venerdì 27 febbraio 2015

Dentro al pozzo dell'inconscio il volto del Salvatore

La chiamavano Santa Maritana, nella Lombardia di un secolo fa. Non era difficile, all’inizio della quaresima, incontrarla per le strade e la contrade. Era una bambina, di solito, a impersonarla, mentre un altro bambino interpretava Gesù, entrambe ingaggiavano un dialogo davanti alle porte di casa, nei cortili, e la gente correva a guardare questa sorta di Vangelo vivo, rieditato dai piccoli per far meditare i grandi. Nessuno si è mai scandalizzato per la storpiatura del nome, tanto il popolo l'aveva già canonizzata da un pezzo, quella samaritana giovannea che lasciati anfora e mariti si era messa ad annunciare a tutti il Salvatore. Oggi conosciamo tutto di quella donna di Samaria, ma ci siamo dimenticati il Vangelo che ella annuncia: la gloria di un Dio Trino che vuole entrare in relazione con l'uomo e lo salva dentro un miracolo di grazia e di comunione. La Santa Maritana, finita la sua diatriba con Gesù, riscuoteva da tutti i presenti un piccolo obolo: erano gli ultimi dolciumi, residuo di un carnevale appena passato, o qualche spicciolo per rifare il tetto della chiesa. Così, preghiera, elemosina e penitenza, i capisaldi della quaresima, si vivevano in diretta, guidati dai bambini. Oggi l'individualismo ci ha bloccato dentro le nostre villette a schiera dagli ingressi nascosti, dentro gli interminabili piani di palazzi dalle porte anonime, di modo che nessun Vangelo in scena turbi le coscienze. Un dipinto di un pittore tedesco, scomparso di recente, ci racconta bene l’esperienza di questa Samaritana post contemporanea. Il sole è allo zenit, per i Vangelo, come per Sieger Köder.

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Il sole è allo zenit ma la donna è dentro il suo nadir rappresentato da un pozzo senza fine. Proprio da questo pozzo, cioè dalla solitudine di questa donna che per la vergogna attinge acqua a mezzodì così da incontrare nessuno, Köder ci racconta la scena. Da dentro il pozzo vediamo, in alto, la samaritana, avvenente, con l’abito rosso scarlatto e i capelli sciolti, simboli di sensualità. Grazie al dialogo con Cristo, il quale però non si vede, decide di guardare nel suo nadir, dentro al pozzo dell'inconscio dove talora a ci sprofonda senza rimedio la moderna psicologia. La donna di Samaria guarda lì ed ecco che, con intuito sorprendente, Köder ci fa vedere nell’acqua del pozzo non solo il riflesso della donna, ma anche quello Cristo. Eccolo lì, stampato nell’inconscio, il volto misericordioso del Salvatore che, a differenza di Freud, mentre ci fa vedere i nostri peccati ci rende l'abbraccio della sua compagnia, riscattandoci dall’individualismo che debilita e uccide. Non lo può vedere, invece, Cristo, ne pare sentirne l’abbraccio, la Samaritana dipinta da Julio Romeo Torres, pittore spagnolo morto nel 1930.

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Il realismo di Torres consegna la samaritana alla sua anfora. Egli la coglie prima della resa, ancora tenacemente attaccata al suo pensiero e alle sue abitudini mondane. Gesù le sta vicinissimo anzi, la invita quasi abbracciandola a una verità che sta più in alto, ma lei non pare desiderosa di capire. La Samaritana spagnola né guarda nel pozzo della sua miseria, né si lascia provocare dall’invito a guardare più in alto. Rimane lì con gli occhi fissi su di noi, forse un poco accusandoci di essere simili alla generazione di Cristo: «vi hanno suonato il flauto e non avete ballato, vi hanno cantato un lamento e non avete pianto». Sì, la donna di Torres ci somiglia di più, un po’ di più della samaritana di Köder. Forse dobbiamo deciderci a guardare nel profondo della nostra oscurità per ritrovare la luce che permetta di mirare più in alto e riprendere consapevolezza di ciò che siamo e di sia Colui che ci ha generato.

