, la rapì portandola al galoppo nel suo regno per prenderla in moglie.

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Nell'opera di Antonio Natale Europa è una seducente modella, femminile, ma priva della sua chioma e quindi, in certo qual modo, ermafrodita. Avanza verso di noi e si volge indietro, il suo volto è ancora ben delineato e caratterizzato, ma non così il volto del Giove di turno. Il toro bianco non ha volto e, benché si trovi sullo sfondo e un po' arretrato, è il vero dominatore della scena. Il potere non ha mai volto perché la sua prosperità si fonda esattamente sopra camaleontiche manifestazioni. Il mito greco paradossalmente, ritorna nell'Europa attuale con una precisione allarmante. Chi domina la bella Europa non si espone, arretra con un apparente distacco ma, ahimè, il suo potere ha già totalmente investito la donna che sta progressivamente perdendo la sua identità per assumere l'unica che il potere le manifesta, quella del denaro. Il corpo del toro, infatti, è totalmente rivestito di banconote, che riproducono quelle austroungariche del 1908 (cioè nell’anno dell’ennesimo rinnovo della Triplice Alleanza) e anche Europa ne è ormai totalmente rivestita.

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Anche Andrè Martins de Barros usa le banconote per denunciare una crisi economica della quale non si riescono a comprendere fino in fondo i motivi. Questa volta è il dollaro ad essere protagonista e in campo non c’è il mitologico ratto di Europa, ma la casereccia Befana con tanto di calza sul capo che tiene ben stretto il Vademecum dell’economista. Come nell’opera di Natale anche qui il volto è anonimo, sorridente e grottesco denuncia un mondo immerso nel pensiero unico dettato dagli equilibri economici.
Allo stesso modo ci ammonisce Antonio Natale prendendo a prestito, forse inconsapevolmente, la parabola del ricco Epulone: questi, benché ricco, non ha né volto né nome, mentre ha un volto preciso il povero Lazzaro. Così l'identità del popolo europeo sta per essere inghiottita dallo strapotere di una finanza di vario colore politico che, come suggeriva l'antico proverbio lombardo, pagherà tutti i nostri debiti, chiedendo però un prezzo in natura molto alto. Forse la crisi ci scuote dal torpore in cui siamo precipitati. Difendiamo la nostra cultura dall'asservimento a poteri che la distruggeranno! Meglio essere poveri e liberi che ricchi ma schiacciati da potentati prepotenti e irrispettosi.Immagini:
Antonio Natale, Il Ratto d’Europa (The Abduction of Europa), 2011, acrilico su 6 banconote originali Austro-ungariche del 1902; 38,5 x 38,5 cm.
André Martins de Barros Crise Economique, 2010; 236 x 300 cm, olio su tela Collezione Privata
 
Fonte: Da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 21 novembre 2014

La Vergine e l'Unicorno, dove è certa la salvezza

Lungo i secoli, l'immagine dell'unicorno, come animale rarissimo, ha accompagnato l'immaginario collettivo al punto tale che anche la scienza non tardò a interessarsene. Si scandagliarono graffiti e referti giungendo alla conclusione che l'unicorno non fu mai esistito. Vero è che di corni dell’unicorno è piena l'Europa e persino la regina Elisabetta ne conservava un esemplare. Benché la scienza abbia le sue ragioni, l'unicorno esiste nell'arte e nella cultura dei popoli con una miriade di significati.
Nell Trittico d'altare della chiesetta in Tonndorf (Turingia) il pannello centrale presenta una singolare annunciazione. La Madonna siede con tranquillità in un sontuoso giardino. La sua compostezza è tale da farla apparire una regina che delicatamente volge lo sguardo a uno strano cavaliere. Si tratta dell’arcangelo Gabriele che, in effetti, pare un guerriero con lancia in resta e corno da cacciatore. La preda è un placido unicorno che riposa sulle gambe della Vergine. Secondo il bestiario medioevale l’unicorno è un animale velocissimo e imprendibile, unico modo per catturarlo è quello di attirarlo con la presenza di una vergine, allora egli si accovaccia mansueto e immobile. Qui, nel Trittico, l’unicorno è Cristo stesso il quale non ha trovato miglior riposo in tutta la terra se non nel grembo della Vergine. Così attorno alla Madonna si sviluppano molti simboli che raccontano del suo candore verginale: il vello di Gedeone, la porta di Ezechiele, la verga di Arone, il vaso d’oro e la fonte sigillata. Ma il simbolo più sorprendente è quello dei quattro cani che accompagnano l’Arcangelo cacciatore; essi recano cartigli con le scritte: pace, verità, giustizia e misericordia. Sono parole contenute nel Salmo 85: «Amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo». I cani a caccia di questi beni si arrestano di fronte all’unica preda che potrà fornirli loro: la verità germogliata nel grembo di Maria, il Cristo, e la misericordia che sprigiona dalla sua passione.
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In un manoscritto miniato del XIII secolo l’unicorno, tenuto stretto da una Madonna regina, viene raggiunto e ucciso da uomini armati. Mentre l’unicorno getta un ultimo sguardo, sereno e implorante, alla Madre, tra quest’ultima e il cacciatore in primo piano si svolge un dialogo muto. La Vergine sembra indicare col gesto della mano che proprio quel sangue darà agli uccisori la salvezza, mentre il Cacciatore sembra colpito da una corrente di grazia che gli muta lo sguardo. La sua lancia infatti, è totalmente rossa a differenza delle lance degli altri due cacciatori, come se il sangue di quell’unicorno lo avesse raggiunto proprio attraverso la sua arma. Da questo sangue soltanto sprigiona la misericordia che dà vita.
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Noi, disincantati uomini del Duemila, che sappiamo con certezza come l’unicorno non esista, non sappiamo però indicare nessun luogo dove si possano trovare pace e misericordia, verità e giustizia. La nostra precisione scientifica fallisce di fronte al desiderio di un ordinamento nuovo che salvi la dignità dei singoli e restituisca ai popoli la loro unità nazionale. Bisognerebbe allora tornare a quel simbolo efficace dell’Unicorno, l’unico capace di promettere una salvezza certa che viene dall’Alto.
Immagini: La vergine e l’unicorno Trittico della Chiesa di Tonndorf Turingia. XV sec, olio su tavola, Pannello centrale.
L’uccisione dell’unicorno Codice miniato, Bestiario XII sec. Bodleian Library (Università di Oxford), Oxford, Regno Unito
Fonte: rubrica Dentro la bellezza, da Avvenire

venerdì 14 novembre 2014

Natale 1914: e il fante impose la tregua

E' stato pubblicato solo due giorni fa ed ha avuto già quasi 5 milioni di clic, quello che è destinato a diventare lo spot di Natale 2014. La particolarità di questo video è il soggetto, la I Guerra mondiale, di cui si celebra il centenario proprio questo anno.
Il regista mette in scena un fatto realmente accaduto il giorno di Natale del 1914, quando i cannoni tacquero e i due eserciti tedeschi e britannici si incontrarono in terra di nessuno, si scambiarono dei doni e finirono persino per improvvisare una partita di calcio. E' quella che venne denominata la "Tregua di Natale". Lo sponsor del video è Sainsburry, che ha messo in vendita la barretta di cioccolato presente nello spot per donare in beneficienza alla Royal British Legion l'intero ricavato. Nel sito web di Sainsburry trovate tutte le informazioni su questa inziativa
Ecco il video
 
