domenica 15 novembre 2015

Lo spot di Natale 2015 di John Lewis e la solitudine degli anziani



martedì 3 novembre 2015

L'acrobata (Chagall)

Annunciazione (Beato Angelico)

Il bacio (Klimt)

venerdì 16 ottobre 2015

Lazzaro (Subsonica)



Quando si parte per un viaggio, quando si comincia un'esperienza nuova, è indispensabile conoscere le risorse che si hanno a disposizione, 'le cose che ci portiamo dietro'. É utile, cioè, parlare della responsabilità 'riflessiva', quella nei confronti di se stessi; tutti devono conoscere le proprie qualità e i propri talenti; da lì devono partire per crescere, cambiare, affrontare la vita.
La canzone sembra riprendere metaforicamente il Vangelo attraverso la frase Alzati e cammina, spesso attribuita a Gesù e spesso in relazione alla risurrezione di Lazzaro, ma che in realtà non è mai stata effettivamente pronunciata. La citazione, però, anche se errata, è funzionale al senso complessivo: ciascuno di noi deve avere il coraggio e la forza di uscire dal 'guscio' ed affrontare la propria vita (Lazzaro, vieni fuori!) (Gv. 11,43).

Ecco il testo della canzone:

Alzati e cammina per scoprire di essere vivo come non mai
Lazzaro stamattina
e resuscita un pezzo alla volta la volontà
ora che sei un’emozione scaduta
ora che sei una certezza tradita
ora che sei un’ambizione svenduta
chiuso nel tuo sepolcro
quello che avevi oggi non vale più
hai studiato, creduto, lottato e sofferto
c’era un sorriso negli occhi che non c’è più
col futuro qualcuno ha giocato d’azzardo

alzati e cammina per scoprire di essere vivo come non mai
Lazzaro
stamattina e resuscita un pezzo alla volta la volontà

ora che sei una protesta ammaestrata
ora che sei una carezza svogliata
ora che sei una speranza piegata
chiuso nel tuo sepolcro

alzati e cammina
per scoprire di essere vivo come non mai
Lazzaro
stamattina e resuscita un pezzo alla volta la volontà
un pezzo alla volta
un pezzo alla volta

ci hai creduto oggi c’è un più
hai discusso sprecato amato sofferto
un’ipoteca sulla tua dignità
sei un crudele silenzio delle notti insonni

alzati e cammina
per scoprire di essere vivo come non mai
Lazzaro
stamattina e resuscita un pezzo alla volta la volontà
un pezzo alla volta
un pezzo alla volta

c’era un volta non c’è più
mentre l’unica che resta davvero sei tu

(da Insegnare Religione, n. 1 2015/16, di Gabriella Cappelletti)


giovedì 13 agosto 2015

Occhi aperti sulle “Auschwitz” dei nostri giorni

Era uno dei 70.000 ebrei della città di Vilnius. Sono tornati in duecento. Samuel Bak aveva undici anni ed è tornato stringendo il braccio a sua madre, il tesoro più prezioso che gli fosse rimasto. Tali cifre inquietanti sono un nulla se confrontate con i 44 milioni di aborti praticati in Europa nel 2014. Così, nell’anniversario dell’uccisione di Massimiliano Kolbe, morto ad Aushwitz per salvare un padre di famiglia, impressiona guardare alcuni dipinti di Samuel Bak. Uno, dal titolo Il cielo era il limite, racconta di orsacchiotti, gioco intramontabile per i bambini di ogni generazione, che giacciono inermi come anelanti al cielo. L’orizzonte è precluso da un alto muro di mattoni e il brandello di cielo che lascia intravvedere si riflette drammaticamente in una tela, posta su un cavalletto rudimentale.

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Quegli orsi di peluche sono la memoria dei bambini che non sono più. Essi suonano come denuncia e monito verso noi adulti che guardiamo. Alcuni orsi sono irrimediabilmente sepolti dall’erba. Si sono lasciati annegare da quel mare di rabbia. Non c’è odio nelle loro espressioni, ma solo desolazione. Altri sono colti nell’ideale sforzo di sollevarsi, di cercare ancora - oltre quel cielo di cartone - il barlume della speranza. In un'altra opera, dal titolo Interruzione, il cielo non c’è. Esiste solo l’orsetto abbandonato tra giochi immoti che non possono più divertire. È colpito al cuore e l’unico cielo rimasto è quello stampato sul volto. Lo sguardo fisso nel vuoto denuncia un gioco interrotto che non sarà mai più ripreso.
Nella prima opera di Bak, sul cavalletto - dietro all’orso più grande, ancora sorridente, al quale si appoggia un orsetto più piccolo in cerca di protezione - si distingue il profilo di una chiesa. Non pare una Chiesa capace di dare speranza, il suo colore è lo stesso degli orsacchiotti. Sale dal nulla, quasi a volere ostinatamente sperare in quel Cielo, rimando a un Dio rimasto apparentemente muto di fronte a tanta violenza.

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Anche noi durante l’estate, nei giorni di vacanza abbiamo la possibilità di contemplare quel cielo. Molti di noi giacciono sdraiati su una sabbia o un prato simile a quelli dipinti da Bak: come non pensare a quei 44 milioni di bambini che non vedranno mai il cielo? Bimbi che non hanno potuto nemmeno, similmente a Samuel Bak, stringere il braccio della madre per trovarvi rifugio? La madre, per loro, fu luogo di vita e di morte. Forse la riflessione parrà di cattivo gusto, messa lì bell’apposta per rovinare le vacanze. Ma queste ultime, per i più attenti, sono già state rovinate il 16 luglio scorso quando è esplosa la notizia del mercanteggio di feti. Estratti con cura (morti) dal grembo della madre, i feti sono smembrati e gli organi venduti. Tanta gratitudine allora a Samuel Bak che ci ricorda di tenere gli occhi aperti, molto bene aperti, perché, con il nostro tacito consenso, Auschwitz continua e le vittime non sono solo ebrei.

Immagini
Samuel Bak, Il cielo era il limite, olio su tela, 2001 cm. 36 x 36 " Collezione Privata
Samuel Bak Interruzione, olio si tela, cm 24 x 20 Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 6 agosto 2015

Trasfigurati con Lui in una mandorla di luce

Non è un uovo quello che incornicia il Cristo trasfigurato del Beato Angelico, ma una mandorla di luce. Chi non ha avuto occasione di notare opere in cui Dio Padre, o Cristo, o la Madonna stanno dentro una mandorla? O ancora: chi, sposandosi, non ha regalato confetti alla mandorla? La forma della mandorla, prodotta dall'intersezione di due curve dello stesso diametro, rappresenta l'unione tra cielo e terra, fra spirito e materia. Essa rimanda anche alla forma del pesce e di tutti gli orifizi umani: occhi, bocca ma anche alla vescica, non a caso il nome tecnico assegnatole nell'arte è vesica piscis. In tal senso la mandorla è rimando alla vita e alla fecondità femminile; per questo, nei matrimoni, invalse l'uso di regalare dolci a base di mandorle ricoperte di zucchero bianco, simbolo della verginità della sposa destinata a diventare feconda grazie alle nozze.

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Nel Convento di san Marco in Firenze, per accedere alla cella n° 6 si passa di fronte alla Madonna, detta delle ombre, dove la Vergine seduta in trono indica il Cristo Bambino benedicente con il mondo in mano. L'antico monaco che, lasciando la luce dell'abito del divino Infante, entrava nella cella n°6, contemplava un altro abito candido, quello del Cristo trasfigurato che, pur nel fulgore della luce da risorto, apriva le braccia in croce. Solo il beato Angelico ha saputo fondere così sapientemente l'evento della trasfigurazione con la crocifissione, insegnando ai monaci che le sofferenze, se sopportate con Cristo, portano a una vita nuova e a una gloria duratura, come gloriosa appare la mandorla che avvolge il Cristo trasfigurato.
La mandorla, come la noce, per il suo guscio di legno che cela una polpa candida e per il suo sapore, che nella dolcezza del frutto conserva un gusto amarognolo, evoca il legno della croce che ci ha dato il frutto buono della risurrezione. E noi siamo lì, idealmente rappresentati dai tre discepoli che nella postura raccontano il loro destino. Pietro, a destra, in ginocchio a mani levate, rappresenta quanti, pur scelti per un ministero, fanno esperienza della loro fragilità. Giacomo di spalle, mentre si fa scudo con la mano per proteggersi dal bagliore del Cristo, è vicinissimo ai piedi del Maestro: egli indica quanti in una vita breve e sofferta seguono da vicino le orme di Gesù. Giovanni disegna il profilo degli assetati di verità: è l'unico che guarda il Mistero e tende le mani verso di esso quasi volesse abbeverarsi alla sua luce. Se rompere la mandorla porta al frutto, andare oltre la croce porta l'uomo al compimento di un destino buono che proprio la sofferenza rivela.


da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 30 luglio 2015

Le nostre vanità come bolle di sapone al vento

Una mistica, poco conosciuta ma di grande spessore umano e religioso, vissuta al tempo di san Giovanni Bosco e fondatrice delle Adoratrici Perpetue di Monza, Madre Serafina della Croce, un giorno ebbe una singolare visione. Mentre era in estasi, sotto lo sguardo delle consorelle che tutto annotarono diligentemente, madre Serafina prese a fare delle bolle di sapone protestando a Gesù, e a chi l’ascoltava, che tale è il nostro amore e la nostra fedeltà verso Dio e gli uomini. Certo Madre Serafina, che come Caterina da Siena era analfabeta, non poteva sapere quanto fosse in auge la bolla di sapone nell’arte. Innumerevoli opere la ritraggono suggerendo spesso significati reconditi e legati al tema della vanitas. Sì, vanità delle vanità, tutto è vanità. Tali soggetti, spesso non religiosi, mettono in guardia l’uomo dal promettersi troppo repentinamente a una vita senza valori né spessore.

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Lo fa, ad esempio, il pittore francese Charles Joshua Chaplin, maestro della più celebre Mary Cassat, ritraendo una fanciulla seduta, intenta a fare bolle di sapone. La scena evoca quello che accadde nel Convento monzese solo una quindicina d’anni prima del dipinto e, dietro all’apparente ritratto, si celano ulteriori significati. In primo piano sta anzitutto un arcolaio, rimando allusivo alla femminilità, accanto vi troviamo un fuso che, invece, ha un significato negativo, di violazione della femminilità stessa (è spesso attributo delle donne di malaffare). La ragazza, bellissima nel suo candore verginale, è in attesa del ballo che forse la prometterà al principe azzurro, ma ancora indugia nel gioco preferito della sua fanciullezza: le bolle di sapone. Quelle bolle salgono verso l’alto andando a infrangersi davanti all’ombra di una finestra proiettata sul muro, l’ombra di una croce. Il contrasto, tra la rappresentazione pittorica piena di poesia e il significato amaro, è forte: con esso il pittore vuole mettere in guardia i contemporanei di fronte alle allettanti prospettive di piaceri che, se non ben governati, sfociano nella croce. Non faccio fatica a riconoscere in questo ritratto buona parte della nostra patria che ancora si trastulla nella sua antica libertà e nell’ingenua attesa di un Principe azzurro che la tolga dai guai. Invece, come amava ripetere Madre Serafina, che visse nelle turbolenze risorgimentali: chi gioisce è l’amore, ma chi trionfa è la croce. Sì, ciò che ci salva è davvero solo la croce che, nel panorama quotidiano, rimane ahimè solo come un’ombra o come sfondo alle notizie divulgate dai mass media sui martiri cristiani.

