giovedì 24 aprile 2014

La domanda sulla vita, il dolore e la morte

 Sono bagnati dalla luce argentea della luna, il mantello e il vasetto della Maddalena. L’abito rosso, che tradizionalmente contraddistingue la Santa, è scomparso sotto questo bagno di luce. Il mantello in tutta la Scrittura è la vita stessa dell’uomo e il vaso (e nell’iconografia cristiana il vaso di nardo, in particolare) è spesso simbolo funerario. Così Savoldo, artista di spicco nel primo rinascimento bresciano ma attivo a Venezia, traccia l’episodio del primo giorno dopo il sabato fra queste due coordinate: il mantello e il vasetto.

Fra questi due poli c’è tutta a vita di Maria di Magdala, tutto il suo dramma e, insieme tutto il suo desiderio. E ci impressiona lo sguardo interrogativo che ci rivolge, così frontale e così realistico da sentircelo addosso anche dopo che ci siamo voltati. La domanda sulla vita e sulla morte, la domanda sul dolore: è questo il dilemma di Maria. Ed è anche il nostro dilemma. Che l’uomo cerchi di eludere la domanda, che l’uomo laico cerchi di risolvere il problema ignorandolo e lasciando cadere nel nulla l’orizzonte del prima e del dopo l’esistenza umana, a nulla vale. La domanda ti resta addosso, come lo sguardo di questa Maddalena. Lo sfuggiamo cercando rifugio in ciò che le sta attorno: vorremmo trovare per un attimo il respiro e allontanarci da quegli occhi. La laguna sulla sinistra è così carica di vita e contrasta col sepolcro che preclude un poco la visuale. Sono i ricordi della pace veneziana sperimentata dallo stesso Savoldo nelle mattine fredde di una Venezia solitaria. Dall’altra parte un arco sembra, invece, farci ripiombare nello sgomento della domanda sulla morte. Gli occhi si stringono nel tentativo di vedere meglio. Sì, dietro l’arco c’è qualcosa: un albero secco e ruderi. Segni di un mondo caduco, stanco, prossimo a morire. Anche qui non abbiamo tregua: la vita della laguna, la morte segnata nei ruderi.

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La domanda resta lì. E siamo costretti così a ritornare sullo sguardo della Maddalena e solo allora ci accorgiamo che non è uno sguardo inquieto, che l’interrogazione si fissa altrove. Sì, è lo sguardo di Colei che per prima vide il Risorto. Non guarda noi, guarda Cristo e, forse, guarda Cristo in noi. Di generazione in generazione siamo noi, in fondo come le antiche donne corse al sepolcro, che diamo l’annuncio della speranza in una vita che non può morire. Purché si rimanga dentro la tensione che dallo sguardo della Maddalena si tende fra il vasetto e il mantello del mattino di Pasqua che fonda la storia cristiana.

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Anche il Crivelli ha voluto immortalare la Maddalena con lo sguardo sospeso tra il mantello e il vasetto. Benché opera diversa per epoca e stile (qui siamo nel 1471 ad Ascoli Piceno) l’emozione che suscita lo sguardo della Maddalena è identica. Il fondo oro, con la sua solennità, non riesce a imballare il profilo della santa che resta vigile e viva. Il vasetto si confonde con l’oro del fondo, quasi a indicare il mistero di cui è stato testimone: quella pia pratica di sepoltura mai compiuta, rimasta sospesa nel corso dei secoli, come questo vaso è sospeso nell’oro. Il mantello della Maddalena invece, qui, è rigorosamente rosso, come vuole l’iconografia tradizionale, con l’interno verde.

Rosso di dolore e verde di speranza. Sono il velo del capo e i capelli e questo manto che ci rivelano la corsa della discepola di Cristo. Tutto è fermo nel tempo eppure lei corre. Corre, e il mantello cade mettendo a nudo la preziosa manica dell’abito di lei. Su quella manica ecco evidente l’araba fenice, che risorge dalla sue ceneri e in alto piume di coda di pavone con i loro occhi misteriosi. Sì, alla fenice allude lo sguardo un po’ sornione di questa Maria di Magdala. «Risorgiamo dalle nostre ceneri - sembra dire - c’è un mondo che attende occhi nuovi per rivedere, qui ed ora, il mistero del Risorto che accade».

Immagini
Giovanni Girolamo Savoldo, Maria Maddalena, 1530- 1540; olio su tela 89,1 cm x 82,4 cm; National Gallery Londra.