 



La spontanea mobilitazione di soldati sul fronte occidentale produsse tante piccole «tregue di Natale», coinvolgendo in particolare militari inglesi e tedeschi, che si fronteggiavano nei campi trincerati nella zona di Ypres, Armentières e Lille. I testimoni ricordano molti commoventi episodi: i canti natalizi, primo fra tutti Stille Nacht che si rimbalzavano nelle due lingue da una trincea all’altra, poi la timida apparizione di cartelli con scritte augurali. E, finalmente, con molta circospezione, gruppetti di soldati disarmati che uscivano dalle trincee, camminando lentamente verso le postazioni nemiche recando doni e biglietti augurali. Quasi sospinti da una forza invisibile– la forza residua dell’umanità dopo mesi di orrori e violenze – ben presto decine, centinaia di fanti dei due eserciti si ritrovarono nella terra di nessuno, stringendosi le mani, abbracciandosi, scambiandosi regali e cartoline, mostrandosi a vicenda le foto delle fidanzate e, persino in qualche caso, suonando, ballando e dando vita a partite di calcio con una palla fatta di stracci.

Fu il New York Times, con una corrispondenza dalla Francia settentrionale del 30 dicembre del 1914, a rompere il velo di silenzio su questi episodi che furono numerosi. Il corrispondente di guerra del giornale americano notava che tra i reticolati i combattenti dei due fronti erano riusciti a dar vita a una vera e propria celebrazione in comune delle festività. E raccontava un fatto curioso di cui era venuto a conoscenza. A iniziare erano stati due soldati inglesi che, dopo aver inalberato il segnale di tregua, si erano avvicinati prudentemente alle trincee tedesche. Lì erano stati ricevuti con tutti gli onori: e in cambio di fette di mince pie (un dolce tipico natalizio inglese) avevano ricevuto vino e liquori, tornando incolumi alla base. Poche ore dopo, due fanti prussiani si apprestavano a restituire la visita, ma una zelante sentinella inglese, vedendoli arrivare, li aveva arrestati puntandogli il fucile contro. L’incidente venne prontamente risolto dall’intervento di un ufficiale inglese, che accettati i doni e scambiati gli auguri, ordinò alla sentinella di lasciare che i due tornassero alla loro trincea.

Non tutti gli ufficiali, specie quelli superiori, però furono condiscendenti. Gli alti comandi dell’una e dell’altra parte, colti di sorpresa da questa esplosione di umanità, andarono su tutte le furie. Non potendo punire migliaia di soldati (tale fu l’ampiezza del fenomeno), decisero di porre rimedio alla pericolosa “fraternizzazione” coi nemici a partire dalle festività successive, con tassativi divieti, rigidi controlli e avvicendando i combattenti nelle trincee alla vigilia dei giorni di festa. L’Italia nel 1914 non era ancora in guerra. Ma nemmeno il Comando supremo italiano avrebbe tollerato scambi di auguri natalizi con il nemico. Come attesta, tra le tante, la vicenda (raccontata da Alberto Monticone nel suo libro
Plotone di esecuzione) dell’aretino M.E., 23 anni, caporale in forza del 129° fanteria, condannato a un anno di reclusione militare per «rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico». Cosa era successo? Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 1916 sul Monte Zebio, è riportato nella sentenza di condanna, «gli austriaci esposero un cartellone con suvvi scritto a grandi caratteri “Buon Natale” in lingua tedesca. Il caporale M.E. rispose, gridando nella stessa lingua un ringraziamento e un contraccambio». E questo nonostante che dal comando del corpo d’Armata fossero state date «precise istruzioni» per «evitare rigorosamente siffatte deplorevoli manifestazioni».




FRONTE OCCIDENTALE. 1914, soldati tedeschi ed inglesi in Belgio fraternizzano a Natale

Fonti: http://www.robertosconocchini.it/ e  http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/TREGUA-.aspx

giovedì 6 novembre 2014

La nostra speranza non finirà in pasto ai corvi

L’artista danese August Friedrich Schenck scandaglia i rapporti umani attraverso la metafora degli animali. In uno dei suoi dipinti, un panorama innevato e freddo con un cielo plumbeo esprime fortemente la sensazione di angoscia di fronte alla morte. Angoscia, del resto, è il titolo stesso dell’opera. Una pecora madre sta al centro della composizione, statutaria. Le zampe, affondate nel suolo innevato, vogliono proteggere ancora un poco il giovane agnello che appare senza vita. Ignoriamo la causa della morte, vediamo solo un rigolo di sangue che traccia la neve. Capiamo che la pecora non si arrende alla sconfitta, il fiato disegna una colonna di vapor acqueo nell’aria che racconta il suo grido, il suo pianto. Attorno, corvi, come avvoltoi, attendono che la madre abbandoni la preda, ma essa la difende, sperando contro ogni speranza che il figlio torni a vivere. Scorgiamo in questa pecora, come in filigrana, l’uomo ferito dalla morte di coloro che gli sono cari. L’uomo che ha in sé il germe dell’eternità e vorrebbe gridare a chi ama: tu puoi non morire!

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Eppure accade ora di vedere, a tratti, che per qualcuno non è cosi. Qualcuno di fronte alla morte ha mollato la presa, si è arreso, l’ha accettata come componente normale dell’esistenza, anzi ha deciso di programmarla per sottrarsi alla morsa del dolore o dell’incognita. Così mi appaiono, in fondo, i corvi di Schenck: avidi nello sfruttare al minimo le occasioni, rapaci, appunto, per nulla scossi dalla determinazione fiera di quella madre a salvaguardare il suo piccolo fino all’ultimo respiro e anche oltre. Oltre la morte. No, quel piccolo non sarà abbandonato in pasto ai corvi, non finirà inghiottito dalla neve come dal nulla. Egli vivrà nella memoria di questo grido materno e di quella zampa protesa a preservare il suo corpo esanime.