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Un altro artista, Ignaz Stern, di origine austriaca e molto attivo in Italia, dipinse un delicato Cupido che, circondato da rose, soffia acqua saponata dentro una cannuccia, producendo meravigliose bolle trasparenti. Anche qui la dolcezza dell’amorino e la vaporosità dei fiori, s’infrangono di colpo, di fronte alla visione di un teschio sopra il quale Cupido poggia l’avambraccio destro. Il teschio è rimando a quella morte che decreta la fine di tutte le cose, anche le più belle, rendendole appunto vane. Il messaggio allora è chiaro: solo Cristo con la sua croce cambia il volto della morte e, annientandola con la risurrezione, restituisce alla bellezza delle cose terrene il suo carattere sacro e imperituro.

Immagini: Charlie Joshua Chaplin Le bolle di sapone olio su tela 1881 Collezione Privata
Ignaz Stern (detto Ignazio Stella) 1679-1748 Vanitas con Cupido Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 23 luglio 2015

Santa Brigida e la birra, che il brindisi sia spirituale

Erano darwinisti anche gli antichi sumeri, visto che, nell'epopea di Gilgamesh, il mostro scimmiesco Enduki, diventa uomo grazie a un pasto a base di pane e birra. La birra ha, in effetti, una storia gloriosa e non sono rare le leggende e gli episodi che la collegano al divino. A differenza del frumento, simbolo di fertilità, l'orzo è sempre stato direttamente collegato con le realtà divine e spirituali. La birra dunque, alimento dorato, quasi una bevanda degli dei ottenuta dalla fermentazione dei semi d'orzo, ha assunto il ruolo, nell'immaginario dei popoli, di bevanda sacra che apre la mente alle cose divine. Contro la visione di una Chiesa oscurantista e chiusa ai piaceri della tavola s'impone una storia antica che ha fatto della birra una delle bevande più fabbricate nell'Europa cristiana. Nei luoghi dove la vite difficilmente cresce, per climi e altitudini, ecco che la birra occupò un posto d'onore. Non sono pochi i santi e i monaci che si resero famosi grazie al loro rapporto con questa bevanda.

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Mi piace pensare a Santa Brigida, non quella di Svezia patrona d'Europa, ma quella di Kildare, in Irlanda, la quale, come attesta il Breviario di Aberdeen, fece spillare «birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale». Nella nostra Italia, a Trescore, dove il Lotto a servizio dei Suardi affrescò una delle cappelle più simboliche nel panorama cinquecentesco, un affresco raffigura la Santa che compie vari miracoli. In primo piano Santa Brigida benedice dei pani e due barili di acqua che, sotto lo sguardo attonito della fanciulla che li reca, diventano birra. Questo novello miracolo di Cana rimase così impresso nella mente degli Irlandesi che una benedizione, attribuita alla Badessa, recita così:«Vorrei un lago di birra per il Re dei Re. Vorrei che la famiglia celeste fosse qui a berne per l’eternità. Vorrei che ci fosse allegria nel berne. Vorrei anche Gesù qui».
Molti monaci consacrarono la loro vita alla fabbricazione della birra che assunse appunto il ruolo simbolico di bevanda che conduce a pensieri alti, rendendo l'uomo più sensibile al mistero. Dietro alcune nature morte in cui compare la birra, sorte soprattutto in ambito olandese, vi sono insegnamenti di natura morale. In questa natura morta di Jan Jansz van de Velde, ad esempio, un boccale di birra, altissimo, sovrasta su altri elementi estremamente simbolici. Vino, carte e pipa, alludono alla vita consumata dentro vizi e giochi d’azzardo, mentre le lenticchie simboleggiano la fortuna che può arridere a persone che si consegnano a un siffatto modus vivendi. Una corda bruciata, però, accanto alle nocciole, suona come monito, invitando a verificare la fragilità di tali fortune. Le nocciole poi, sono un antico simbolo di saggezza e di preveggenza rispetto alle scelte della vita.

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Quindi il bicchiere di birra che si eleva sopra tutto invita a puntare lo sguardo su valori più alti, a orientare bene le scelte anche nei momenti di svago, senza abbandonarsi a piaceri facili e fallimentari. Volesse il Cielo che anche i nostri contemporanei, in questo tempo vacanziero, voraci consumatori di birra, potessero, attraverso questa bevanda, diventare più spirituali. Sette boccali hanno reso umana la scimmia Enduki, possano altrettanti bicchieri di birra restituire all’uomo postcontemporaneo quell’anima spirituale che sembra aver perduto, donandogli di scorgere nelle cose della terra il legame profondo con il Signore del Cielo.

ImmaginiLorenzo Lotto, Cappella Suardi, 1524, Storie di Santa Brigida. Affresco della parete destra (sud) Trescore Bergamo
Jan Jansz van de Velde III Natura morta con pipa bianca e birra 1653 olio su tela cm 43,3 x 40,5 Ashmolean Museo di Arte e Archeologia Università di Oxford

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

domenica 19 luglio 2015

I nostri peccati e la Madonna lavandaia tra le rocce

La festa della Vergine del Carmelo sigilla idealmente il viaggio del Papa in America Latina. E proprio in America Latina troviamo un dipinto singolare dal titolo la Virgen Lavandera. Il monte Carmelo domina la valle di Iezreel come una promessa d'acqua e di fertilità e l'acqua è l'elemento più comune ai santuari mariani.

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Non sono rare, nell'arte, le Madonne col Bambino incorniciate da un paesaggio rupestre e fertilissimo. Qui, la Sacra famiglia, è colta nel momento della sosta, durante la fuga verso l'Egitto. Il paesaggio è tutt'altro che orientale: sullo sfondo si nota uno sperone roccioso tipico delle montagne andine, ma l'interesse dell'artista è concentrato sul gesto domestico del bucato.
La Madonna, con il cappello a tesa larga e il caratteristico poncho andino, sta lavando i panni. Mentre strofina vigorosamente il sapone sulla biancheria, sorveglia il sonno del Figlio. Anche san Giuseppe è impegnato in tale faccenda quotidiana: ha appeso una camicia bianchissima ad asciugare ed ora, con l'aiuto di un angelo, si appresta a dare alla sposa un mantello rosso. Altri due putti corrono in aiuto alla Sacra Famiglia: uno tiene a bada il piccolo Gesù, il secondo corre a riempire una brocca alla fonte d'acqua. E, fin qui, nulla di strano se non la singolarità del soggetto iconografico; tuttavia, guardando più a fondo, vediamo l'espressione sorpresa del putto che sta contemplando Gesù con un telo candido sul braccio. Il sonno del divino Infante è prefigura di quel sonno mortale che lo coglierà dopo la passione e il putto medita attonito sull'accettazione della morte da parte del Figlio di Dio.
Per una tale morte siamo salvati dalla morte ultima, cosicché il lavaggio che impegna i genitori è quel lavacro di acqua e spirito che dispensa la Chiesa per salvare i suoi membri. Grazie ai meriti di Cristo, e della Madre sua, se anche i nostri peccati fossero rossi come scarlatto (scrisse Isaia) diventeranno bianchi come neve. Non a caso il patriarca regge un drappo rosso mentre steso c'è un indumento candido! Anche il putto in primo piano tiene una brocca rossa e guarda a Cristo, unica fonte di salvezza.

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La Chiesa, come Maria, mediante l'acqua del Battesimo compie nel mondo un'azione salvifica, ma quell'acqua non avrebbe alcun potere se non fosse stata fecondata dal corpo di carne del Verbo, seconda persona della Trinità. Oggi si fa un gran parlare di misericordia, ma forse meno facilmente si ricorda che una tale grazia è frutto di un reale sacrificio e che il lavacro in cui siamo immersi, mediante i sacramenti della Chiesa, è frutto del sangue del Redentore versato sulla croce.

Immagini:
Melchor Perez Holguin 1701-1800 Virgen Lavandera olio su tela 1,2x1,84 m. Museo Nazionale d’Arte (La Paz, Bolivia)
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce 1483-1486, olio su tavola 199×122 cm Musée du Louvre, Parigi

da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

martedì 14 luglio 2015

Religioni in cammino


giovedì 9 luglio 2015

Se oggi manca il desiderio del calice di salvezza

Il Calice dell’Ultima Cena, il leggendario Graal, non raccolse solo il vino dell’Alleanza Nuova, ma anche il Sangue del Redentore versato sulla croce. L’arte non mancò di mettere a fuoco quest’oggetto simbolico consegnandolo nelle mani di Gesù fin dalla più tenera età.

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A Budapest si trova una singolare Madonna del vino di Joos van Cleve, dove la Vergine Madre, offre al piccolo Gesù, un calice di vino. Mentre la Madonna veste abiti sontuosi e invernali il bimbo è interamente nudo, come sarà nudo nell’ora della croce. Anche il movimento dei piedi allude alla sua volontà ferma di salire sulla croce per la nostra salvezza. Il contrasto fra la nudità del Figlio e l’abbigliamento della Madre vuole affermare la dimensione profetica del gesto materno. Gesù sorseggia quel vino senza imbarazzo, serio nello sguardo, esprimendo così la prontezza al sacrificio cui quel vino allude..


Una bella tela della Scuola di Guido Reni ritrae la Sacra Famiglia a tavola.  La scena è tenerissima e del tutto domestica: Gesù siede fra Giuseppe e Maria a una tavola rotonda, rimando alla dimensione eterna di quella mensa. Gesù e la Madonna vestono il medesimo colore rosso perché, come scrisse Tertulliano, Caro Christi, caro Mariae.