 Carlo Crivelli, Maria Maddalena, part. del Polittico di Montefiore; 1471; 174 x 54 cm., olio su tavola; Polo museale di San Francesco a Montefiore dell'Aso, Ascoli Piceno.

Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
 

venerdì 18 aprile 2014

La nuova nascita, tra la roccia e il lenzuolo



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Nell'oscurità di un mondo addormentato dentro i suoi ritardi, le sue chiusure ideologiche e inclini al conflitto, Cristo sale a mani levate, come a testimoniare la disarmante forza dell’amore. Matthias Grünewald, enigmatico personaggio del XV secolo (la cui identità ancora fa discutere), nella sua famosa Pala di Isenheim, tocca il vertice della sensibilità nel ritrarre il fondamento della fede cristiana: la risurrezione.
Protagonista assoluto per Grünewald è il mondo inanimato. L’uomo è escluso dall’evento straordinario che dividerà la storia fra un prima e un dopo. Al centro, rigonfio della luce del Padre, c’è il lenzuolo che quale immensa placenta libera la vita nuova inaugurata da Cristo, con la sua carne trasfigurata. Cristo sale al Padre, la cui iridescenza maestosa per un attimo svela il Regno di Luce che il Figlio è venuto ad annunciare. L’uomo di fronte a tale maestà rotola goffamente sul proprio peso corporeo, rotola come dentro l’opacità dei propri desideri a breve respiro, come sopraffatto dall’evento. Quello che sorprende, e che sconcerta soprattutto noi cittadini del XXI secolo, è la forma stranissima della roccia sepolcrale che sta dietro il Risorto. La pietra, a causa dell’evento sismico che secondo i Vangeli si verificò il sabato santo, si solleva da terra assumendo la forma caratteristica del fungo. Un’immagine che ci riporta spontaneamente al terrificante fungo di Hiroshima in cui l’uomo misurò la potenza dell’atomo, un’immagine che Grünewald non poteva neppure lontanamente supporre. Eppure anche allora si trattò di energia, un’energia ignota alle scienze umane che permise al corpo di Cristo di passare attraverso il lenzuolo lasciando in esso la sua impronta.

Roccia e luce sono protagonisti anche in una risurrezione di Jerg Ratgeb, artista tedesco contemporaneo di Grünewald e molto vicino a lui nello stile. Ratgeb, che aveva aderito alle testi luterane, rilegge la roccia del sepolcro come la roccia del Sinai, come il luogo di una alleanza assolutamente nuova, perché fondata sulla grazia.


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La luce di Cristo trapassa la materia e anche i sigilli, che rimangono bene evidenti sulla porta sepolcrale. Anche qui i soldati rotolano pesantemente, incapaci di reggere di fronte alla potenza di un tale Mistero. Anche qui la porta sepolcrale ha la forma luminosa del telo sindonico. Il fascino della Pala di Isenheim resta tuttavia insuperabile. Questa opera, a sua insaputa, rende evidente il dramma dell’uomo contemporaneo. L’atomo, particella fontale in cui si cela il principio vitale dell’uomo; particella che, proprio per la sua indivisibilità, portava scritta in sé la certezza dell’eternità, si è rivelata scindibile e perciò stesso caduca. Ed ecco allora il profetismo di Grünewald a raccontarci che Cristo è Signore anche degli enigmi umani, anche delle potenze energetiche a noi ignote, anche delle forze della natura che ancora incutono paura all’uomo. Noi siamo lì come i piccoli soldati arrotolati incapaci di fare guardia al Mistero. Siamo lì, come in posizione fetale, ma il nostro risveglio sarà una nuova nascita e troveremo un lenzuolo e una roccia muta a raccontarci del nostro destino.

Immagini
Matthias Grünewald, Altare di Isenheim, 1512-1516, olio su tavola, cm 269 × 143, Musée d'Unterlinden, Colmar.
Jörg o Jerg Ratgeb, Altare di Herrenberg, tavola esterna destra: Resurrezione di Cristo. 1518-1519 tempera su legno 270 × 147 cm Stoccarda, Staatsgalerie.

Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

Il sole e la luna, la Nuova e l'Antica Alleanza

«Verso mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio». Così i sinottici descrivono l'eclissi che si verificò nell'ora della morte di Cristo.
Un evento cosmico che segna la partecipazione della creazione al grande Mistero della fede cristiana: la morte e risurrezione del Signore Gesù. Puntualmente l'arte registra, almeno fino al XV secolo, il fenomeno dell'eclissi elaborando suggestive iconografie. Una di queste, molto diffusa presso siti che parlano (o straparlano) di arte cristiana come prova delle loro teorie ufologiche, si trova nel Kosovo nel Monastero di Visoki Decani in Kosovo (1350). Il bellissimo affresco bizantino presenta, nel cielo della crocifissione, una curiosissima personificazione del sole e della luna.

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Tra le mille supposizioni che pescano all'interno della simbologia pagana (il sole e la luna apparivano nell'iconografia delle divinità solari della Persia e della Grecia) ve ne sono alcune autorevoli legate all'ambito cristiano. Una, più strettamente aderente agli scritti dei padri della Chiesa, è quella che che fa riferimento a Sant'Agostino.

Per il santo d'Ippona l'eclissi fu l'esemplificazione simbolica della verità teologica concernente la morte del Redentore. Cristo ha fatto dei due un popolo solo: Antico e Nuovo Testamento, antica e nuova alleanza, popolo ebraico e popolo pagano trovano nella croce del Salvatore una mistica unità.
La luna, che brilla di luce riflessa e che Origene identificherà con la Chiesa, era già simbolo del popolo ebraico (il cui calendario – del resto – era lunare), mentre il sole – grazie alla rielaborazione cristiana del Sol Invictus romano – era identificato con Cristo stesso, vero Sole dell'umanità. Perciò, nell'affresco del Monastero di Visoki, il sole che a mano aperta si volge verso la croce, è simbolo del Nuovo Testamento che con la grazia illumina le genti, mentre la luna, che si volge verso il divino Trafitto, è segno dell'Antica Alleanza, la quale per dare significato e luce alle sue verità deve guardare a Cristo e alla sua Risurrezione.

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Il cristiano, dunque, scruta sì il cielo, ma non per cercare fantomatiche presenze extragalattiche o per ampliare l'orizzonte del proprio dominio, bensì come rimando imperioso all'infinito.
Sole e luna testimoniano, dunque, che la morte non è l'ultima parola sull'uomo, il cui destino è piuttosto l'eternità. Sole e luna finiranno, il Verbo di Dio, invece, dura in eterno: credere in lui – e non a ridicole superstizioni – rende partecipi della stessa eternità.

Le immagini: Anonimo, Monastero di Visoki Decani, Kosovo, Crocefissione affresco 1350.

Andrea della Robbia, Santuario de La Verna, Cappella delle Stimmate,
Ceramica, particolare della crocefissione.


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giovedì 17 aprile 2014

L'ultima cena di Philippe de Champaigne, 1652, Parigi - Louvre


É un'opera molto importante per diversi motivi: non solo per il livello della qualità pittorica, ma anche e soprattutto per l'intensità spirituale che è in grado di comunicare. Realizzata per l'altar maggiore del celebre convento cittadino di Port-Royal des Champes, un centro spirituale di grande importanza che in quel periodo si trovava al centro di polemiche. La disputa era nata perché i Gesuiti avevano accusato la comunità religiosa di avere simpatie gianseniste mantenendo contatti con gli ambienti calvinisti di Ginevra, quindi di non credere alla presenza reale di Cristo nell'eucarestia e di comunicarsi poco. La risposta del pittore fu evidente: Port-Royal proclamava la fede nel mistero eucaristico, esibendo sull'altar maggiore della propria chiesa questa superba rappresentazione dell'Ultima Cena, in cui Cristo al centro sta riproponendo il gesto consacratorio del celebrante.  Sullo sfondo di un drappo scuro, che crea un clima serio e cupo, il pittore realizza una composizione caratterizzata da colori chiari, vivi, assai gradevoli alla vista. 
Tre al centro con la brocca: l'artista, discostandosi dalla tradizione iconografica precedente che aveva privilegiato nella raffigurazione il momento dell'annuncio del tradimento, qui preferisce concentrarsi sul momento culminante dell'istituzione del sacramento. Così, vediamo raffigurata sotto la tavola anche la brocca, con cui, nello stesso contesto della cena, Gesù lava i piedi ai discepoli per riassumere la sua vita nel segno del servizio. Un tocco di alta qualità è poi questa raffigurazione della tovaglia, pulita e ben stirata: un richiamo molto femminile, a quella tovaglia che certamente le monache disponevano con cura sull'altare della loro chiesa. Notevole è il motivo insistito delle pieghe a forma di croce, una chiara allusione al mistero pasquale riassunto dall'Ultima Cena.
A destra: il gruppo dei 12 reagisce. Li vediamo sorpresi, dubbiosi, meravigliato per le parole di Gesù e per la portata dei gesti che sta compiendo: non capiscono il perché di questa oblazione fino alla fine. Ce lo dicono i dialoghi degli sguardi, le torsioni dei corpi, il gesticolare delle mani.
Gesù sta dicendo e facendo questa cena per loro, per far comprendere che questo atto d'amore è per tutti, per ogni uomo. Ecco la diversità delle reazioni: ciascuno con la sua personalità, il suo stile è chiamato a partecipare all'evento. Gesù offre gratuitamente il suo pane come proposta di vita per chi si dispone ad accoglierla. Il discepolo a destra, girato di spalle, è posto come noi al di qua della mensa per indicarci il gesto di Gesù, per indirizzarci a lui.
A sinistra: dall'altra parte del tavolo, seduto lui pure con noi al di qua della tavola, si impone sugli altri la figura di Giuda in primo piano. Il sacchetto con i soldi del tradimento, la gamba protesa in avanti come in gesto di sfida, la mano fieramente posata sul fianco stanno a dirci la distanza abissale, la radicale opposizione della sua logica rispetto a quella di Gesù. É l'unico che sciupa con il braccio l'armonia della tovaglia, creando delle pieghe.