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Viene in mente il cipresso di van Gogh nella notte stellata, dipinto quasi negli stessi anni. Anche quello è un grido di speranza che sale verso il cielo ingombro di stelle. In questa tela di van Gogh il cielo sembra essersi fatto così basso e le selle rotolare così gioiose per quella vita che esse conoscono ma che, in fondo, ignorano i parrocchiani di Saint Remy! Anche se la piccola chiesa lancia nel cielo il suo campanile come certezza di una vita senza fine, non sempre le sue pietre parlano al cuore di chi, come van Gogh, dispera. Per questo il pittore guarda il panorama notturno come dall’alto del cipresso. Quel cipresso segna il cimitero, il luogo della memoria, il luogo di chi non accetta la fine della vita come l’approdo a un nulla senza speranza. Di questo c’è bisogno. L’avventura dell’homo sapiens, del resto, incomincia con un cimitero, la civiltà comincia dall’uomo che vuole conservare la memoria della vita in attesa di una risposta definitiva. Molto più noi non possiamo rassegnarci a un di meno, non possiamo come i corvi sfruttare la vita al massimo possibile. Deve salire al cielo il nostro grido, simile a quello della pecora di Schenck, deve verdeggiare nel cuore la speranza, come verdeggia il cipresso di van Gogh: qualcuno ha attraversato la morte e ha dato all’uomo la certezza dell’eternità. È Cristo l’agnello mansueto che ha accettato la morte, ridonando all’uomo la vita.

Immagini
August Friedrich Schenck, Angoscia, 1880, olio su tela cm 151 x 251, Collezioni internazionali della Galleria Nazionale di Victoria, Melbourne.
 
Vincent van Gogh, Notte stellata 1889, olio su tela, cm 73 × 92 Museum of Modern Art, New York

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 30 ottobre 2014

L'origine cattolica delle mele di Halloween

L’artista ottocentesco irlandese Daniel Maclise immortalò, in diverse opere, le celebrazioni notturne di Halloween, in cui è possibile vedere uno dei giochi più usati in quella circostanza. Tali giochi (come pure la festa) prendevano le mosse da un’usanza cristiana.

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Il gioco cristiano era detto di Adamo ed Eva o gioco dell’albero. Su un albero, spesso una conifera – simbolo della Trinità - si appendevano mele e ostie: le prime, cibo di Eva, madre dei morenti; le seconde, cibo di Maria, madre dei viventi. Bimbi bendati dovevano accostarsi all’albero e ricevere le cibarie da due bambine che rappresentavano Eva e la Madonna. Occorreva riconoscere le mani dell’una e dell’altra e acquistarsi la vita eterna, con le ostie, o la morte, con le mele.

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Il celebre Polittico dell’Agnello di van Eyck, il cui tema di fondo è proprio la festa di Ognissanti, pone, all’interno del polittico, in alto ai lati, proprio i due progenitori dove Eva tiene fra le mani una mela. La Madonna invece, ha in mano il libro della vita e indica, con il capo, Dio Padre che ha sul trono il ricamo del pellicano, segno del banchetto di vita cui il Figlio suo (presente sotto in forma d’agnello) invita. Secondo la Legenda aurea il 1° novembre tutti i Santi si recano in Paradiso a rendere omaggio alla Trinità, cosicché van Eyck raffigura otto gruppi di uomini e donne, rappresentanti di tutti i ceti della società di allora che, come esponenti delle beatitudini, salgono a Dio esultanti. La festa dei defunti era strettamente legata, a livello cristiano, a quella dei santi, cosicché Halloween nasce come festa cattolica tesa a rassicurare circa il destino eterno dei propri cari.

In una illustrazione del 1840 Maclise mostra, appunto, un gioco vigente ancor oggi ad Halloween: lo snap apple (addenta la mela). Bambini con le mani legate devono addentare una mela che viene gettata in un secchio d’acqua o fissata su un’asta incrociata. È evidente, dunque la valenza simbolica dei giochi, che producendo una cultura popolare, erano tesi ad educare. Nel corso dei secoli la festa di Halloween, anche a causa delle polemiche (luterane prima e puritane poi) che la tacciarono di magia e di esoterismo, è scivolata verso una cultura del macabro e dell’occulto che poco ha a spartire con la sua origine cattolica. Lo esprime il gioco stesso della mela: il primo educava a capire come nella vita siamo tutti bendati e che occorre affinare i sensi per scegliere bene. Il male, infatti, ha una sua appetibilità (com’è appetibile la mela), ma porta alla morte, mentre il bene non sempre porta con sé una soddisfazione immediata (come l’ostia), ma apre a una vita senza fine. Il secondo, invece, educava a lasciar liberi gli istinti (la bocca) legando le mani – cioè escludendo la ragione - per conquistare quel frutto a danno di altri.
 
Immagini:
Daniel Maclise (1806-1870) Snap-Apple Night (Festa di Halloween in Blarney Co. Cork) 1832 litografia colorata a mano.
Jan e Hubert van Eyck Adorazione dell’Agnello Mistico, Polittico, 1432, olio su tavola, 350 x 461 cm. Cattedrale di San Bavone, Gand. 

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 25 ottobre 2014

Riflessioni sul tema della vita come viaggio

In questo inizio di anno scolastico sto riflettendo con le classi terze sul tema della vita come viaggio. Un viaggio dall'uomo alla persona nel senso che ogni uomo nel corso della sua esistenza va formando una propria personalità. Si tratta di un viaggio fatto di tappe, tra le quali una delle più importanti è di sicuro l'adolescenza. Tra i materiali che ho usato per far riflettere i miei studenti ho usato la canzone Life is Sweet di Fabi, Silvestri, Gazzè.



Molto bello l'articolo di Pino Fanelli, su Insegnare Religione di settembre/ottobre 2014, che va a prendere in esame alcuni passaggi della canzone, di cui riporto di seguito il testo completo.

Disteso sul fianco passo il tempo, passo il tempo
fra intervalli di vento e terra rossa.
Cambiando cambiando prospettive
cerco di capire il verso giusto,
il giusto slancio per ripartire.

Questa partenza è la mia fortuna
Un orizzonte che si avvicina
Sotto il mio camion c'è la mia cucina
e intanto aspetto aspetto aspetto
che il fango liberi le mie ruote
che la pianura calmi la paura
che il giorno liberi la nostra notte
tutti insieme, tutti insieme


Ma tutti insieme siamo tanti, siamo distanti
siamo fragili macchine che non osano andare più avanti
siamo vicini ma completamente fermi
siamo famosi istanti divenuti eterni
E continuare per questi pochi chilometri sempre pieni di ostacoli
e baratri da oltrepassare sapendo già
che fra un attimo ci dovremo di nuovo fermare


Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
Con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!