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Essi condividono la medesima carne e, sia pure in forma molto diversa, il medesimo sacrificio. La Madonna non è protagonista dello svolgimento di quella scena, anzi osserva compiaciuta ciò che accade. È Giuseppe a prendere l’iniziativa. Dalla bottiglia collocata in primo piano, il padre putativo ha attinto il vino versandolo nella coppa che porge al Figlio. Il divino Infante, avvolto in un largo tovagliolo per non sporcarsi, segno evidente della sua umanità, ha un attimo d’incertezza. Lo sguardo, bellissimo, esprime da un lato la naturale diffidenza dei bambini verso il vino, dall’altra lascia indovinare il rimando simbolico di quella bevanda. Un giorno Cristo, nell’orto, pregherà che passi da lui quel calice; la stessa domanda balena anche ora, nell’inconscio di quel Dio Bambino. Il calice in tutta la Sacra Scrittura è legato al destino, spesso inteso come destino avverso. Il vino invece è associato soprattutto alla gioia e alla festa. Sorte e felicità trovano un prezioso sodalizio nel sangue di Cristo, il quale, mentre è versato sulla croce (compiendo un destino avverso), diventa per tutti calice di salvezza e dunque pegno di un destino felice. In tempi calamitosi come i nostri, il simbolo del Graal fa pensare alla leggenda del Re pescatore. A un re malato e depresso, con il regno semi distrutto per la povertà, si presenta Parsifal che, a differenza di altri che erano transitati dando dotti consigli, senza alcun preambolo chiese: dov’è il Graal? La domanda fu per il re il risorgere di un desiderio. Si alzò dal suo giaciglio e con la sua ripresa anche il regno si risollevò. Forse anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che, come Giuseppe a Gesù, come Parsifal al re, ci rimandi all’urgenza di riappropriarci del nostro destino; al dovere di accettare le sfide della vita e riaccendere così quel desiderio che può condurre noi e altri al conseguimento di un calice di salvezza. 
Immagini:
Joos van Cleve, La Vergine col Bambino che beve vino, olio su tela. 1540 (?) Museo delle Belle Arti, Budapest.
Scuola di Guido Reni, Sacra Famiglia a tavola, olio su tela,  VII sec. Quadreria Arcivescovile. Milano
Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

giovedì 2 luglio 2015

La cintura di Tommaso, amore per la Verità

Gemello, architetto, incredulo, sempre in ritardo. È questo l’identikit dell’apostolo Tommaso, confezionato dalla tradizione attraverso numerosi dettagli desunti dal Vangelo e dagli apocrifi. Tommaso evangelizzò la Siria poi raggiunse l’India dove edificò un palazzo. Si spinse fino in Cina, ma di ritorno in India morì trafitto dalla spada. Tommaso era assente il giorno in cui Gesù entrò nel cenacolo a porte chiuse, ma era assente anche il giorno in cui la Madonna, avvolta già dal sonno della morte, fu assunta in cielo. Quando arrivò trafelato, la Vergine era già ascesa, così lei, per compassione e affetto, lasciò cadere dai suoi fianchi la cintura che l’apostolo trattenne come reliquia. Questo ci narra Andrea di Bartolo, che dipinge solo la tomba di Maria con i due donatori che contemplano la maestosità dell’ascesa della Madonna, scortata da angeli.




Non ci sono gli altri apostoli. Tommaso è solo, quasi a significare la sua lontananza dai dodici, il suo ritardo. La Madonna non lo guarda e rivolge invece gli occhi verso l’alto quasi a educare Tommaso, e anche noi, a cercare sempre, nel giudizio, le verità che vengono da lassù e non dagli uomini.



La cintura che Geremia nasconde marcisce irrimediabilmente e diventa segno di un popolo che ha nascosto la sua identità di fronte al mondo, perdendo la comunione con il suo Dio. Così per san Paolo il credente deve cingersi i fianchi con la verità onde averla vinta contro le insidie del paganesimo. Ha molto da dirci oggi il nostro Tommaso, post contemporaneo ante litteram, che non crede se non vede ed è spesso assente nei momenti del miracolo.



A dispetto di ciò, la cintura che tiene stretta in numerose opere d’arte, rimanda alla sua capacità di fedeltà nelle ore gravi della Chiesa. Jan Joest, nell’altare della chiesa di San Nicola a Kalkar, dipinge la Madonna morente, circondata dagli apostoli. Mattia tiene per un attimo il libro di Giuda Taddeo, che sta in posizione centrale rispetto al letto e ci volta le spalle. Anche Matteo e Giacomo il maggiore tengono stretti i libri della verità, mentre piangono l’ora della morte di Maria. Officia il rito delle esequie Pietro, aiutato da Giovanni, Bartolomeo con l’incenso, e Giacomo il minore. Simone, ai piedi di Maria, è costernato, mentre Filippo si copre gli occhi per non mostrar le lacrime. L’unico che arranca fuori, lontano dalla casa è Tommaso. Lo vediamo grazie alla porta semiaperta da un cane. Non arriverà in tempo ma la sua fedeltà sarà premiata perché un angelo dal cielo gli offre con slancio la cintura di Maria. Come somiglia al nostro tempo questo Tommaso trafelato. Anche noi siamo in ritardo nel difendere le verità della fede, in ritardo a riparare sotto il manto di Maria, in ritardo a piangere per i cristiani che ancora oggi vengono martirizzati, ma possiamo ancora farcela. Possiamo correre anche noi dietro Tommaso e ricevere la grazia di quella cintura, di quell’amore alla verità, capace di vincere le illusorie libertà di questo secolo.

Immagini:
Andrea Di Bartolo. L’assunzione della Vergine con San Tommaso e due donatori (ser Palamede e il figlio Matteo), 1395, olio su tavola Virginia Museum of Fine Arts, Richmond
Jan Joest (attribuito). Morte di Maria, particolare dell’Altare di Sant’Antonio, 1460, olio su tavola, Chiesa di San Nicola Karkal Germania
 
Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

giovedì 25 giugno 2015

Il mulino della vita che macina il grano della verità

Esattamente duecento anni or sono, prima della rovinosa sconfitta di Waterloo (18 giugno 1815), Napoleone aveva organizzato il suo posto di comando in un mulino di Ligny. Posto più simbolico di quello, il grande Bonaparte, non poteva scegliere. Lo documenta con grande efficacia Ernest Crofts, pittore britannico, in una tela esposta nel 1875 alla Royal Accademy of Art di Londra. L’opera suscitò grande ammirazione per la resa dell’ambiguità della situazione del Generale francese.

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Sotto un minaccioso mulino sta, fiero e a cavallo, Napoleone Bonaparte mentre l’esercito si divide fra una colonna di soldati all’attacco e altri, invece, feriti e accasciati sotto il mulino. La battaglia di Ligny del 16 giugno 1815 fu vinta dalle truppe francesi ma rappresentò anche l’inizio della disfatta che si concluse a Waterloo due giorni dopo. Nella tela di Crofts le pale del mulino a vento disegnano, quasi profeticamente, la forma di una grande croce, alla sommità della quale pende un telo, quasi una bandiera bianca logora, presagio dell’imminente sconfitta. Il mulino è simbolicamente il luogo della resa dei conti, dove la vita e il tempo giungono inesorabili a pulire il grano dalla crusca. Le pale, che girano lentamente e muovono gli ingranaggi tutto macinando, sono simbolo del tempo, giudice assoluto della verità. Così anche per il grande e, apparentemente imbattibile, Imperatore giunse l'ora della verità.

Un senso analogo diede al mulino Pieter Bruegel in un'opera tornata recentemente alla ribalta per il film «I colori della passione». Una pianura estesa, del tutto simile a quella di Waterloo, vede truppe dalle giubbe rosse (gli spagnoli) soggiogare un popolo (quello delle Fiandre) fotografato nei momenti più diversi delle sue attività: lavoro, gioco, risse, vessazioni, ruberie. A fatica si scorge, nel più assoluto anonimato, Cristo che porta la croce dietro un carro, dove siedono altri due condannati, i ladroni, uno dei quali accetta di confessarsi. Solo la Madonna, san Giovanni e la Maddalena, in primo piano, indirizzano lo spettatore a una lettura religiosa del dipinto.

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Domina sul panorama un mulino altissimo, più alto anche del palo della tortura, indice di uno sguardo sovrano che giudica la storia. È vero, in quel mulino, come suggerisce il film di Majeswski, c'è Dio, il grande Mugnaio apparentemente lontano dalle vicende umane, anche dalla sorte del Figlio. Ma in realtà, per Bruegel, ivi è nascosta la macina della verità e la farina buona del dono di sé che, alla lunga, vince su tutto. Del grande Impero romano che mise in croce Cristo e perseguitato i cristiani, non c'è più traccia; degli spagnoli che vollero dominare le Fiandre e delle superpotenze di un tempo, compresa quella napoleonica, non c’è più taccia. C’è traccia invece bimillenaria di Cristo e della sua Chiesa, quella vera, che come Maria, Giovanni e la Maddalena rimane in trincea nell'ora della prova. Come si volle di Cristo la morte così si vorrebbe, ancora oggi, della Chiesa la fine. Ma né l'Isis, né la dittatura del pensiero laicista con le loro aberranti idee di uomo, riusciranno a trionfare perché, sopra tutto, e sopra tutti c'è il Mulino della vita che macina solo il grano buono della verità. A dispetto delle mode paganeggianti, vecchie peraltro come il mondo, e dei nuovi seminatori di terrore, c’è la silenziosa semina della Chiesa di Cristo che continua la sua opera.

Immagini
Ernest Crofts Napoleone dirige la battaglia di Ligny dal suo posto di comando nel mulino di Naveau (Ligny)-1785 olio su tela Collezione Privata.
Pieter Bruegel (il Vecchio). Salita al Calvario (1564). Olio su tavola di grande formato(124 x 170) conservato al Kunsthistorische Museum di Vienna.

Fonte: da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

sabato 13 giugno 2015

Il cuore di Gesù, lo sguardo che ci custodisce

Il cuore, nella Scrittura, non è la sede dei sentimenti ma quella dei pensieri più profondi e delle decisioni. Guardare al cuore di Cristo significa essere riportati alle scelte fondamentali dell’esistenza che chiamano a fare verità su noi stessi e sugli altri. Oggi non si parla più dei novissimi, eppure il dramma della morte e della finitudine della vita entra nelle nostre case ogni giorno a motivo dei fatti di cronaca: le calamità naturali, le persecuzioni impetrate contro i cristiani, gli omicidi più assurdi.

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Un tempo, la predicazione e le immagini disseminate nei libri di preghiera o nelle chiese, aiutavano molto a fissare lo sguardo sul proprio cuore e sulle conseguenze ultime delle scelte più segrete. Tra le molte l’iconografia legata al Sacro Cuore, si diffuse soprattutto dopo il 1650, ovvero dopo le apparizioni del Sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque. Eppure da tempo il cuore di Gesù era venerato quale modello delle virtù cristiane. Alonso Cano, pittore e scultore spagnolo, già nel 1636 dipinse una curiosissima immagine del Cuor di Gesù. Il divino infante siede con un abito grigio, frusto, segno di quel lenzuolo che lo avvolse nell’ultima ora e qui tinto nel grigiore della morte. Pare addormentato e a questa interpretazione ci dirige il titolo: Gesù Bambino col cuore infiammato, ferito d’amore, Ego dormio et cor meum vigilat. Sì, io dormo ma il mio cuore veglia: le parole della sposa del Cantico dei Cantici sono poste qui in bocca allo sposo, Cristo che, nel sonno della morte, veglia su tutte le nostre ferite. È evidente, del resto, la ferita del cuore sul quale Gesù siede, indicando così l’abbandono al suo destino in un’offerta senza ripensamento. Gli occhi benché chiusi ci vedono, scrutando le nostre risposte. Il dito mignolo non è nascosto dalla guancia con gli altri e pare già arrosato di quel sangue che avrebbe di lì a poco versato sulla croce. Di fronte a immagini simili Santa Teresa di Lisieux maturò la sua piccola via, educandosi a vivere nella profonda coscienza del proprio limite e nell’infinita confidenza verso la misericordia di Dio. Il manto verde, che Gesù Bambino trattiene con la mano destra, è simbolo di quella vita che, a differenza di noi, egli può dare e riprendere di nuovo. Così il fedele, pregando di fronte a tali immagini, era spinto a guardare le brutture della vita presente con la fiducia di essere custodito dallo sguardo e dall’amore del Salvatore il quale, a dispetto dell’apparente silenzio, continua a vegliare su di noi con la tenerezza di un padre e la forza salvifica del suo Sacrificio.