Il gambero e le ciliegie, banchetto di salvezza

Mangiavano pesce e gamberi e ciliegie, gli apostoli nell’ultima cena. Lo affermano alcuni artisti del XV secolo che hanno affrescato numerose Cene disseminate nelle valli sotto le Alpi, dal Lago maggiore fino al Piave. Ve ne sono anche nel Canton Ticino, in Svizzera dove troviamo, nella Chiesa di San Martino a Dotti di Cugnasco, un’Ultima Cena di grande interesse iconografico. L’affresco, benché rovinato, ci permette di vedere lo sguardo di Cristo rivolto verso di noi, ideali invitati a questa mensa. Il momento è drammatico: Gesù porge il boccone a Giuda prima che esca nella notte. Sorprende come Giuda sia l’unico con le mani giunte, l’unico a guardare in volto il Salvatore. Sulla tavola l’enigma è spiegato attraverso un pasto simbolico.

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L’agnello pasquale, posto in un enorme calice o pisside, collega la pasqua di Cristo al sacrificio della Messa celebrato lì sull’altare adiacente. L'Agnello pasquale, dopo il pane e il vino, è l’unico riferimento agli alimenti della Pasqua ebraica, sulla tavola scorgiamo poi ciliegie, pere e, soprattutto, gamberi. Ne vediamo uno proprio vicino al calice: è rosso e mostra arditamente le sue chele. Il gambero procede all'indietro e, quindi, nel senso contrario a quanti camminano nella grazia. Le sue tenaglie sono un rimando al demoniaco inoltre, quando si aggira nei fiumi, per il suo colore grigio-rosa, si confonde facilmente con le rocce e aggredisce di sorpresa le sue prede. Solo nella cottura, quando è vagliato dal fuoco purificatore, si colora di rosso e mostra la sua natura diabolica. Il gambero sulla mensa eucaristica ė dunque segno dell'apostolo Giuda, che solo nel fuoco della passione ha rivelato la natura del traditore, ma nel contesto del XV secolo è anche segno dei Giuda di ogni tempo, degli eretici contrari alla dottrina eucaristica.

L'antidoto al gambero è costituito proprio dalle ciliegie e dalle pere. Se le pere rimandano alla verità della natura umana di Cristo, alla sua Incarnazione, le ciliegie sono simbolo della passione. La polpa rossa della ciliegia che nasconde il nocciolo legnoso, è segno del sacrificio di Cristo: prendendo su di sé il legno della croce egli ci ha dato in cibo la sua carne, antidoto contro i morsi del maligno. La presenza delle ciliegie sulla tavola dell’ultima pasqua di Cristo si trova anche in opere lontane dal nord Italia. Nell’affresco del Ghirlandaio, noto come il Cenacolo di San Marco e custodito nel Museo di Firenze, ciliegie fanno bella mostra di sé davanti a tutti gli apostoli.