Un ponte lascia passare le persone
un ponte collega i modi di pensare
un ponte chiedo solamente
un ponte per andare andare andare


E non bastava già questa miseria
Alzarsi e non avere prospettiva
E le punture quando viene sera
e la paura la paura


La paura che ci arresta che ci tempesta
non insetti che volano ma proiettili sopra la testa
È una puntura ma direi che è un po' diversa
La cura c'è ma l'aria non è più la stessa


E continuare non è soltanto una scelta
ma è la sola rivolta possibile.
Senza dimenticare che dopo pochi chilometri
ci dovremo di nuovo fermare


Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!


A prescindere dal tempo che è un concetto qui inutilizzabile
mi basterebbe avere un posto giusto da raggiungere


Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet! Life is sweet!


E qui il link al podcast sullo stesso argomento costruito dalla classe 3E:

Il nuovo libro di Alessandro D'Avenia: Ciò che inferno non é


venerdì 24 ottobre 2014

Lo sguardo dall'alto, per capire cos'è importante

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Raccoglie l’eredità di Arcimboldo, e forse di molti altri ancora, come Bosch e Bruegel, come Rembrandt, come Dalì, raccoglie questa preziosa eredità e la trasforma in modo del tutto personale. Si chiama Andre Martins de Barros è nato ai piedi dei Pirenei, a Pua, è francese, ma nelle sue vene scorre tutta la passionalità del mondo ispanico. Le sue opere parlano di terra, di corpi umani, ma hanno lo struggente desiderio di vedere tutto dall’alto. I temi religiosi non sono molti, eppure quelli presenti sono significativi. Barros è ossessionato dalla figura di Dio Padre che, come vegliardo, scruta il mondo. Un mondo che piange, un mondo che dovrebbe essere avvolto nella luce, mentre è oscurità e legno.
Di Dio Padre vedi soprattutto le mani, vedi la sua opera, perché il volto – come dicevano gli antichi – non lo si può vedere appieno. E tuttavia è tenerissimo il gesto di quelle mani che sollevano la terra, un globo di legno che – come afferma il titolo – piange: Pleurs de terre. Il pianto della terra Dio lo vede: vede le gocce del mare delle lacrime cadere nell’universo; vede le fiamme di un mondo in guerra salire al cielo. Ma Dio Padre non cessa neppure di vedere come dovrebbe essere questa nostra terra: azzurra e luminosa, come Barros ce la mostra nel punto più profondo della tela, quasi pronta a emergere nella bellezza della sua vera identità.

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Una delle sue tele s’ispira a Cristo. Il titolo è Golgotha e percepisci immediatamente un crocefisso: Cristo è centrale, circondato da una corona di spine immensa come se tutto il dolore del mondo fosse convenuto lì, attorno alla croce. E in effetti, tutto il dolore del mondo è nascosto dentro la cifra del Golgotha sopra il quale salgono infinite schiere di cristiani. Le vediamo attorno al Cristo assiepate, sofferenti. Ci sono uomini di ieri e di oggi. Ci sono anche i due ladroni, ci sono i profeti, ci sono gli apostoli in primo piano. Forse c’è anche Pietro che porta il suo fascio di ulivo: porta la pace a un mondo che, della pace, non sa che farsene.
Ma quella stranezza che avverti subito, tipica dei dipinti dell’Arcimboldo, quella stranezza che ti fa vedere non un gruppo umano, ma un volto, ti cattura. Non ti permette di indugiare sulle singole figure, sei costretto ad allontanarti con lo sguardo per guardare la scena dall’alto. E allora vedi: è il volto di Cristo che sofferente, eppure maestoso. Si leva dalla terra, si leva come le catene montuose di questa nostro pianeta, si leva imponente e capace di dare senso a tutta la storia. Capace, come i monti, di dare rilievo.

Forse dovremmo conquistare il medesimo sguardo, in quest’ora difficile, dove le parole si sono sollevate come spade attorno al Sinodo; parole che volevano essere pacifiche, ma sono diventate roventi. In quest’ora dove le immagini di un mondo crocefisso, il mondo dei martiri cristiani, si leva a giudicare le nostre piccole beghe quotidiane, i giochi politici, gli equilibri di un potere stanco. Ecco, Barros ci rieduca a uno sguardo diverso, dall’alto. Dove poter vedere finalmente ciò che conta: il rilievo di una Chiesa che in ogni ora della storia conserva in sé l’impronta del suo Fondatore. Quel volto di Cristo che mai l’abbandonerà.

Immagini:
André Martins de Barros, Pleurs de terre, olio su tela, 2006, Collezione Privata
André Martins de Barros, Golgotha, olio su tela, 2006, Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

venerdì 10 ottobre 2014

Lo specchio della famiglia post moderna

Il titolo è già di per sé significativo: Gli sposi Arnolfini dopo van Eyck. È il dipinto di Botero che riproduce una delle famiglie più celebri del mondo, i coniugi Arnolfini.

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Van Eyck aveva disseminato l’opera di simboli cristiani: il rosario appeso alla parete; lo specchio con i misteri dolorosi e il riflesso dei due testimoni di nozze; il candelabro con sei candele, simbolo del sesto giorno, una sola delle quali accesa; i piedi scalzi di lui, per dire che il matrimonio è una terra santa; la statuetta di Santa Margherita, patrona delle partorienti e gli zoccoli di lei ai piedi del letto, quasi a denunciare la malattia per un parto difficile e, infine, il cane della fedeltà. Per van Eyck il benessere dei coniugi era segno della loro fede, la quale nell’ora della prova (come quella di una possibile morte di parto), teneva uniti i due sposi. I due testimoni, poi, ritratti nello specchio dei quali uno è lo stesso van Eyck, erano garanti di un patto indissolubile che non si arresta nemmeno di fronte alla morte.

Tutto questo nella rivisitazione di Botero del 1978 non c’è più. Quel dopo van Eyck disegna il profilo della famiglia post moderna, dove ogni senso mistico è azzerato.

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Le candele di Botero sono tutte spente: il tempo dell’amore è finito. L'uomo non è scalzo, ma porta comode pantofole da casa, mentre gli zoccoli - in primo piano - sono quelli della donna. L'allusione alla sacralità della coppia, evocato dal gesto biblico del togliersi i calzari è, dunque, totalmente assente. Qui il marito si è impoltronito mentre la donna, con gli zoccoli abbandonati in direzione della porta di casa, sembra presa dalla febbrile tentazione di evadere, frenata solo dalla custodia dello sposo e del cane da guardia.  Anche i riferimenti religiosi sono stati tolti: non c'è la statua lignea di Santa Margherita, forse perché nessuna donna muore più di parto ed è piuttosto il feto a morire; non ci sono le decorazioni con i misteri della vita di Cristo attorno allo specchio e, quindi, nessun riferimento esplicito alla dimensione del tempo o del dolore, vissuti nella fede; tanto meno c’è il rosario appeso alla parete. In Botero tutto è appiattito, la camera è ridotta all’essenziale, perché impoverito e ridotto all’essenziale è, oggi, il sacramento del matrimonio e il ménage coniugale. Il dramma si consuma tuttavia proprio dentro il riflesso dello specchio che, come in van Eyck, è il punto focale dell'opera. Nella versione di Botero lo specchio non riflette che i due sposi e una porta socchiusa: la coppia versa in una dolorosa solitudine e deve fare i conti con la continua tentazione di evadere dal quotidiano. Ecco per Botero lo specchio della famiglia attuale: l’individualismo narcisista, la capricciosa volontà di godere solo per sé senza dare la vita per nessuno e, infine, la scomparsa della fede che garantisce i principi fondamentali dell’esistenza e conferma i passi degli sposi nell’ora del dolore.
 