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Un’altra opera, frutto di un anonimo peruviano del XVII secolo, ci offre l’effige di Gesù Bambino pittore che illustra ai suoi fedeli le verità ultime. Cristo non siede dentro un atelier, ma tra le pareti del suo cuore, modello di verità e di semplicità e dunque modello da imitare per raggiungere la vita eterna. Gesù, mentre regge tavolozza e pennelli, volge lo sguardo verso di noi, provocandoci a una risposta. Il suo corpo sta tra il paradiso e la risurrezione ultima, quella in cui verrà il giudizio (in alto), e morte e inferno (in basso). Scandagliare l’inconscio non è sempre facile e spesso le motivazioni del nostro agire sfuggono a noi stessi. Perciò attorno al cuore di Cristo sono rappresentati alcuni personaggi che offrono gli aiuti necessari per comprendere se stessi, gli altri e affrontare il viaggio della vita. A sinistra troviamo le virtù teologali: la carità chiede un cuore materno verso tutti: il bimbo allattato, figlio naturale, e l’altro bimbo che curiosamente indica la seconda virtù, la speranza. Questa legge il libro della Scrittura certa di trovare in essa il fondamento del suo sperare, ai piedi ha l’àncora della salvezza che impedisce di essere preda dei marosi della vita. In piedi e con lo sguardo rivolto a noi, come Cristo, sta la fede che regge il Santo Sacramento, luogo dove lo sguardo si purifica e ritrova la giusta lettura degli eventi. Gli angeli della tela sono Gabriele, Michele e Raffaele, testimoni dei doni divini: l’annuncio di Cristo (la fede); la vittoria ultima contro il male (la speranza); la cura che Dio ha per noi (la carità). Sigillo della scena è la Trinità: il Padre si sporge a guardare l’opera del Figlio e invia lo Spirito Santo. Così anche noi, oggi, come l’antico fedele di Cuzco, guardando questa immagine impariamo ad affidarci al Divino artista, attingendo ai colori delle virtù cristiane per fare della nostra vita un capolavoro.

Immagini
Alonso Cano, Gesù Bambino col cuore infiammato e ferito d'amore, Ego dormio, et cor meum vigilat, Olio su tavola, 1636-38, Meadows museum of Art, Dallas

Autore anonimo della Scuola di Cuzco, Il Bambino Gesù dipinge, all'interno del suo Cuore, le realtà ultime, olio su tela XVII-XVIII sec., Perù
 
Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 5 giugno 2015

Cristo, il pellicano del deserto e dell'acqua

È diventato celebre a causa di San Tommaso il «pie pellicane», il Cristo pellicano che nutre i suoi piccoli, cantato nell’inno eucaristico Adoro te devote. Il pellicano è, nella storia dell’arte cristiana accanto al pane e al pesce, simbolo eucaristico per eccellenza. Spesso però l’immagine del pellicano compare nelle crocifissioni o con il Cristo sofferente come nell’opera di Lorenzo Monaco. In questo dipinto compaiono tutti i segni principali della passione: lanterna, denari, coltello, bastone, catino per il lavaggio delle mani di Pilato, gallo, flagelli, colonna, lancia, spugna, scala, calice, sepolcro e oli aromatici.

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C’è proprio tutto e i gesti dei persecutori del Cristo sono ritratti senza il corpo, quasi a ricordare, a chi contempla una tale summa di dolori, che noi pure siamo colpevoli di tanta violenza. Il pellicano campeggia alla sommità della croce, tra la luna e il sole, fra il tradimento di Pietro (accanto al sole) e quello di Giuda (accanto alla luna), attestando così che Eucaristia e passione di Cristo sono un'unica realtà. La corona di spine è ormai abbandonata alla sommità della croce e, da quest’ultima, un albero di vita già si erge a testimoniare che il corpo di Cristo, prossimo alla sepoltura, sarà glorificato. Il pellicano si ciba di pesce e, quindi, pesca per i suoi piccoli al largo trattenendo la preda nella sacca inferiore del suo becco. Una volta raggiunto il nido, apre il becco tenendo la punta dello stesso rivolta al suo petto onde facilitare ai piccoli la presa del pesce. In questa delicata operazione spesso, il pellicano si ferisce e rimane con il petto sanguinante. Ciò contribuì a generare l’idea che il volatile nutriva i piccoli con la sua stessa carne similmente a Cristo nell’eucarestia. La solitudine in cui versa il Pio pellicano, tradito da Pietro e da Giuda, è ricondotta alla Scrittura che nel salmo 101 afferma: «Sono simile a un pellicano nel deserto». I padri della Chiesa e Rabano Mauro, riconoscevano due tipi di pellicani: uno, di cui parla il salmo forse il capovaccio, che predilige le zone desertiche, l’altro che vive presso corsi d’acqua. Se il secondo è immagine di Cristo che nutre i suoi, il primo è segno della sua solitudine. Cristo è il solo nato da una Vergine, è solo nell’orto degli ulivi, solo sulla croce.
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Qui i piccoli nutriti sono due, come il comandamento nuovo: amare Dio e il prossimo, ma possono essere tre, oppure quattro, come in una miniatura del XIII secolo, dove il pellicano nutre i suoi piccoli nascosti nel nido. Nel becco dell’uccello, più simile a quello della cicogna che a quello del pellicano, ci sono quattro pani, altro simbolo eucaristico, e l’uccello tiene serrato fra le zampe un serpente che stata tentando un uomo. Quell’uomo è l’umanità insidiata dal serpente antico e distribuita nei quattro angoli della terra, i punti cardinali, come sono appunto, quattro i piccoli del pellicano, come la totalità delle genti che nel costato di Cristo trova dimora e ristoro. Il Pie pellicane ha raggiunto davvero i confini del mondo: la Louisiana, che l’ha scelto come bandiera, è chiamata Pelican State.

Immagini
Lorenzo Monaco, Cristo in pietà e i simboli della Passione, 1404, cm 268 x 172, tempera su tavola, Galleria dell'Accademia, Firenze
Ugo di Fouilloy, Miniatura Francese, Sloane MS 278 Avarium /Dicta Chrysostomi 1260-80 British Library, Londra

da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 29 maggio 2015

La vera femminista cristiana tra il fuso e la spada

Nel 1425 fa aveva 13 anni la celebre Pulzella d’Orleans. Aveva 13 anni e già, nella sua semplicità di contadina, maturò la coscienza di essere votata a una grande missione: salvare la Francia e, per mezzo di essa, la cattolicità in Europa. Giovanna d’Arco è stata tanto celebrata quanto bistrattata dalla pubblica opinione e spesso ridotta al rango di personaggio mitologico frutto della fantasia patriottica francese. In realtà, scandagliandone la vita, emerge a tutto tondo il ritratto di una fanciulla cristiana che, nella consapevolezza della sua fragilità, seppe affidarsi al Signore e compiere grandi cose. Uno dei suoi ritratti più famosi è quello di Eugene Thirion, dove Giovanna, viene distolta dal suo quotidiano a causa di una voce e di una visione.

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Lo sguardo della santa, fisso su di noi, è colto fra il fuso che tiene fra le mani e la spada che le porge San Michele. L’iconografia rimanda alle Annunciazioni apocrife, dove la Madonna è sorpresa dall’angelo mentre fila con il fuso come quella di Waterhouse. L’esterno della casa di Maria è il luogo dell’evento e la Madonna abbandona il fuso, quasi spaventata per l’annuncio di San Gabriele. Il fuso è protagonista, del resto, di molte fiabe (ad esempio quella de: La Bella Addormentata nel bosco), congiunte spesso al candore minacciato dal male.
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Si comprende allora lo spavento di Maria e il rapido portarsi la mano al petto e alla testa: i principali luoghi ove si gioca la vittoria sul male. E se qui è porto alla Vergine il giglio, simbolo della novità dell’Incarnazione, là, in Giovanna d’Arco, è offerta la spada, segno della lotta che il regno di Dio combatte in questo mondo. Fu Gesù stesso ad annunciare tale lotta quando disse: non sono venuto a portare la pace, vi dico, ma la spada. E non è certo un incitamento alla guerra quello di Cristo, pur tuttavia la sua voce, come quella udita dalla Pulzella d’Orleans, ci sveglia da un pacifismo comodo che dimentica la lotta contro il male. Non è un caso se una donna del calibro di Giovanna sorse in Francia durante la guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra! Ancora oggi queste due nazioni sono al centro delle sfide moderne tese a conculcare le radici cristiane dell’Europa; sono al centro della lotta contro l’ideologia gender, con il fenomeno delle Manif pour tu (o delle Sentinelle in piedi); al centro della lotta contro il fondamentalismo islamico, con i giovani mussulmani inglesi che girano con la scritta 2033, promettendo per quella data la vittoria demografica mussulmana. Così Giovanna d’Arco nel ritratto possente di Thirion si sottrae a tutte le polemiche antiagiografiche e ci risveglia con la sua spada alla necessità di una legittima difesa. Una difesa che passa per la via del fuso, simbolo della paziente semplicità e del coraggio che solo le donne, con la loro dedizione educativa verso l’uomo, sanno attuare. Giovanna, dunque, è la vera femminista cristiana che ci restituisce alla difesa contro le imperanti ideologie che violano i diritti cristiani, quali la vita, l’identità di genere e la libertà religiosa.

ImmaginiEugène Romain Thirion, Giovanna d’Arco ascolta la voce di San Michele, 1876, olio su tela, 225 x 163 cm. Chatou, église Notre-Dame.

John William Waterhouse, Annunciazione, olio su tela 1914, olio su tela, 99 x 135 cm, Sotheby 's, Stati Uniti d'America

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 21 maggio 2015

Soavità e forza nei discepoli attorno a Maria

Quando El Greco morì, nel 1614, lasciò nel suo studio figurine modellate in cera che egli adoperava per realizzare gli scenari delle sue opere. Sono, in effetti, vibranti come cera gli apostoli, radunati nel cenacolo della Pentecoste di El Prado (Madrid). Non ci sono finestre e l’oscurità che s’indovina rimanda alla disgregazione e alla paura che i discepoli vissero durante gli eventi dolorosi della morte di Gesù. Tuttavia, con l’avvento dello Spirito, tutto vibra di luce e il gruppo degli apostoli si ricompatta attorno a Maria.

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Sì, il passato è redento, rinnovato, non già grazie agli sforzi personali di ciascuno, bensì grazie all’esistenza nuova in Cristo resa possibile per la discesa soave, eppure forte, dello Spirito Santo. A ben pensarci, soavità e forza sono gli aggettivi più idonei a descrivere questa Chiesa nascente di El Greco. Soavità perché ciascuno, nel gruppo, è attratto dal Mistero ed è in esso che si concepisce come chiamato da Dio per una missione. Forza perché lo sguardo di ciascuno è verso un centro e non verso l’uno o l’altro membro del gruppo. Tutti guardano verso un punto più alto, verso lo Spirito che tutti unisce e tutti affratella. Quanto ci educa questo vibrante gruppo di discepoli! Anche noi avremmo tanto bisogno di uno sguardo che converga verso un centro, verso un punto alto, più in alto! Christian de Chergè, martire a Tibhirine ad opera dei fratelli della montagna, a proposito del fondamentalismo mussulmano affermava che, oltre le categorie dell’odio, più in alto c’è un giardino. Ma questo punto più alto chiede, a noi cristiani, franchezza, parresia, capacità di sperare. Le figure dipinte da El Greco sono quattordici: undici apostoli e tre donne. Quattordici come il valore numerico del nome di Davide. Le promesse fatte a Davide si sono compiute: un popolo nuovo darà lode al Signore. Un popolo che porterà sempre in sé il segno dell’imperfezione umana: undici apostoli e non dodici (numero simbolico della totalità), undici perché quell’uno che manca resta, come ombra, sullo sfondo del Calvario. Tuttavia quest’assenza è colmata da Maria, è lei a completare quell’undici scandaloso, è lei la «matrice» che non vacillerà. El Greco ha sigillato la sua opera con un elemento scenico: vi si appoggia l’apostolo di spalle con la testa rovesciata. È l’inizio del corrimano di una scala il cui termine ideale è Maria. Sì, oltre le nostre paure, oltre le nostre oscurità più in alto c’è un giardino: la Vergine ne è la primizia.