Immagini:
Sieger Koder, Die frau am Jakobsbrunnen (La donna al pozzo di Giacobbe) olio su tela, 2001, Museo Ellwange Bild und Bibel
Julio Romero de Torres (1874-1930) La Samaritana olio su tela Cordoba

(Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la bellezza)

mercoledì 18 febbraio 2015

La luce di Cristo sulle ceneri dell'umanità ferita

«Polvere sei e polvere ritornerai» era il versetto biblico che un tempo accompagnava l'imposizione delle ceneri all'inizio della quaresima, oggi preferito a un più innocuo «Convertiti e credi al Vangelo». Eppure il senso delle ceneri era proprio lì, nascosto in un memento mori che rendeva urgente dare senso e serietà alla vita. Oggi abbiamo addolcito i gesti liturgici ma, il memento mori, lo offre la cronaca quotidiana senza però ottenerci alcuna conversione, anzi. Alla morte ci si abitua e appare qualcosa di lontano che mai ci toccherà. Un'arte piena di cenere era quella dell'artista polacco Zdzislaw Beksinski, talmente visionario che le sue opere hanno faticato a trovare una sede museale per ricordarlo. Beksinski è morto dieci anni fa dopo aver visto gli orrori della guerra, quelli del comunismo, dopo aver visto morire la moglie prematuramente e il figlio suicida. È morto barbaramente accoltellato, ma la sua profezia vive ancora e in alcune sue opere è palese. Una impressiona per l’attualità: in un panorama fuligginoso, di cenere appunto, campeggia un albero maestoso la cui forma evoca l'albero della vita o la menorah.

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Certo è un albero di alberi giacché il suo tronco pare sorreggere una schiera interminabile di altre piante e non solo. Proprio in corrispondenza del tronco sta un piccolo edifico, simile a una chiesa o a un faro, che denuncia inequivocabilmente la natura religiosa dell’albero. Un cono d'ombra, però, all'orizzonte nasconde, solo per un attimo, il divampare del fuoco il quale, avendo già arso alcuni rami dell'albero sembra inarrestabile e pronto ad inghiottire il resto. Davanti all'albero un mare di fuoco o di sangue registra l'eccidio. Sembra la drammatica immagine registrata alcuni giorni fa da tutte le Tv del mondo, un tragico reportage di 21 cristiani copti giustiziati lungo il mare, colpevoli solo, come ha detto il papa, d’esser cristiani. E impressiona come Beksinski abbia posto in evidenza, quasi come firma minacciosa, una mezzaluna. Una luna nera, in primo piano, in mezzo al sangue, una luminosa, sullo sfondo come sole sinistro che sorgerà, prima o poi, su un panorama desolato.
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In un’altra opera un muro sta come quinta impassibile di fronte a una figura scheletrica avvolta scheletrica avvolta in un lenzuolo azzurro dalla luce sinistra. La figura è ricurva sopra una culla, dove appare ben visibile la R, forse di Rzymski (cattolico-romano), e la croce. Sulla parete sta, come promessa di un destino certo, il Cristo crocifisso. I corvi gli devastano il volto e altri sono in attesa di piombare su di lui per dilaniarlo. La scena è alquanto macabra, eppure è la profezia dell'odio anticristiano che vorrebbe cancellare dalla faccia della terra ogni sua radice. A ben guardare la foggia della morte è arabeggiante, sorveglia la creatura con la pazienza elefantina di chi ha un compito ben determinato e chiaro. La nostra quaresima inizia così con la minaccia di un potere che sa bene dove vuole arrivare e che attende, con pazienza e silenzio da anni, ciò che ora viene alla luce. Ci sono due punti luminosi però, nel dipinto di Beksinski, uno è il cuore di Cristo, lucente e fermo come il Santissimo Sacramento, l'altro è un rigagnolo di luce che esce dalla culla. Un telo sindonico tenace che testimonia di fronte all’unguento rovesciato e alla morte la sua vittoria. Prendere le ceneri allora, sia per noi, non un rito stanco, incapace di toccare vita e cuore, ma il segno di un'urgenza: quella di riprendere in mano seriamente la nostra vita e la nostra fede. Ed essere certi, più certi, che ancora oggi è possibile del trionfo della verità.