Immagini:
Jan Van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini 1434, olio su tavola 81,8 cm × 59,4 cm National Gallery, Londra
Fernando Botero Gli sposi Arnolfini dopo van Eyck, olio su tela, 1978
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 4 ottobre 2014

L'origine del senso religioso

Ciò che fa essere l'uomo un uomo e lo distingue dagli altri esseri viventi è la capacità di pensare, ragionare e porsi domande. É lo stupore, la meraviglia di fronte alle cose del mondo, agli spettacoli della natura e alle forze che essa manifesta che ci fa porre domande come queste: Chi? Che cosa? Perché? Che senso ha?



Oggi 4 ottobre è la festa di San Francesco d'Assisi. Egli nel 1224, due anni prima della morte, aveva passato un lungo periodo di degenza nella sua diletta san Damiano: e lì aveva composto la più alta opera di poesia di tutta la storia della lingua italiana, il Cantico delle Creature.
Eccolo nella versione di Angelo Branduardi.




Bello il seguente video che presenta i segni della presenza religiosa fin dagli inizi dell'umanità




giovedì 2 ottobre 2014

Pace e bellezza nel segno della Sacra famiglia

Sta contro l’albero secco, che divide in due la scena, l’angelo musicante del Riposo durante la fuga, di Caravaggio. È un angelo musicante, sensuale, com’è sensuale il Cantico dei Cantici, ambiente simbolico del dipinto.

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Ci sentiamo attirati dall’occhio profondissimo dell’asino che sta dietro san Giuseppe il cui sguardo estatico è fisso verso il musico. Da qui comincia il percorso che l'artista ci obbliga a seguire, dal volto mesto di Giuseppe che, stanco del viaggio, strofina un piede contro l'altro per riprendere forza e calore. La meta del viaggio è indicata dallo spartito minuziosamente vergato, un versetto del Cantico musicato dal compositore fiammingo Noel Bauldewijn: Quam pulchra es, et quam decora, carissima, in deliciis! La meta è, dunque, la bellezza immacolata della santità che l'unione con Cristo assicura. Giuseppe è segno dell’umanità sopra la quale grava il peso dei peccati, come sopra l'asino grava la soma, ma che desidera raggiungere la pace perfetta incarnata dalla Vergine che culla il Figlio dormiente. È lei l'oggetto dei versi della Cantica; lei, col Figlio suo, è la meta del viaggio, la vera pace cui tutti anelano. Il quadretto famigliare doveva riportare Caravaggio a ricordi della sua infanzia, come il paesaggio lombardo, l’unico dell’artista, che sprofonda all'orizzonte. I genitori di Caravaggio si chiamavano tra l’altro, Fermo e Lucia, come i futuri Promessi Sposi nella prima versione del Manzoni. Di recente questo dipinto è stato goffamente interpretato, travisandolo, in nome di certe tendenze omosessuali attribuite al Merisi. Sì, l'angelo è nudo e carnale, efebico, ma la sua carne splende di madreperla e porta con sé la luce di quel Cielo donde arriva. La nostra fede coinvolge la carne dell'uomo, fino ai suoi impulsi, non per lasciarla dov’è, ma per riscattarla dalla morte e spingerla a un amore, scevro da ogni cedimento testimoniato dalla famiglia di Nazareth, che si compie in Cristo e nella sua eternità. Del resto il destino di Cristo è rappresentato dagli infiniti simboli della tela: elementi che alludono alla passione, come l'asino e la corda rotta del violino; l’immancabile tasso barbasso ai piedi della Vergine, rimando alla rinascita spirituale; il fiasco del vino, segno dell’Eucaristia; fino al balenio luminoso del lenzuolo di cui è rivestito l'angelo, promessa di risurrezione. Insomma, nessuna maliziosa ambiguità nell’opera, nessuna spada di Damocle sopra la famiglia, ma profondissima meditazione sulla grazia che avvolge le più grandi passioni umane capaci di cantare il divino, come il Cantico dei Cantici.

Immagini: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, 1595-1596, olio su tela 135,5 cm × 166,5 cm, Galleria Doria Pamphilj, Roma.
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 25 settembre 2014

La speranza oltre la montagna (di polenta)

Un contadino, un chierico e un soldato, disposti a raggera sotto una tavola imbandita, sono stremati. Sopraffatti dalla loro stessa ingordigia i tre ceti sociali dipinti da Bruegel, rappresentano tre grandi aeree della società occidentale: il lavoro; la religiosità; la giustizia. Sono ricchi e poveri, letterati e illetterati, tutti hanno raggiunto il paese della Cuccagna e ne sono rimasti vinti. Qui, ogni ben di Dio è a portata di mano, i cibi si servono da soli: l’uovo cammina con il suo cucchiaio; il maialino, già affettato, avanza con un coltello affilato; il polletto mette spontaneamente la testa nel piatto. Davvero c’è tutto, c’è anche la giovinezza – perché nel paese di Bengodi non s’invecchia mai - e purtuttavia manca l’uomo. Quegli oggetti che sono per l’uomo gloria e vanto, giacciono abbandonati: la mazza per la trebbia del contadino sta sotto il peso del proprietario, la lancia è calpestata dal soldato e il libro di preghiere e la pergamena del chierico sono abbandonati sul prato.

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Sorprendente, e dal sapore boccaccesco, è la montagna di polenta sullo sfondo all’estrema destra. Una montagna dalla quale sbuca un personaggio che si è fatto strada con un cucchiaio. Più volte la polenta è stata oggetto di attenzione da parte dei pittori e spesso con accenni allusivi ai vizi più svariati.


Pietro Longhi, ad esempio, dipinge un quadro e lo intitola proprio Polenta. Apparentemente l’artista ci introduce entro una innocua cucina dove due belle inservienti scodellano la polenta appena cotta. Una impugna ancora il paiolo mentre due uomini, dei quali uno è un suonatore di violino, assistono vogliosi. In realtà tutto rimanda ad altro: la tovaglia al lenzuolo, il vino e la musica allo stordimento dei piaceri e le due donne, nell’offrire la polenta, offrono loro stesse come cibo ambito. Così si camuffavano i vizi e si alludeva ai piaceri ricercati da poveri e ricchi.