Dunque: se sei sbattuto dalle onde della tribolazione, come disse San Bernardo, guarda la stella, invoca Maria. Ave, gratia plena! Con un tratto più sintetico e fermo l’anonimo artista del Salterio Hunterian (uno dei più grandi tesori della Glasgow University), realizza una miniatura sulla Pentecoste. La Madonna è al centro, anche qui come una colonna, una turris eburnea attorno alla quale i discepoli del Signore si raccolgono

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Lo Spirito irrompe dall’alto in un fiume di fuoco che incendia gli apostoli come selva di ceri. Oltre le pareti del cenacolo, avvolte dall’oro dell’inconoscibile opera di Dio, sta la città: Gerusalemme, la città-teatro della morte del Signore eppure anche la città giardino. Qui, Gerusalemme, in realtà sembra essere edificata sulla volta della sala del Cenacolo. In modo diverso da El Greco, dunque, questo anonimo artista del XII secolo, suggerisce l’immagine di una umanità rinnovata dal fuoco dello Spirito che edifica la città-giardino avendo come colonna portante la Vergine Maria.

Immagini
El Greco, Pentecoste 1597-1600 Olio su tela, cm 275 x 127 Museo del Prado, Madrid
Il Salterio Hunterland, Pentecoste, Miniatura del XII secolo, Folio 15v, Università di Glasgow, Scozia UK

(da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)

giovedì 14 maggio 2015

Il coniglio, simbolo delle due nature di Cristo

La moglie di Tiziano morì di parto nel 1530, mentre l’artista, su richiesta di Federico Gonzaga, s’apprestava a dipingere la Madonna del coniglio. La composizione tradisce lo stato d’animo dell’artista che sembra essere ritratto nel pastore sul lato sinistro del dipinto. Alcuni vedono qui un ritratto di Federigo ma altri, a ragione, ravvisano lo stesso artista che accarezza con lo sguardo perso una pecora nera, simbolo della sua sventura. La Madonna, finemente abbigliata, ha lasciato il divin Figliolo alla dama di compagnia, santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile per la ruota dentata sulla quale si appoggia. Il gesto, apparentemente naturale e legato all’iconografia della Santa che Gesù Bambino degnò delle mistiche nozze, rimanda alla realtà del pittore il quale, a causa della morte della sposa fu costretto a lasciare la neonata Lavinia nelle mani della sorella Orsa.

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La radiografia ha rivelato che in una prima versione la Madonna guardava proprio il pastore, mentre con gesto deciso tratteneva il piccolo coniglio bianco. Il coniglio, il cui pelo muta da marrone in inverno a bianco in estate è, secondo sant’Ambrogio, simbolo delle due nature di Cristo.

Lo attesta un’opera di scuola emiliana di un seguace del Badalocchio (XVII secolo) dove la Madonna e il Bambino sostano in una radura con sant’Anna e san Giovannino. In primo piano due coniglietti fissano la croce con il cartiglio: Ecce Agnus Dei, attributo del Battista. Gesù, invece, sta guardando proprio i due animali quasi presago del loro significato. Accanto a lui, un poco arretrata, Sant’Anna scruta il libro delle Scritture: è Cristo l’Agnello promesso dai profeti. Egli è vero Dio e vero uomo e il supplizio della croce non lo potrà annientare perché la natura divina trionferà trascinando con sé la natura umana nella gloria. I due coniglietti, infatti, sono ritratti proprio nel momento della muta dove uno, più nascosto, ha ancora il pelo marrone, mentre l’altro, decisamente voltato verso la croce, è ormai candido ed è segno della risurrezione futura.
Se per la sua capacità riproduttiva il coniglio indica la lussuria, quando è bianco e associato alla Vergine Maria o a Gesù Bambino, è rimando alla verginità feconda. Il fatto poi che il coniglio nasca a primavera lo ha reso emblema della risurrezione. Così l’opera di Tiziano rivela tutta la sua profondità.

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Da un lato la Vergine Madre, mostrando al Figlio il piccolo coniglio bianco, gli insegna la verità della sua natura divina che lo porterà, con la risurrezione, alla vittoria sul male e sulla morte. Dall’altro, invece, i l pittore ha lasciato in eredità alla figlioletta Lavinia la sua fede nella vita eterna. La Madonna, infatti, rappresenta la moglie dell’artista che attesta alla piccola (nei panni di Gesù) la certezza dell’eternità da lei già raggiunta, ma che sarà meta del loro futuro ricongiungimento. Accanto alla Madonna sta un cesto da cui sbucano una mela e un grappolo d’uva. Il primo frutto è simbolo del peccato originale, il secondo è segno di quel rimedio al peccato che è l’Eucaristia, pane – appunto- per una vita che non muore. Il gruppo siede in luogo ameno carico di fiori, simbolo di quell’Eden la cui memoria vive nel cuore umano come nostalgia, il paesaggio sullo sfondo, invece, con il campanile in controluce rimanda alla sera della vita dove ciascuno sarà chiamato a rendere ragione della sua speranza. Come Caterina alle cui spalle già vede profilarsi i soldati che la manderanno al martirio.

ImmaginiTiziano Vecellio, Madonna del coniglio, 1530 circa, Olio su tela 71×85 cm. Louvre, Parigi
Scuola Emiliana XVII sec (seguace del Badalocchio) olio su tela 39x31 cm. Collezione Privata Bologna

da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

giovedì 7 maggio 2015

L'albero e l'abbraccio generoso della madre

Giovanni Segantini aveva sette anni quando perse la madre, ma ritrovò una sorta di abbraccio materno nelle Alpi e nel loro maestoso dilatarsi verso il cielo. Nel 1894, quando dal cantone Grigioni si trasferì all''Engadina, andando ad abitare a Maloja, l'artista realizzò un dipinto affascinante: un olio su tela dal titolo «L’angelo della vita».

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Nell’opera si rintraccia l’amore per il simbolismo a tratti mistico, anzi religioso, che appassionò l’artista proprio per l’incontro con la terra Engadina. Una betulla allegorica taglia irrimediabilmente a metà la tela e ci introduce nella profondità del quadro obbligandoci ad andare oltre, oltre la sua nodosità, oltre la donna col bambino, per giungere al paesaggio sullo sfondo. Lì vediamo un laghetto alpino, promessa di fecondità e di vita, attorno al quale, però, tutto è brullo; neppure l’albero, da un lato privo di foglie, sembra beneficiare di quelle acque. Segantini racconta la parabola di un'umanità che cerca la salvezza contorcendosi nel cielo chiaro della vita ma, proprio come quest'albero, non si accorge di averla molto vicina a sé, quasi a portata di mano. Le acque argentee del lago si rispecchiano nell’abito di questa madre, il cui incarnato, pieno di luce, rimanda all’innocenza perduta e a una dimensione, come afferma il titolo, angelica. È per una siffatta madre che l’albero riacquista la vita, infatti proprio accanto a lei i rami rinverdiscono. La tenerezza con cui il bimbo sta aggrappato al corpo della madre rievoca la fanciullezza di Segantini, cui questo abbraccio materno fu rubato prestissimo. Il dipinto ha un secondo titolo che conferisce all'opera un insospettato spessore religioso: la dea cristiana. Sulle prime pare un titolo irriverente, quasi una presa di distanza dell’autore dalla Vergine Maria, ma dopo una più attenta riflessione s’intravvede la nostalgia dell’artista per una tale Madre. Fin da allora, del resto, la figura della donna-madre, andava mutando rapidamente, entrando in una crisi drammaticamente registrata anche oggi. Non a caso il secolo in cui visse Segantini (tra 1850 e il 1950) vide prender corpo, in America e in Europa, la festa della Madre. Altre opere dell’artista sul tema offriranno uno spaccato profetico della crisi femminile che andava diffondendosi. Nella tela «Le cattive Madri», ad esempio, l’albero, benché ancora protagonista della scena, non è centrale ma collocato sul lato destro della tela quasi a sbarrare ogni possibile passaggio. Il paesaggio alpino è lontano dalla primavera del quadro precedente ed è anonimo e nevoso, simbolo di una morte che tutto abbraccia. Sullo sfondo quasi confuse nel paesaggio vi sono madri che danzano nella neve con i loro piccoli, mentre una, con i capelli impigliati fra i rami, rifiuta il suo nascituro ancora legato al cordone ombelicale ma, gettato nel ghiaccio. 

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In primo piano un’altra cattiva madre è totalmente abbandonata all'albero e segue l'inclinazione dei suoi rami. È dunque la donna che segue le sue inclinazioni e rimane così impigliata nelle logiche della morte. I capelli e l’abito di questa madre sono un tutt'uno con l'albero. Tiene, è vero, avvinto a sé un bimbo, ma non lo abbraccia, anzi lo costringe a procurarsi da se medesimo il latte che lei stessa dovrebbe dispensargli con amore. Fa riflettere come un artista qual è Segantini, in fondo non dichiaratamente religioso, sia giunto attraverso la sua esperienza personale a un’indagine così acuta e vera sulla maternità. Egli aiuta anche noi comprendere che solo attraverso la certezza di essere stati generati alla vita da un abbraccio simile a quello di Maria: materno, generoso e gratuito, è possibile ritrovare la strada dell’equilibrio, della giovinezza del cuore e della speranza.

Immagini:
Giovanni Segantini. L'angelo della vita, 1894, olio su tela, cm. 276 x 212 Galleria d'Arte Moderna, Milano.

Giovanni Segantini Le cattive madri" 1894, olio su tela, 105 x 200 cm, Vienna, Kunsthistoriches Museum)
 
da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 1 maggio 2015

San Giuseppe tra la Scrittura e la vera vigna

Ha il cappello da lavoratore san Giuseppe in questa Sacra Famiglia a firma di Joos van Cleve, pittore olandese attivo ad Aversa nei primi decenni del 1500. Ha il cappello di paglia da lavoratore e legge attentamente un libro inforcando un paio di occhiali. L’attitudine è del dotto conoscitore delle Scritture che lasciandosi alle spalle lavoro e fattoria, contempla Maria mentre allatta Gesù.