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Davanti a Giuda tuttavia ve ne sono ben undici quasi a indicare che proprio lui, il dodicesimo si sottrarrà alla grazia di quel sacrificio. Giuda infatti, si trova al di là della tavola, come anche nell’affresco svizzero, quasi a significare la sua predestinazione al gesto sacrilego. Nel Ghirlandaio, poi, a guardare verso di noi è un gatto, simbolo di tragica malizia, che ritto di fianco al traditore, sembra chiederci da quale parte della tavola noi stiamo. Così guardando a tali simboli il credente comprendeva che essere ammessi a questo banchetto non è per sé garanzia di salvezza. Occorre piuttosto che la vita si adegui totalmente alla verità dell’Incarnazione e del Sacrificio del Redentore: fare memoria di lui significa seguire le sue orme e rimanere fedeli alla Chiesa.

Immagini
Anonimo, Chiesa di San Martino, Ditto di Cugnasco, Canton Ticino, CH (Ultima Cena) affresco del XV secolo
Domenico Ghirlandaio Cenacolo di San Marco (Ultima Cena), affresco (400x810 cm) 1486 circa Museo nazionale di San Marco, Firenze.


Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 10 aprile 2014

L'asino che apre le porte di Gerusalemme

Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina (Zc 9,9). Ci è familiare l'immagine di Cristo in groppa all’asino che entra trionfalmente a Gerusalemme fra il tripudio osannante della folla. L'asino, com’è noto, era la cavalcatura dei re in tempo di pace: Cristo entra pertanto in Sion come il re pacifico promesso dai profeti. Così lo rappresenta, infatti, il bellissimo mosaico bizantino della Cappella Palatina in Palermo.

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Ed è guardando questo mosaico che ci accorgiamo dell'espressione ragliante e sofferta dell’animale che male si accorda con il significato attribuitogli di cavalcatura del re di pace. L'asino, con la sua soma, suggeriva svariate significazioni. Da un lato era contrapposto al bue il quale, avendo la dignità di portare il giogo e di contribuire al lavoro del padrone, era l’immagine del popolo ebraico; l'asino invece era assimilato ai popoli pagani che portavano il peso del peccato, privi però della grazia del sacrificio. D’altro canto l'asino, proprio perché animale da soma, poteva portare con sé, senza saperlo, tesori inestimabili ed era dunque immagine della fragilità umana che porta in sé la grande dignità della figliolanza divina. L'asino, inoltre, era legato a Saturno, probabile rimando allo stesso Adonai e alla stella d'Israele. Questo spiegherebbe perché, sia pure per disprezzo, alcuni graffiti come quello di Alessameno nel Paedagogium del Palazzo Domiziano sul Palatino, raffigurano Cristo in croce con la testa d’asino. Il paedagogium era una sorta di collegio destinato a istruire i paggi imperiali, schiavi provenienti da classi sociali medio alte.

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Qui fu trovato, risalente tra il I e il III secolo (alcuni lo datano 85 d.C.), uno fra i più antichi riferimenti a Cristo crocefisso. Nel graffito, la testa d’asino assegnata al Cristo è, appunto, una probabile allusione agli ebrei quali adoratori di un asino. Il fatto che quest’asino adorato sia stato crocefisso diventa la critica al nascente cristianesimo. La scritta greca, infatti, recita: Alexamenos adora il suo Dio. Non a caso, dunque, Cristo entra trionfante nella città di Dio, Gerusalemme, cavalcando un asino. Egli, come ci informa il mosaico palermitano, sta passando per una porta che vede al suo lato una palma colma di frutti, simbolo della bellezza. È sì, il re pacifico, ma è anche il re che prenderà su di sé i peccati del popolo e che consegnerà i tesori dello Spirito Santo alla fragilità della sua sposa, la Chiesa. Questo indica la palma, immagine della bellezza femminile, che sta alle porte di Sion. Questo dice la scritta greca: portatore di palma. Questo indicano le dita, tanto del Salvatore benedicente che del discepolo Giovanni posto dietro l’asino: Io sono Gesù, il Cristo, vero Dio (e quindi capace di redimere il mondo dai peccati) e vero uomo (dunque capace di nobilitare con la vita eterna la natura caduca dell’uomo). Si apre anche per noi la settimana santa, Cristo entra simbolicamente nelle nostre vite a dorso di un asino, si carica delle nostre colpe e apre per noi lo splendore di Gerusalemme, città dove la morte è vinta e la bellezza eterna trionfa

Immagini: Mosaico, transetto parete meridionale, XII sec. Cappella Palatina. Palermo.
Graffito di Alessameno, I-III sec. Museo Antiquarium Forense e Antiquarium Palatino, Roma.