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La polenta, del resto, è cibo dei poveri, ma è diventato, nei secoli, leccornia anche per i ricchi. È un cibo dalle innumerevoli proprietà e lo sapeva anche Bruegel che, con quella montagna di polenta, allude ai proverbi fiamminghi: mangiando – a sbafo – e scavandosi un buco è possibile raggiungere Bengodi. Ma quanto profetico è questo spaccato di mondo bruegeliano? Siamo così sopraffatti da quello che ci siamo faticosamente conquistati, da non vedere il pericolo che incombe. Qualcun altro sopraggiunge, impugnando non le armi, ma un modesto cucchiaio, sorpreso forse d’esser arrivato così facilmente a conquistare il paese.

Si sono scavati un buco modestissimo e hanno imparato a sfruttare le nostre stesse leggi, scoprendoci poi totalmente addormentati. Bruegel mette in guardia da certo gozzovigliare narcotizzante, ma offre anche l’appiglio della speranza. Se nel paese della Cuccagna tutto è brullo e gli alberi son secchi, sulle rive del lago ci sono alberi frondosi. Se da questa parte incombe l’oscurità, oltre la montagna di polenta, c’è un lago luminoso, dove la gente lavora e vive onestamente. La semplicità e la sobrietà della vita, ecco ciò che ci salverà! Radicarsi in sani principi e rimboccarsi le maniche, vivere in una corretta relazione con se stessi e con i propri istinti, ecco le regole d’oro per fare di noi, non cristiani in poltrona (come afferma il papa), ma uomini di speranza.

ImmaginiPieter Bruegel il Vecchio, Paese della cuccagna, 1567, olio su tavola, 52 cm × 78 cm. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera
Longhi Falca Pietro, La polenta, 1740, olio su tela. 61 x 50 cm. Collocazione; Ca' Rezzonico, Venezia.

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


giovedì 18 settembre 2014

Bambini o anziani. La scelta prima del diluvio

Nella pagina biblica del diluvio l'uomo ha sempre visto il travaglio della propria storia. Lo testimonia l'arte che ci offre opere di grande suggestione come quella di Joseph-Désiré Court, artista morto nel 1865 a soli 30 anni.

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La tela, oggi al Museo di Lione, s’intitola Scène de déluge, e descrive l’attimo in cui un giovane uomo, sorpreso con la famiglia dalle acque, si trova di fronte a una scelta: salvare il vecchio genitore che sta per essere risucchiato dai gorghi o salvare il figlioletto che la moglie solleva disperatamente dalla furia del diluvio? Il tema, caro alla pittura rinascimentale (si pensi all’affresco di Michelangelo nella Sistina) riprende un dramma già scandagliato dalla mitologia greca: Edipo e il suo complesso rapporto col padre; Anchise, Enea e il figlioletto Ascanio in fuga da Troia ecc. Insomma di fronte all’imminenza di una fine, chi salvare? La sapienza del padre o l’innocenza del figlio? La ricchezza di un’esistenza, tuttavia già segnata dalla morte, come quella del padre, o la promessa di un’esistenza tutta da vivere rappresentata dal figlio? I volti raccontano l’esito. Il giovane uomo sembra preferire l'anziano genitore, l’unica mano libera, infatti, viene offerta al vecchio. Le dita si sfiorano senza agganciarsi, lasciandoci eternamente nel dubbio circa l’esisto dell’intervento. Il vecchio si salverà? Oppure la furia dell’acqua se lo porterà con sé? E poi perché scegliere il vecchio? Perché lasciare inascoltate le suppliche di una madre che tenta disperatamente di intercedere per il suo piccolo?
L'opera parrebbe una profezia del nostro tempo. Guardandoci attorno scopriamo come ogni generazione stia vivendo il dramma della storia in solitudine. Oggi non sappiamo chi salvare. Il disprezzo per la vita abbraccia padri e figli. Generare è diventato un diritto, come sopprimere una vita al suo sorgere o al suo tramontare. Oggi siamo così abituati alla tragedia che rischiamo di non vederla più.

A ben guardare, nell’opera di Court, solo l’uomo che ha già raggiunto la riva è nudo, l’uomo e il figlioletto ormai destinato alla morte. La donna e l’anziano indossano invece ancora degli abiti. Che strana capacità profetica quella degli artisti! In un’opera così distante da noi, già è tracciata la povertà terribile di un’umanità che ha perso dignità e che vede naufragare nel mare dell’oblio, tanto l’eredità dei padri che l’istinto sano di sopravvivenza e di conservazione della specie, racchiuso nelle madri. Cosicché le generazioni dell'adulto, che regge la storia, e del bambino, promessa del futuro, restano nudi e senza identità.

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Sorprende la diversa interpretazione dell’evento che ne dà Michelangelo. Pur nella medesima drammaticità di corpi in balia delle acque. Michelangelo pone sullo sfondo l’arca di salvezza, la Chiesa, verso la quale alcuni approdano. Mentre in primo piano, uomini attaccati alle cose umane, stanno per essere risucchiati dall’acqua, vi sono i perversi che su una barca fanno guerra all’arca della Chiesa. Tali perversi, pur essendo fra loro nemici, trovano qui un apparente momento di unità. Sul lato destro si presenta una scena simile  a quella di Court, ma colma di speranza. In questo gruppo, messo al sicuro su un isolotto, si delinea il profilo di quanti sono abbandonati alla volontà di Dio e cercano la salvezza guardando, pieni di desiderio, l’arca della Chiesa. Qui un padre, senza rassegnarsi all’evidenza, prende su di sé il corpo del figlio esamine, affermando così il desiderio di una salute che supera quella del corpo. Il confronto tra le due opere pone in evidenza la perdita di senso della vita e dei principi fondamentali dell’esistenza che, molto chiari a Michelangelo, risultano già offuscati per l’ottocentesco Court, fino a giungere all’obnubilamento quasi totale dei nostri giorni.

IMMAGINI
Michelangelo Buonarroti Il Diluvio Universale affresco (1509) Affresco 280 cm × 570 cm
Cappella Sistina Città del Vatican.
Joseph-Désiré Court (1797–1865) Scène de déluge 1827 Museo delle Belle arti di Lione
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

domenica 14 settembre 2014

Scuola il rischio noia se si perde la meraviglia



L’alternativa a una scuola noiosa non è una scuola divertente. Non esiste una scuola spensierata e senza fatica (e il digitale non la renderà tale), ma questo non vuol dire che debba essere noiosa (e il digitale ci darà una mano). La vera alternativa è una scuola interessante. Interesse (essere dentro) vuol dire coinvolgimento con tutto l’essere (corpo, cuore, testa, spirito) da ciò che viene presentato o rappresentato (dal corpo, cuore, testa, spirito dell’insegnante). L’interesse è perfettamente compatibile con l’impegno e la fatica, cosa che la noia non potrà mai ottenere, e neanche il divertimento che si esaurisce nella consumazione dell’esperienza.
Ma che cosa ha il potere di attraversare l’essere da dentro in tutti i suoi strati? Quale presenza riesce a muovere la persona nella sua completezza chiedendole di andare oltre?