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Non vediamo ciò che legge Giuseppe ma certo egli viene istruito dalle Scritture circa il Mistero o della sua Vergine Sposa e del Figlio Gesù. Attorno al Cristo e alla Vergine Madre si dispiegano simboli che rivelano la natura e il destino di quel Bambino. Sul davanzale dov’egli poggia i piedi v’è un vaso di vino. Né una bottiglia né un calice, bensì un vaso: quello che compare spesso in mano agli angeli o alla Maddalena sotto la croce, destinato a raccogliere il sangue di Cristo. Capiamo che quel Bimbo è la vera vite che dispenserà il vero sangue dell’uva, cioè il suo sangue, bevanda di salvezza eterna. Sarà il suo sacrificio a riaprire il Paradiso la cui chiusura era stata provocata dal peccato. Dall’altro lato del davanzale vediamo, infatti, un’arancia tagliata con uno spicchio proprio davanti a Cristo. L’arancia, tonda e dorata, è il frutto proibito mangiato dai progenitori che ha provocato nel mondo morte e dolore. Quel coltello che un tempo ha ferito l’albero della vita ora ferirà Cristo, il nuovo Adamo, dal quale però sgorgherà una fonte di salvezza. Gesù non pare consapevole del destino di croce che lo attende, ci guarda gioioso, aggrappandosi al seno purissimo della Vergine Madre. Il gesto, comune ai piccoli poppanti, nasconde un grande insegnamento. Il Messia si ciberà di latte e miele fino a che non apprenderà la durezza della vita. Ora, egli, Immacolato, riceve latte da una Donna Immacolata: Maria che per la sua innocenza, contribuisce al successo della Redenzione. Ella è presaga del dolore del Figlio, infatti abbassa gli occhi ammirando quasi distrattamente un piccolo fiore di aquilegia. Piantine di aquilegia sono dipinte anche sul telo che sta dietro il trono della Madre. L’aquilegia, con la gamma dei colori che vanno dal rosso cupo al violaceo e pendendo dai rami come gocce di dolore, evoca la passione e il sangue che versò Cristo sulla croce. Il Cuore verginale di Maria intende e prevede ciò che Giuseppe legge nelle Scritture. San Giuseppe veste come il monaco contadino, il quale nella pausa di mezzogiorno, lasciava temporaneamente il lavoro per dedicarsi alla preghiera. Il suo aspetto monastico dunque assicura al fedele la sua verginità e lo rende totalmente partecipe dell’opera di Redenzione che Cristo è venuto a compiere.

In un’altra opera van Cleve, lo veste addirittura da monaco e gli pone in mano un Cartiglio sul quale si leggono le prime battute del Magnificat, la preghiera serale che apre al giorno seguente.  Davanti a Gesù scorgiamo il vaso con il vino, ancora egli ha davanti a sé, questa volta in mano, un’arancia. Il davanzale tuttavia è arricchito di molti altri frutti: un grappolo d’uva, una pera, un melograno e alcune ciliegie.

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Questi frutti simbolici sono un riferimento all’Incarnazione e alla Passione. La pera e la melagrana sono simbolo della fertilità verginale della Madonna, mentre le ciliegie e l’uva sono un rimando alla croce e al sangue versato dal Redentore.
Il coltello, che anche qui troviamo appoggiato sul davanzale, questa volta è rivolto verso di noi e sta tra una noce e una castagna. La noce, con i suoi tre elementi il guscio, il mallo e il gheriglio, indica la croce (il guscio), che attraverso la carne di Gesù (il mallo), rivela la sua divinità (il gheriglio). La castagna, invece, in latino castanea, è rimando alla castità e alla continenza, virtù che ebbero Giuseppe e Maria e per mezzo delle quali Cristo ha rinnovato il mondo invecchiato nella concupiscenza.
Pertanto, il coltello rivolto a noi, ci sprona a tagliare con le concupiscenze innaturali al fine di affrettare il compiersi del disegno salvifico sul mondo. Ciascuno di noi ha da cantare il proprio Magnificat, come Maria e Giuseppe che con il loro sì, affrettarono l’opera di Redenzione del Cristo.
 
 
Immagini:
Joos van Cleve La Sacra Famiglia c. 1515 olio su panello, 53 x 40 cm Akademie der bildenden Künste, Vienna
Joos van Cleve La Sacra Famiglia c. 1512-13 olio su legno, 42,5 x 31,8 cm The Friedsam Collection, New York
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 23 aprile 2015

Il Cristo alla porta che ci invita ad essere liberi

«Io sono la Porta». È il primo annuncio del buon Pastore. Egli è pastore porta e ovile. La porta è, da sempre, elemento importante nell'architettura: città, chiese e case trovano nella porta il loro biglietto da visita, il segno di un’identità. Non è frequente, nell'arte, l'immagine di Cristo pastore che sta alla porta e bussa. Eppure c'è. C'è nell'iconodulia, c'è nelle sacre immagini di un tempo, quelle da conservare nei libri di preghiera, ormai scomparsi dall'uso quotidiano. C'è in William Hunt che nel suo «Cristo luce del mondo» dipinge un re Pastore che va girando con un lume, in attesa che qualcuno gli apra.

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Dietro le sue spalle si vedono alberi nudi, avvolti in un inverno senza rimedio, ma là dove egli passa, gli alberi rinverdiscono e la vita fiorisce. Lo dimostra l'edera, simbolo di fedeltà e di eternità, che s'inerpica lungo la porta, proprio davanti a Gesù, lo dimostra il finocchietto selvatico che annuncia l'inganno in cui è stato tratto il diavolo. Come i dolci al finocchietto erano serviti per cambiare il sapore del vino meno buono e ingannare il cliente, così l'umanità del Signore ha ingannato il serpente antico. Questi ha addentato la preda per ucciderla, ma poiché Cristo è vita, è la vita non può morire, ecco che la morte (il serpente antico, il diavolo) è rimasta uccisa. Cristo guarda pensoso, mentre bussa, quasi presentendo che nessuno avrebbe aperto, che il suo richiamo sarebbe rimasto inascoltato. La porta dove bussa, infatti, non ha maniglia esterna, si apre solo da dentro.

L'immagine più potente del Cristo alla porta, però, l'ha dipinta Antonio Martinotti, artista italiano scomparso nel 1999. Non ci è dato di vedere nulla del corpo del Salvatore, se non il volto e la mano dietro a un'impressionate scorcio di porta. Anche questa non ha maniglia, la mano del Cristo è allo spiraglio, come canta il Cantico dei cantici, e apre il suo Mistero al nostro mondo, bruno di terra, come la porta che ci divide. Sopra le nostre oscurità si è aperto uno spiraglio di luce, schegge d’oro ci investono: il Signore ha bussato. Chi gli ha aperto? Qualcuno ha aperto. E dietro l'apertura di quell’uno, ora anche i nostri occhi vedono lo sguardo del Redentore così carico di dolente attesa e di domanda: «Quando tornerò sulla terra, troverò la fede?» Lo sguardo del Cristo tradisce ciò che lo stesso artista aveva visto negli orrori della guerra, nell'esperienza del Lager. Che cosa vedrebbe ora il Pastore se tornasse fra le sue pecore? Fa male quello sguardo. Tutta la luce del quadro è lì, negli occhi mesti e profondi di Gesù.

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È una luce che non ammette ombre, che conosce, che ama e penetra nell’anima, rivelando quanto il nostro cuore sia lontano da quello sguardo. Gli infiniti lager dell’umanità ci danno fastidio, ci danno fastidio le persecuzioni, le eroiche affermazioni d’essere cristiani. Sono scomode, come lo sguardo del Cristo. Esse non accusano, anzi sono il belato di un agnello inerme, eppure risuonano in noi come una trafittura potente. E abbiamo l’impressione che quella porta debba restare così, socchiusa all’infinito, fino a che la nostra libertà non la spalanchi e si lasci abbracciare dal Redentore. Sopra il capo del Cristo c’è un triangolo blu turchino. È il Cielo abbracciato dai martiri, dai confessori della fede, è un Cielo che s’apre anche per noi, bruni di terra, che dietro la porta mendichiamo la bellezza di uno sguardo così.

Immagini
William Holman Hunt, La luce del mondo, 1853-1854, olio su tela, 125×60 cm, Keble College, Oxford
Antonio Martinotti (Pavia 1908 - Milano 1999) Cristo alla porta, 1953, olio su tela, Collezione Privata, Monza.

da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 16 aprile 2015

La pernice a Emmaus e le nostre preoccupazioni

Una strana cena di Emmaus quella di Vittore Carpaccio. Non ci sono solo Cleopa e l'amico in fuga da Gerusalemme, ma si notano altri due figuri. L'opera fu attribuita al Bellini ma dopo il recente restauro, dove è emersa la data 1513, si attribuisce al Carpaccio. Il committente fu Girolamo Priuli un noto banchiere veneziano, ritratto, forse, alla destra del Cristo. Sul lato opposto, invece, siede un orientale con l'inconfondibile turbante. Benché enigmatico il simbolismo del dipinto è evidente. Cleopa si porta la mano al petto conquistato dal Mistero, è l’unico a vestire come Cristo. L’anonimo amico invece, veste da pellegrino, con tanto di ghette e di schiavina, tunica lunga con spacco per facilitare il cammino, porta anche pantaloni, indumento obbligatorio per i monaci.

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Costui è l’uomo di fede, in cammino, nel quale tutti ci possiamo identificare. Nessuno guarda Cristo e solo Cristo guarda noi. Spezzando il pane, con tre pesci davanti a sé, il Salvatore chiede conto del nostro comportamento rispetto alla fede e alla vita: pani e pesci, infatti, cibo quaresimale, invitano alla sobrietà, mentre la mano benedicente sul pane, è rimando all’Eucaristia. I pellegrini mangiano pollame e sono invece a digiuno i due ospiti illustri. Il banchiere trattiene con una certa supponenza la veste, rendendo evidente la mano inanellata. La pernice in primo piano sembra monito per lui: se da un lato il volatile è simbolo di fedeltà per l’abitudine a seguire il compagno, dall'altro, rubando spesso uova da altri nidi e covando prole che, una volta adulta fuggirà associandosi alla propria specie, è segno di chi si appropria indebitamente di ricchezze altrui. Il banchiere è dunque invitato ad amministrare con lealtà i beni che gli sono affidati.
L'orientale rappresenta l'umanità lontana dai Sacramenti. Il Carpaccio aveva assegnato fogge orientali anche agli ebrei nel ciclo dedicato a Santo Stefano; un ghetto, del resto, sarà aperto a Venezia nel 1516, a causa dei dissidi con i cristiani. L'impero ottomano poi continuava a rappresentare una minaccia per la Serenissima e dunque, in quest’uomo scalzo e sorprendentemente rilassato, possiamo individuare quanti attendono con sufficienza l'ora propizia per ferire. L’anforisco in primo (vaso funerario), rappresenta una sorta di memento mori, tanto per il turco che per noi. Il Carpaccio ci aiuta a riflettere sul viaggio della fede lungo i secoli e le continue minacce mussulmane e non. Cristo ci guarda rilanciando a noi la domanda: non siamo forse più preoccupati dei crack finanziari che della difesa della nostra identità cristiana?