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giovedì 3 aprile 2014

Il mandorlo, guardare la vita oltre le apparenze

La primavera giunge con i suoi tepori e non è raro trovare sulle nostre strade meravigliosi mandorli in fiore, spesso solitari in mezzo ad alberi spogli. Una visione simile l’ebbe un tempo il profeta Geremia.

In uno dei momenti più critici dell’attività del profeta, quando ormai la speranza di ritrovare fede e sicurezza a Gerusalemme sembrava perduta a causa del re di Babilonia che premeva alle porte della città, Dio chiama Geremia a vedere in modo nuovo le cose che gli stanno attorno. Alla domanda divina:«Cosa vedi Geremia?» il profeta rispose:«Vedo un ramo di mandorlo». Mandorlo in ebraico si dice shaqued, che significa il vigilante. Così Dio, risponde giocando sull’ambivalenza della parola: «Hai detto bene: io, infatti, vigilo (shoqued) sulla mia Parola per realizzarla». Dio chiede a Geremia di non fidarsi delle apparenze e di arrendersi a Babilonia per avere salva la vita. Una scelta controcorrente che il popolo non sarà in grado di fare. Il mandorlo compare nella Scrittura come
simbolo di novità e di vita a dispetto di un panorama invernale, segnato dalla morte.

File:Moretto, geremia.jpg Alessandro Bonvicino, artista bresciano considerato uno dei grandi esponenti del rinascimento e chiamato Il Moretto per il nome del nonno, dipinse Geremia mollemente appoggiato a un albero di mandorlo. Benché la visione del ramo di mandorlo imponga al profeta di guardare verso il cielo, egli abbassa gli occhi a terra e guarda il cartiglio che tiene in mano. Sopra di esso si legge il passo: «Ero come un agnello mansueto portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me» (Ger 11,19). Qui Geremia allude a se stesso ma in realtà annuncia Cristo. È quest’Agnello la Parola sulla quale Dio vigila. Il Moretto unisce i due passi del profeta per farci comprendere che, come Geremia, anche noi siamo chiamati a scorgere dentro le trame dei nemici la strada della salvezza, anzi la Presenza del Salvatore. Il mandorlo compare anche nella vita di Giacobbe, il quale si addormentò sopra un guanciale di pietra in prossimità di una città chiamata Luz, che significa mandorla. Qui vide la famosa scala di Giacobbe, cioè le porte della città di Dio. Pertanto si crede che le porte della città di Luz, intesa come città della luce, si nascondano presso le radici di un mandorlo. Le trova solo chi è in grado di guardare la vita e la realtà andando oltre le apparenze. Anche noi, dunque, pur dentro il panorama talora inquietante della storia siamo chiamati a trovare, contro ogni apparenza, il passaggio della speranza.

Il mandorlo affascinò profondamente anche Vincent van Gogh. La nascita del nipote, figlio del fratello Theo, cui fu dato il suo stesso nome, fu per lui motivo di rinascita. Per il bimbo, van Gogh, dipinse un bellissimo mandorlo su campo azzurro. L’artista racconta al fratello quanto la fioritura di quest’albero incantasse il suo animo fino a fargli dimenticare le sofferenze psichiche delle quali soffriva. Furono queste che gli impedirono, alla fine del suo ultimo inverno, di dipingere più e più tele sul mandorlo.
Tuttavia del mandorlo ci rimangono diverse versioni nelle quali si vede la passione di Vincent per la pittura giapponese. Forse, il non aver potuto dipingere, in quell’assolato luglio del 1890, la rasserenante bellezza del mandorlo, lo lasciò scivolare nel baratro che lo portò al suicidio. Tutto questo è monito anche per noi: le avversità devono essere occasione per irrobustirci nella speranza e darci la forza di credere anche oggi nell’intervento di Dio, il quale sempre, vigila sulla sua Parola per realizzarla.

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Immagini Il Moretto, Profeta Geremia, 1535 circa, 153×62; olio su tavola centinata Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano
Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo fiorito, 1890, olio su tela, 73,5 cm × 92 cm Van Gogh Museum, Amsterdam

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