Ancora una volta chiedo la soluzione alla lettera ricevuta da una giovane lettrice:
«Ho 15 anni, ho fatto il primo anno al classico e più l’inizio della scuola si avvicina più vado in crisi. Non mi fraintenda: io ho una sete di apprendere smisurata, la mia curiosità più viene alimentata e più cresce. Io ho veramente voglia di studiare. Ma se da una parte i miei occhi ardono di scoperta, dall’altra i miei professori, con occhi di ghiaccio assolutamente inespressivi, parlano con disinteresse alla materia, senza amore verso ciò che fanno. Come facciamo a mantenere vivo l’interesse e a realizzare noi stessi in una scuola che insegna senza amore? In una scuola che pensa solo a classificarci tutti tramite voti, voti e ancora voti? Ho avuto la fortuna di assistere a una lezione di un poeta, mentre parlava di Leopardi e parafrasava alcuni suoi versi, non si poteva che rimanere lì, incantati dal suo sapere, meravigliati da come la faceva diventare parole per noi, stupiti da come "un’altra poesia da studiare" si trasformasse in "questa poesia parla di me, la voglio approfondire!" Questo è ciò che io chiamo imparare».
Occhi ardenti (movimento) contro occhi di ghiaccio (immobilità). Interesse (esserci in pienezza) contro disinteresse (esserci se non in parte). Che cosa ha di diverso quell’uomo che parla di Leopardi: incanta, meraviglia, porge la poesia come un pane buono, spinge l’eros di sapere ad andare oltre, a lanciarsi nell’alto (altum in latino è l’aperto e il profondo al tempo stesso) dell’Ulisse dantesco, per dissetare la sete dei sensi in veglia.

L’alternativa ad una scuola noiosa è una scuola "meravigliosa", cioè capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia. Già Aristotele descriveva così questo sentimento capace di unificare sensi, cuore e mente: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere». Sorprende la somiglianza tra la descrizione di Aristotele e le parole della quindicenne: questa cosa mi interessa, cioè riguarda tutto il mio essere da dentro, non posso perdermela, devo andare oltre.

Ma dobbiamo capire meglio cosa sia questa meraviglia, per poterla recuperare e suscitare. La definisco un sentimento misto: sorpresa unita a pace. Qualcosa di nuovo si impone alla nostra attenzione e spiazza la nostra intelligenza, ma non basta. Siamo chiamati a fermarci, sostare, osservare, andare alle fonti di quello stupore che ci ha afferrato, per attingerne la causa. Veniamo trasformati da passanti distratti in spettatori curiosi e attenti, per questo prima parlavo di (rap-)presentazione del sapere (il professore agisce il sapere).
La generica sete di sapere che caratterizza ogni essere umano attraverso la meraviglia diventa interesse specifico: dal bambino affascinato dal gioco nuovo che cerca di aprire per capire come faccia a muoversi, al ricercatore che osserva al microscopio un grumo di cellule.

La realtà è una promessa di sapere che aggancia attraverso la meraviglia, capace di generare una ricerca (un girare attorno all’oggetto: ri-circa) di tipo sapienziale o scientifico, come dice Aristotele.

Il compito di ogni insegnante è proprio quello di presentare nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi, la meraviglia verso l’oggetto in esame. Non esistono aspetti della realtà poco interessanti, esistono casomai persone poco interessate.

Quest’estate ho ascoltato da un amico appassionato di pesca il racconto di una notte passata a prendere i pesci-lama. Alla fine del racconto volevo sapere come erano fatti questi pesci, volevo capire il tipo di esca e di amo che aveva usato, volevo andare a pesca, che non è stata mai al centro dei miei interessi, ma la meraviglia del suo racconto mi aveva cambiato in pochi minuti.

L’insegnante è un narratore-attore della meraviglia verso ciò che insegna, provoca eros manifestando il suo eros. L’attenzione dell’allievo agganciata si porta verso la cosa e non verso l’insegnante, altrimenti non si tratterebbe di meraviglia ma di seduzione. Il sapere somiglierà ad un regalo impacchettato: un pacchetto ben fatto segnala qualcosa che è per me e solo per me, una sorpresa. Nessuno però si accontenta del pacchetto: va oltre, apre, riceve, ringrazia.

Questo non vuol dire che avrò una classe di occhi ardenti e assetati, ma semplicemente che darò a coloro che saranno pronti la possibilità di accendersi. Solo al fuoco della meraviglia cuore e mente vengono unificati e lanciati oltre. Solo chi coltiva questo fuoco in sé riesce a insegnare, altrimenti con il tempo si riduce ad assegnare.

da Avvenire, editoriale di Alessandro D'Avenia
11 settembre 2014

venerdì 12 settembre 2014

Il nodo di Salomone che Cristo lega e scioglie

Il nodo lega, collega, stringe. Il nodo può simboleggiare un legame profondo positivo, vitale, come ad esempio i nodi del cordone dei francescani, ma può anche alludere al cappio e dunque alla schiavitù, a un dominio dispotico.
Sono infiniti i crocifissi fra XII e XVI secolo ad avere alla cintola una cintura annodata. Ciò che a prima vista appare come un ornamento casuale, è in realtà un simbolo molto antico che già ornava la pavimentazione delle basiliche paleocristiane.

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Ne troviamo un esemplare nella basilica di Aquileia (UD) del VI sec. (ma anche nella Sinagoga degli scavi di Ostia antica). Il singolare nodo riprodotto dal mosaico è, detto nodo di Salomone e allude alla sapienza del grande sovrano per il quale nulla era sigillato e dal quale provenivano enigmi irrisolvibili. Nella sinagoga di Ostia (risalente al I secolo) il simbolo del nodo compare nell’antica cucina dell’edificio, dove si impastava il pane e si conservavano le derrate alimentari. Il nodo veniva così a indicare come la sapienza dell’uomo inizi proprio da ciò che introduce in sé stesso, il cibo, ma anche i pensieri, le idee, le filosofie. Non così nella sinagoga di Bova Marina, in Calabria (altrettanto antica) dove il nodo appare nell’aula della preghiera, qui il simbolo fa riferimento all’unione fra l’uomo e Dio, scopo ultimo della lettura della torah.