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Carpaccio non fu il primo, del resto, a realizzare simili Cene in Emmaus. Un impianto scenico analogo, infatti, lo aveva già realizzato Marco Marziale, sempre a Venezia nel 1505. Qui i due invitati fuori programma rimandano alle conquiste del nuovo mondo e a quella parte di umanità che ancora non conosceva il Vangelo. Ai lati del Cristo, oltre allo schiavo di colore, abbiamo un devoto mercante, forse proprietario dello schiavo, che attesta la sua fede nel Mistero togliendosi il copricapo.
Se i due discepoli di Emmaus questa volta hanno entrambi abiti tipici dei romei e quindi esprimono la fede certa di quanti intraprendevano pellegrinaggi verso i luoghi santi mettendo spesso a rischio la vita, i due anonimi personaggi sullo sfondo hanno il compito di attualizzare la scena. È commovente lo sguardo dello schiavo, non al Cristo, ma al suo padrone che con il gesto umile di togliersi il berretto insegna la fede. Il Cristo, che anche qui ci guarda, interroga noi. Non le grandi gesta (quindi non solo pellegrinaggi e crociate), ma i gesti semplici vissuti nella fedeltà e nella verità possono, spesso, in-segnare la fede e cambiare il corso della storia.

ImmaginI Vittore Carpaccio, Cena in Emmaus, 1513,  dipinto su tavola, 260 x 375 cm, Chiesa di San Salvador, Venezia
Marco Marziale, Cena in Emmaus, 1506, dipinto su tavola, 122 x 141 cm, Gallerie dell'Accademia, Venezia 

da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 9 aprile 2015

Le api in primavera, simbolo di resurrezione

Un tempo davvero strano quello in cui questo imitatore di Mantegna (per alcuni il Mantegna stesso) colloca l’incontro fra il Risorto e la Maddalena. Un cielo terso primaverile, un alveare che pullula di api bottinatrici come se ne vedono a maggio e ancora, sopra il capo di Cristo, grappoli d’uva già matura, come a settembre. Il Risorto inaugura un tempo che durerà fino alla parusia e abbraccia tutte le stagioni.

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Sopra la roccia sepolcrale c’è anche un albero secco, segno di quell’inverno di morte che Cristo ha sconfitto con la sua risurrezione. Né la Maddalena, né il Signore Gesù sembrano preoccupati dello sciame d’api che li circonda, anzi esse sono la principale significazione dell’accaduto.  Fin dall’antichità le api erano tenute in gran conto: per Plinio il vecchio, uscendo dall’alveare a primavera, esse sono segno della risurrezione; anche Cristo è uscito dal Sepolcro a primavera dopo aver attraversato l’inverno della morte. Per il Phisiologus le api, che per difendere il miele sacrificano il loro pungiglione e muoiono, sono segno del Cristo Cristo il quale, per darci il suo miele (l’Eucaristia), si è sacrificato per noi. Le api poi sono vergini tutta la vita proprio come Cristo e la sua beata Madre, vivono laboriosamente e proteggono eroicamente l’alveare e la loro regina (o il loro re, cioè Cristo, come interpretavano i Medievali). Abbiamo molto da imparare da questi simboli nascosti nell’arte. Abbiamo da imparare a difendere un po’ più gelosamente il nostro Re, la nostra cultura cristiana, la nostra fede. Abbiamo a difendere un po’ di più l’alveare della Chiesa, che, pur producendo da secoli “miele” di civiltà, oggi (con molti luoghi comuni senza alcuna fondatezza storica, ma pieni zeppi di bugie riprodotte, in un isterico copia incolla, su molti “autorevoli” libri di storia) si vuole conculcare o misconoscere. La Maddalena nella venerazione del suo re si è persino scordata il vasetto di nardo.

 

È rimasta lì a mani aperte a indicare a tutti la via della salvezza. Il Mantegna, questa volta lui sicuramente, dipinge due arnie, simili a questa, nella predella della Pala di San Zeno proprio dietro al Cristo in agonia nell’orto.

 

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Le ha dipinte come torri minacciose che si levano contro la turba capitanata da Giuda che sopraggiunge da Gerusalemme per catturare il Maestro. Non ci sono ancora le api, perché il momento è segnato dall’inverno dell’agonia, presto però verrà la primavera della risurrezione e le api usciranno. Tuttavia anche qui, nel Getsemani, ci sono frutti e fiori e la vite è nel pieno del suo rigoglio, per significare agli sfiduciati che l’inverno mortifero non è l’ultima parola sull’uomo. La minaccia certo è in agguato: nel Noli me tangere dell’artista Anonimo là, in cima alla vite, c’è una vipera che attenta con il suo veleno un nido pieno di uova. La minaccia è in agguato ma Cristo, giardiniere del mondo, è vigilante. Egli ama la sua piantagione e la fa fruttificare.

ImmaginiNoli me tangere Anonimo (Andrea Mantegna?) 1475-1500  olio su legno 43.9 x 32 cm Londra National Gallery.
Andrea Orazione nell'orto, 70 x 92 cm, Mantegna particolare della Predella Pala di San Zeno, Tours, Musée des Beaux-Arts.

 

Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 4 aprile 2015

Golgota e Santo Sepolcro


venerdì 3 aprile 2015

Via dolorosa






Litostroto


Gallicantu


giovedì 2 aprile 2015

Getsemani


La tavola rotonda banchetto dell'umanità

Siamo nella sala del Cenacolo, vertiginosamente condotti in alto da questo anonimo bavarese che nel 1430 illustra l’ultima cena. Si tratta di una pagina della bibbia miniata di Otthaynrih, considerata la prima edizione tedesca di questo genere, che mostra, come vuole la tradizione orientale, una tavola rotonda. Ogni gerarchia è eliminata ma anche ogni rivendicazione di fedeltà. A questa tavola, ahimè, siede l’umanità che tradisce. Solo Giovanni si sottrae alla logica del cerchio, volgendosi di scatto e nascondendo il capo nel petto del Redentore. Anche Giuda non è immediatamente visibile. Sì, sono tutti traditori eppure sono anche tutti santi, nessuno manca dell’aureola, neppure Giuda.

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Quest’ultimo siede proprio alla destra di Cristo e lo riconosciamo solo perché la sua aureola è interrotta, brilla sull’abito, ma non sul capo. Giuda è un chiamato, ma liberamente si è sottratto all’elezione. Un altro segno di riconoscimento per l’Iscariota è il gesto di mettere la mano nel piatto di Gesù. La miniatura, infatti, illustra il vangelo di Matteo. Nei sinottici Gesù indica il traditore come Colui che intinge la mano nel piatto, mentre in Giovanni Gesù stesso gli porge il boccone sacrilego. Lo sguardo dell’anonimo bavarese è pieno di misericordia per quest’umanità inconsapevole della gravità dell’ora. Giuda non si trova confinato in un angolo, è lì, in mezzo a tutti. Tutti mangiano un cibo che sarà farmaco d’immortalità. Al centro della tavola, sorprende come accanto all’agnello ci siano quattro uova, altre sono nel piatto di quattro apostoli, tra i quali Giuda. Le uova, alimento prescritto dalla Pasqua ebraica, sono un simbolo di rinascita e di risurrezione. Qui sono otto, segno di quella vita assolutamente nuova che Cristo è venuto a portare. Anche il pane è a forma di mandorla, altro simbolo di vita. Sul pavimento e sulla tovaglia ci sono losanghe segni di quella rete di morte che si abbatterà sopra il Salvatore. La tavola rotonda, diventata famosa per i cercatori del Santo Graal, è dunque il segno di quella mensa celeste dove Cristo passerà a servirci. A un tale banchetto si accede solo mettendosi in gioco. L’ombra del tradimento avvolge tutti, ma soccombe chi si ciba in modo indegno. Nel recente dibattito su chi ammettere all’Eucaristia forse non si è tenuto conto di un fattore fondamentale: ricevere la comunione significa condividere il sacrificio di Cristo per l’umanità, offrire se stessi per la salvezza del mondo. Dunque non un privilegio, ma la partecipazione a un parto che le uova e il pane a forma di mandorla del miniaturista bavarese annunciano.

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Una ultima cena dalla tavola rotonda si trova anche nel Retablo de la Virgen a Sijena in Spagna ad opera di Jaume Serra (realizzato tra il 1367 e il 1381). Gli apostoli stanno consumando il pane già spezzato e Giuda, questa volta dall’altra parte del tavolo rispetto a Cristo sta mettendo la mano nel piatto centrale dove campeggia l’agnello. Qui non ci sono uova, ma l’eternità del banchetto è simboleggiata dal calice e dall’ostia che Cristo benedicente regge nella mano sinistra. Giovani è tra Gesù e l’agnello sacrificale e ancora una volta con la sua postura si sottrae alla dinamica del gruppo che sembra invece attraversata da un brivido di ansietà. Giuda è la figura più inquietante: consigliato dallo stesso Satana, stende la mano nel piatto mentre l’agnello sembra in procinto di addentarla. Nel piatto, attorno all’Agnello, ci sono otto croci simbolo dell’ottavo giorno, quello della risurrezione, inaugurato da questa mensa. Anche qui il significato permane, Giuda pur chiamato a quel banchetto vi si accosta senza accoglierne liberamente tutte le implicazioni. Se anche gli altri apostoli non saranno da meno in quanto a paura e tradimento, sono però certamente più abbandonati a quel mistero di sacrificio e grazia cui l’ultima cena di Gesù allude. L’abbandono totale lo denuncia solo l’apostolo Giovanni proprio in quell’umanissimo gesto di dormire tranquillo sotto il volere di Cristo al punto da scompigliare tutta la tovaglia.

Immagini
Maestro Anonimo Ultima Cena (pag 40) 1430, Pagina miniata della Otthereinrich-Bibel Bayerische Staatsbibliothek

Jaume Serra 1367 – 1381 Tempera su tavola 346,3 x 321 cm Museo Nazionale di Arte di Catalogna, Barcellona Spagna.

Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza



mercoledì 1 aprile 2015

Cenacolo

domenica 29 marzo 2015

L’inferno bianco di Chagall



Il pittore russo Marc Chagall (1887-1985) riflette sulla Bibbia e in modo particolare su Cristo crocifisso, di cui fa la cifra della propria esperienza artistica, denunciando le persecuzioni, i pogrom (distruzione dei villaggi ebrei dell’Europa centro-orientale) e le deportazioni di cui è vittima il popolo ebraico. Cristo è il simbolo del dolore di Israele, di un dramma vissuto tra le macerie, causate dalla follia devastatrice dell’uomo e dalla sua violenza, simbolo della tragedia del mondo, di coloro che subiscono oltraggi, violenze, carcere, morte…
La Crocifissione bianca è uno dei suoi vertici pittorici. L’artista, attraverso riferimenti culturali e simbolici, elaborati a partire dalla sua infanzia vissuta a Vitebsk, in una comunità chassidica, vi esprime le sofferenze del popolo ebraico in un momento che precede di soli pochi mesi la Shoah. Il contrasto tra colori giallo-rossastri, con tonalità bianco-grigiastre, crea uno stridore spettrale, un intenso senso di tragedia. Un grande crocifisso bianco, inchiodato a una gigantesca croce a forma di Tau, campeggia al centro della tela. Cristo appare addormentato sulla croce, il suo volto è reclinato, con gli occhi socchiusi. L’iscrizione I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) compare dietro il suo capo, avvolto da un nimbo bianco: una prima volta scritta in rosso, color sangue, in lettere gotiche, che ricordano i pamphlet antisemiti dei nazisti, una seconda volta in esteso, in lingua ebraica. Un intenso fascio di luce bianca, da cui emerge il corpo del crocifisso, sembra come avvolgerlo e sostenerlo. Cristo, cinto dallo scialle rituale della preghiera, il tallit, porta sul capo un panno, al posto della corona di spine.