ImmaginiZdzislaw Beksinski Senza Titolo (DG-2224) cm 87 x 73, olio su faesite, 1979 Collezione dell’Artista.
Zdzislaw Beksinski Senza Titolo (In hoc signo vinces: DG-2216) cm 87 x 73, olio su faesite, 1974 Collezione dell’Artista.

(Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)

venerdì 13 febbraio 2015

L'abbraccio d'amore eterno di San Valentino

Pochi sanno che la festa di San Valentino, tra le più popolari del mondo, è nata per opporsi a certi licenziosi festini pagani (i Lupercalia) celebrati proprio tra il 13 e il 15 febbraio. All’origine della festa sta un santo vescovo vissuto nel terzo secolo e divenuto rapidamente famoso per i suoi miracoli: guarì epilettici e restituì la vista a una fanciulla pagana, conquistando a Cristo l’intera famiglia. Benché perseguitato a lungo, raggiunse la veneranda età di novantasette anni, che coronò col martirio. Tra i miracoli leggendari, che ne fecero il santo degli innamorati, ve n’è uno che si è rivelato vero. A Terni, quattro anni or sono, sono state ritrovate le ossa di due fidanzati, seguiti da San Valentino, dalla storia controversa. Erano Sabino e Serapia: lui centurione romano e pagano, lei cristiana fervente. Per amore di lei, Sabino si convertì al cristianesimo ma scoprì, poco dopo, che Serapia era ammalata di tisi, malattia allora incurabile. Non volendo separarsi da lei, Sabino si rivolse a San Valentino il quale benedì le loro nozze e pregò per l’eternità del loro amore. I due morirono abbracciati e ancora oggi le loro ossa riposano in quella postura.

 
 
Un abbraccio simile lo ritroviamo in quest’opera di Margarita Sikorskaia, artista russa, che vive e opera negli Stati Uniti. Pur carico di sensualità l’abbraccio tra questi due innamorati conserva in sé qualcosa di eterno, proprio come l’abbraccio dei fidanzati ternani. Le loro vesti, bianche e rosse, rimandano alle due dimensioni dell’amore eros e agape che, nell’amore cristiano vivono abbracciati. L’oscurità che incombe all’orizzonte sembra rimandare al pericolo di una morte che, mentre sottrae i corpi alla terra, come testimoniano Sabino e Serapia, non può sottrarre l’amore all’eternità. Una leggenda che consegna san Valentino all’amore umano narra che il vescovo, vedendo due fidanzati litigare si avvicinò, dando loro una rosa. Dopo aver pregato, il cielo si riempì di coppie di colombi che tubavano, volteggiando sopra i due innamorati. Pace fu fatta e così, accanto all’abbraccio dell’amore, anche le colombe entrarono a pieno titolo nella simbologia di San Valentino, tanto che l’espressione “piccioncini”, riferita agli innamorati, sembra derivare proprio dal leggendario miracolo del Santo.
 
In una chiesa del XV sec, ora anglicana, a Tenna nel Canton dei Grigioni (Svizzera) dedicata a San Valentino, tra i fregi che corrono lungo il soffitto di legno, risalenti al XVIII secolo, ci sono proprio due colombi rivolti l’uno verso l’altro.
 
 
 
La colomba, che ai tempi di San Valentino era noto come il volatile preferito da Afrodite, si trasformò in attributo del Santo e segno dell’amore puro e sempiterno. Oggi, ahimè, la festa di san Valentino celebra amori più vicini ai Lupercalia che al concetto cristiano dell’amore, difeso dal santo vescovo. Per i “valentini” cristiani, verginità e fecondità, eros e agape conservano un abbraccio carico di eternità che neppure la morte può dissolvere.

Immagini:
Margarita Sikorskaia, Two in the Hills, olio su tela 2010 Collezione Privata.
Chiesa Riformata in Tenna, XV sec fregio del soffitto ligneo. Safiental Svizzera Cantone dei Grigioni
 
Fonte: Avvenire (rubrica Dentro la Bellezza)