Il nodo di Salomone, tirato per un verso, prontamente s'apre, mentre tirato per il verso contrario, irrimediabilmente chiude. Ecco allora che Cristo sulla croce è il nuovo Salomone. I nodi del peccato e della morte, insolubili all'uomo, trovano in Lui una risposta e la vita eterna, irraggiungibile allo sforzo umano, è da Lui offerta con gratuità.

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Anche nel famoso crocifisso che, in san Damiano, parlò a san Francesco, incontriamo questo nodo. Il volto sereno con gli occhi spalancati, tipici dei Christus Triumphans, rendono già evidente, sulla croce, la risurrezione, mentre il sangue che zampilla copioso dalle sue piaghe, denuncia la sofferenza e la morte. La capacità di sciogliere e legare data a Cristo dal Padre: sciogliere dal peccato e dalla morte e legare con sé al Cielo, è simboleggiata appunto dal nodo che regge il perizoma.

Il nodo di Salomone è presente al nostro quotidiano più di quanto non si creda. Sulle tastiere di chi usa Macintosh, il tasto detto «mela» reca il simbolo di questo nodo rovesciato (in inglese chiamato nodo di Bowen), alludendo alle proprietà del tasto che apre e chiude molti comandi dei programmi MAC. Fa pensare come, nonostante la gran fortuna di questo nodo, le sue caratteristiche ci siano ancora tanto estranee. La nostra società, pur credendo di estendere il suo dominio sulla vita e sulla morte, in realtà ignora la fonte della sapienza che il nodo di Salomone sigilla: quella fonte del vero e del bene che solo la Rivelazione biblica, e in particolare quella di Cristo, offre. Come già annunciava San Paolo ai greci: noi parliamo sì di sapienza, ma non di una sapienza di questo mondo, bensì di quella che viene dalla croce, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani. E i tanti martiri di oggi continuano a dimostrarlo

Immagine:
Nodo di Salomone, mosaico nell’antica Sinagoga, IV sec. Scavi di Ostia
Crocifisso di San Damiano, croce dipinta del XII sec. Anonimo. Basilica Santa Chiara Assisi.


da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

lunedì 8 settembre 2014

Quell'affanno che ci spinge a guardare il Cielo

La mela evoca immediatamente l’antica discordia dell’Eden, una discordia che si perpetua nel tempo rivestendosi di sempre nuovi pretesti. È il caso abbastanza recente della mela di Apple, a lungo disputata con la Apple Record dei Beatles. Gli antichi Baronetti fecero causa all’intraprendente Steve Jobs a motivo del logo della mela, una causa che si risolse solo nel 2007. Pochi sanno che il tutto ebbe origine da un dipinto di Magritte. Paul McCartney si era appassionato a René Magritte e alla sua pittura stravagante. Un giorno mentre il baronetto era impegnato in prove di registrazione, Magritte gli fece visita e, per non disturbare, lasciò un dipinto con una grande mela e una scritta: Au revoir. Quella mela, tagliata a metà, divenne il logo della casa discografica dei Beatles.
In una delle molteplici versioni della mela, Magritte confina il frutto dentro una casa. Il titolo: la camera d’ascolto fa riferimento alla proverbiale incapacità di ascoltare dell’uomo. Il primo comandamento biblico: Shemà Israel, resta ancora il principale comando disatteso dall’uomo. Ascoltare è un’arte difficile. La stanza di Magritte è inospitale, tutta piena del pomo dell’origine. Forse il buon René non poteva immaginare quanto drammaticamente noi potessimo essere testimoni di ciò. Cuore e orecchie oggi sono pesantemente segnati dalle pulsioni dei sensi che paiono l’unico criterio di giudizio sulla realtà. Non c’è possibilità di lasciar spazio allo sguardo in una stanza così, impossibile prendere le distanze dalla propria istintività, giacché questa la fa da padrona.
 
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Il pavimento di parquet rende ancora più soffocante l’atmosfera sebbene Magritte lasci, come spesso nei suoi quadri, la via di fuga della speranza. La speranza sta in quell’unica finestra della stanza chiusa. C’è un mondo là fuori, vasto e terso, un mondo che chiama ad allontanare lo sguardo da sé per volgerlo a un reale che ci supera e ci orienta verso l’alto: il Cielo. Magritte ci obbliga a pensare a tanti temi oggi ricorrenti: gli abusi sulle donne; le questioni legate al gender; la disputa sui figli nati in uteri affittati o per uno strano mixer di ovuli e inseminazioni; la pedofilia e la repulsione verso il disabile con la conseguente eutanasia. L’elenco potrebbe continuare, ma non voglio. Chiedo a Magritte (che era più religioso di quanto non si pensi) di darci una mano a cambiare aria, a spalancare finalmente la finestra dell’angusta stanza del terzo millennio e aiutarci a vedere più chiaro dentro e fuori di noi e valutare meglio i punti chiave delle nostre discordie.
 
Un artista contemporaneo, scomparso nel 2002, Vanni Viviani, ha dedicato alla mela tutta la sua vita. La sua villa ottocentesca, Ca di Pom, è diventata una sorta di scrigno dove il frutto dell’Eden è rivisitato in molti modi. Proprio qui, un’opera del Viviani, desta non poco stupore. Riferendosi a Leonardo da Vinci egli rilegge l’ultima Cena alla luce dell’antico frutto proibito. Il cenacolo vede accalcarsi alla tavola non i discepoli gesticolanti del grande genio vinciano, ma pomi di vario tipo: mele intonse, mele tagliate, mele mancanti di una fetta. Solo la mela di Cristo è aperta e scavata all’interno come fosse una coppa. In lui non c’è la polpa del male. Egli è una sorta di alfa e omega come sembra alludere il taglio dei bordi della mela scavata.
 
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Gli altri hanno in sé il seme del male, mentre Cristo ha davanti a sé due semi. Solo lui è capace di unire i contrari, di fare dei due un popolo solo, di trasformare le nostre discordie in un banchetto di pace. Viviani non era artista religioso, anzi le sue mele rimandano spesso all’aspetto erotico del frutto, eppure qui coglie magicamente un senso profondo, arcaico. Quello di una discordia antica che proprio nel punto culminate della vita del Cristo si svela e inizia la sua caduta. L’ultima cena annienta il veleno dell’antico frutto e ci regala un cibo nuovo che, come la finestra spalancata di Magritte (cui peraltro Viviani faceva esplicito riferimento), invita a volgere lo sguardo altrove, oltre il verdeggiante paesaggio che s’intravvede nel cenacolo vivianesco.
 
 
René Magritte, La chambre d'écoute (La camera d’ascolto) 1952 olio su tela 45 cm× 54,7 cm The Menil Collection, Houston.
Vanni Viviani, L'ultima cena, 1996 tecnica mista su tela, cm. 150 x 200 Ca di Pom San Giacomo Delle Segnate MN
 
(da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)