Cristo è attorniato da ebrei in fuga, da scene di distruzione, di saccheggi, di disperazione. Chagall mette in scena la violenza nazista, in un crescendo di ferocia inaudita. Tutto parla di morte, di depredazioni, di devastazioni. A destra, le fiamme escono da una sinagoga distrutta. Un uomo in divisa e stivali neri, un nazista, ha appena acceso il fuoco. Sulla strada, un lampadario distrutto a terra e una sedia rovesciata creano ulteriore desolazione e senso di morte. L’arca dell’Alleanza è spezzata, un fumo grigio si solleva da un rotolo della Torah che sta bruciando e i libri di preghiera sono buttati nel fango.

Tutto sembra sprofondare nel caos. Il dipinto è un caos di case capovolte e incendiate, di sedie rovesciate, di tombe profanate. Una donna fugge con il bambino tra le braccia. Un vecchio attraversa le fiamme che si sprigionano dalla Torah, un altro ebreo porta in salvo un rotolo ancora intatto. Un uomo, con una targa bianca appesa al collo, vacilla umiliato. Soldati in preda alla disperazione si sporgono stremati da una barca. Altri chiedono aiuto agitando le mani in alto. Soldati dell’Armata rossa irrompono lontani dalla sinistra del quadro. Come angeli attoniti per lo spettacolo osceno, tre rabbini e una donna sono sospesi sugli incendi.

Sembrano danzare una preghiera nel cielo annerito dal fumo, da nubi che solo il fascio di luce bianca può lacerare. Una danza macabra, che si fa acuto pianto di dolore.

Cristo sembra incarnare nel suo corpo la tragedia che si sta perpetrando, come se con lui fosse inchiodato sulla croce il suo stesso popolo. Il crocifisso diventa simbolo delle atrocità della storia compiute contro di lui. Le punte delle fiamme si sovrappongono al fascio di luce bianca, come se lo violassero, rifrangendosi sul corpo di Cristo. Ai suoi piedi, è posto il candelabro ebraico a sette bracci, la menorah. Una grande scala è appoggiata contro la croce. È forse un invito a scendere dalla croce, per porre fine alla violenza e alla sofferenza?In questa tragedia, Cristo, l’oltraggiato, il perseguitato, l’accusato senza colpa, accende sulla croce una speranza.

È il giusto sofferente che conduce l’uomo all’attesa di una salvezza, attraverso il dolore. Prefigura una rinascita, una riconciliazione, un riscatto. La sua presenza sospende la disperazione. La devastazione provocata da questa apocalisse non può prendere per sempre il sopravvento. L’orrore appare filtrato dallo sguardo di Chagall che, davanti alla tragedia, sembra intonare una preghiera. Se nel mondo ebraico la figura di Cristo è controversa, per Chagall essa è l’archetipo del martire ebreo. Come afferma l’artista stesso: «Non hanno mai capito chi era veramente questo Gesù.

Uno dei nostri rabbini più amorevole che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. È stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi». La bellezza di Dio diventa la testimonianza di chi incarna una speranza contro il massacro di un popolo.

(Fonte: Avvenire)

giovedì 26 marzo 2015

Il gatto di Maria, candido «cacciatore di anime»

La leggenda vuole che la Madonna avesse un gatto, forse soriano, perché nel manto di quest’ultimo vi sono stirature a forma di M, come Maria. Il gatto, del resto, compare in molte opere d’arte a soggetto religioso e con diversi significati. Nel Medioevo il gatto fu spesso cacciato e ucciso perché associato alla malignità e al demoniaco, ma dal XIV secolo, dopo la peste nera diffusa in Europa attraverso le pulci dei topi, il gatto iniziò essere rivalutato. Molte annunciazioni ritraggono l’animale accanto alla Vergine: seduto o acciambellato oppure spaventato e in corsa, come in quella del Lotto a Recanati.

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Qui è evidente il significato negativo. Per il Lotto quel gatto passa come per caso ed è sorpreso, quasi sopraffatto, dalla presenza dell’Angelo. Gli occhi luminosi non sono solo capaci di vedere nel buio, ma vedono anche la presenza del Mistero. L’ombra che si proietta sul pavimento è più scura e quindi, benché piccola rispetto a quella dell’Angelo, minacciosa. Il Lotto non manca di ironia, nel riprodurre il gatto: gli animali vedono spesso meglio degli uomini le cose di Dio. Sorprende per questo lo scatto di Maria che volta alle spalle alla Parola e si volge a noi. Volta le spalle all’ascolto di quella Parola perché ora, grazie a lei, diventa visione. Maria segna il passaggio dal primo a Nuovo testamento. L’espressione del felino è unica: nella sua paura s’intuisce come egli abbia qui la percezione della fine. L’incarnazione è il primo grande colpo dato al Maligno: da qui inizia il suo declino e la sua sconfitta.

Anche Pietro da Cemmo realizza un affresco in cui la Vergine ha appena ricevuto l’annuncio e lo Spirito Santo sta per spiccare il volo per compiere la grande opera dell’Incarnazione. Non a caso lo si vede sopra un alto leggio ove compaiono tre libri. Sono le tre parti della Bibbia ebraica, la Tanach e cioè: la legge, i profeti e gli scritti.

Questa Parola ora si fa’ carne nel grembo di Maria. Bianco è l’abito della Madonna, come lo Spirito Santo, come il letto intonso che sta alle spalle di Maria e, infine, come il gatto che riposa indisturbato sul leggio. Il felino, capace di ingannare il topo e catturarlo velocemente è segno della vigilanza di Maria ed è bianco, appunto, come la grazia di cui ella è ricolma che la protegge dal peccato.

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In tal senso il gatto è anche immagine di Gesù, cacciatore di anime.

Talora, come in un altro affresco di Pietro da Cemmo a Esino, il gatto è nero, ma senza alcun riferimento superstizioso, anzi veglia sugli zoccoli, che la Vergine ha tolto da poco, simbolo della sacralità del luogo e dell’evento. Se nell’affresco di Esino la pienezza del tempo è resa mediante una clessidra che sta per esaurire la sabbia, qui a Bagolino è significata da una candela che poggia su un libro chiuso posto sul davanzale di una finestra, sopra il capo della Madonna.

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Quel libro è il Vangelo ancora sigillato perché in procinto del compimento. Sì, l’ora è giunta. È l’ora della Vita vera, come designa il manto verde-azzurro di Maria uguale al colore del Vangelo, ma è anche l’ora della passione come si vede dalla fodera del manto della Madonna o dalla tenda o anche dalla copertina di un altro volume appoggiato al davanzale. Qui comincia quella passione che culminerà per lei in un altro annuncio: sotto la croce diventerà Madre dei discepoli, madre della Chiesa. In quel libro coperto di rosso è racchiusa la passione dei martiri e dei Santi che, come Maria, scrivono il Vangelo con la vita. Su di essi Cristo vigila, come il gatto bianco della Madonna.

Le immaginiGiovan Pietro da Cemmo. L’annunciata, 1483, affresco sulla parete destra del Presbiterio, chiesa di San Rocco Bagolino (BS).
Giovan Pietro da Cemmo. L’annunciata, 1491, particolare affresco sulla parete destra del Presbiterio, chiesa di Santa Maria Assunta, Esino (BS)
Lorenzo Lotto Data 1534 circa olio su tela 166×114 cm Museo civico Villa Colloredo Mels, Recanati

(Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)

giovedì 19 marzo 2015

Quel porridge di San Giuseppe per Gesù

Solo in dieci paesi di tradizione cattolica la festa del papà cade nel giorno di San Giuseppe, altri, seguendo una tradizione metodista, preferiscono la terza domenica di giugno. In Italia la si festeggia dal 1968 ed è spesso accompagnata da grandi falò e piatti singolari. Molto prima della questione Luterana, del resto, il ritratto di Giuseppe alla presa coi fornelli non era cosa insolita.

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Nel bellissimo altare della Passione di Conrad von Soest, in Vestfalia, vediamo san Giuseppe inginocchiato mentre attizza con gran foga un fuoco sopra il quale sta un pentolino. La Madonna, invece, serenamente avvolta da una coperta rossa, come la carità di Dio di cui è ricolma, è seduta sul letto e abbraccia il Divino Infante. Gesù si aggrappa al collo della madre per baciarla. Come mai la Madre non lo allatta? Contrariamente alla gran fortuna delle Madonne del latte mediterranee, in area tedesca la prova del parto verginale di Maria stava nel fatto che lei non avesse latte. Così è san Giuseppe, il padre, che si occupa della pappa di Gesù. E la pappa è il porridge, alimento indispensabile in molti paesi d'oltralpe, una crema a base di avena e latte, spesso addolcita con il miele, cara ai bambini. Il porridge di san Giuseppe ha una valenza simbolica: secondo l'oracolo di Isaia, il Messia avrebbe mangiato panna e miele per apprendere la distinzione fra bene e male. Gesù imparerà dalla vita, e dal padre putativo, quel discernimento fra bene e male del quale egli sarà giudice infallibile. Accanto a san Giuseppe ci sono altri due oggetti, un pitale e una fondina con cucchiaio: sono la prova della veridicità dell'Incarnazione, Cristo è vero uomo. Egli non poté fare a meno di una Madre, ma non volle neppure fare a meno di un padre. Se Maria amò Cristo anche, com'è naturale, attraverso un legame viscerale, san Giuseppe no. Egli visse la sua paternità all’esterno e in modo gratuito. La paternità è il segno grande di qualcuno che, amandoti dall’esterno, diventa estensione delle viscere materne.

In un'altra opera, questa volta danese, un affresco del XV secolo nella Chiesa di Elmelunde, addirittura Giuseppe assaggia la pappa di Gesù per sincerarsi del punto di cottura, del calore e della bontà del cibo da somministrare al Figlio. Anche qui egli sta all’esterno ed è intento a ravvivare il fuoco che arde sotto la pentola.

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La Madonna, invece, adora in ginocchio il suo Divin Figlio stando al sicuro sotto la capanna. Il volto di San Giuseppe è umano e totalmente preso dal suo compito di «nutrice». In lui - come nel goffo Giuseppe di Soest a bocconi sul fuoco - risplende l'immagine di un altro papà, quell’Abbà che, pur lontano, è sollecito nella custodia dei suoi figli. La figura paterna negli ultimi anni, a causa della confusione tra i due sessi generata dal movimento femminista e dalla filosofia del gender, è stata fortemente penalizzata. Il buon San Giuseppe che prepara il porridge non testimonia l’emancipazione di una donna, Maria, che si rifiuta di cucinare ma, al contrario, assicura la tenerezza di un amore che ti ama anche dall’esterno, che ti vuole e si prende cura di te.

Immagine:
Conrad von Soest, Altare della Passione (altare Wildungen) 1430 com 73,5x60,5 Tempera su tavola Chiesa di San Nicola Bad Wildungen.

Maestro di Elmelunde XV secolo Affresco San Giuseppe prepara la pappa a Gesù, particolare della Natività. Elmelunde Kirke Danimarca.


Fonte: Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza