venerdì 29 maggio 2015

La vera femminista cristiana tra il fuso e la spada

Nel 1425 fa aveva 13 anni la celebre Pulzella d’Orleans. Aveva 13 anni e già, nella sua semplicità di contadina, maturò la coscienza di essere votata a una grande missione: salvare la Francia e, per mezzo di essa, la cattolicità in Europa. Giovanna d’Arco è stata tanto celebrata quanto bistrattata dalla pubblica opinione e spesso ridotta al rango di personaggio mitologico frutto della fantasia patriottica francese. In realtà, scandagliandone la vita, emerge a tutto tondo il ritratto di una fanciulla cristiana che, nella consapevolezza della sua fragilità, seppe affidarsi al Signore e compiere grandi cose. Uno dei suoi ritratti più famosi è quello di Eugene Thirion, dove Giovanna, viene distolta dal suo quotidiano a causa di una voce e di una visione.

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Lo sguardo della santa, fisso su di noi, è colto fra il fuso che tiene fra le mani e la spada che le porge San Michele. L’iconografia rimanda alle Annunciazioni apocrife, dove la Madonna è sorpresa dall’angelo mentre fila con il fuso come quella di Waterhouse. L’esterno della casa di Maria è il luogo dell’evento e la Madonna abbandona il fuso, quasi spaventata per l’annuncio di San Gabriele. Il fuso è protagonista, del resto, di molte fiabe (ad esempio quella de: La Bella Addormentata nel bosco), congiunte spesso al candore minacciato dal male.
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Si comprende allora lo spavento di Maria e il rapido portarsi la mano al petto e alla testa: i principali luoghi ove si gioca la vittoria sul male. E se qui è porto alla Vergine il giglio, simbolo della novità dell’Incarnazione, là, in Giovanna d’Arco, è offerta la spada, segno della lotta che il regno di Dio combatte in questo mondo. Fu Gesù stesso ad annunciare tale lotta quando disse: non sono venuto a portare la pace, vi dico, ma la spada. E non è certo un incitamento alla guerra quello di Cristo, pur tuttavia la sua voce, come quella udita dalla Pulzella d’Orleans, ci sveglia da un pacifismo comodo che dimentica la lotta contro il male. Non è un caso se una donna del calibro di Giovanna sorse in Francia durante la guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra! Ancora oggi queste due nazioni sono al centro delle sfide moderne tese a conculcare le radici cristiane dell’Europa; sono al centro della lotta contro l’ideologia gender, con il fenomeno delle Manif pour tu (o delle Sentinelle in piedi); al centro della lotta contro il fondamentalismo islamico, con i giovani mussulmani inglesi che girano con la scritta 2033, promettendo per quella data la vittoria demografica mussulmana. Così Giovanna d’Arco nel ritratto possente di Thirion si sottrae a tutte le polemiche antiagiografiche e ci risveglia con la sua spada alla necessità di una legittima difesa. Una difesa che passa per la via del fuso, simbolo della paziente semplicità e del coraggio che solo le donne, con la loro dedizione educativa verso l’uomo, sanno attuare. Giovanna, dunque, è la vera femminista cristiana che ci restituisce alla difesa contro le imperanti ideologie che violano i diritti cristiani, quali la vita, l’identità di genere e la libertà religiosa.

ImmaginiEugène Romain Thirion, Giovanna d’Arco ascolta la voce di San Michele, 1876, olio su tela, 225 x 163 cm. Chatou, église Notre-Dame.

John William Waterhouse, Annunciazione, olio su tela 1914, olio su tela, 99 x 135 cm, Sotheby 's, Stati Uniti d'America

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 21 maggio 2015

Soavità e forza nei discepoli attorno a Maria

Quando El Greco morì, nel 1614, lasciò nel suo studio figurine modellate in cera che egli adoperava per realizzare gli scenari delle sue opere. Sono, in effetti, vibranti come cera gli apostoli, radunati nel cenacolo della Pentecoste di El Prado (Madrid). Non ci sono finestre e l’oscurità che s’indovina rimanda alla disgregazione e alla paura che i discepoli vissero durante gli eventi dolorosi della morte di Gesù. Tuttavia, con l’avvento dello Spirito, tutto vibra di luce e il gruppo degli apostoli si ricompatta attorno a Maria.

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Sì, il passato è redento, rinnovato, non già grazie agli sforzi personali di ciascuno, bensì grazie all’esistenza nuova in Cristo resa possibile per la discesa soave, eppure forte, dello Spirito Santo. A ben pensarci, soavità e forza sono gli aggettivi più idonei a descrivere questa Chiesa nascente di El Greco. Soavità perché ciascuno, nel gruppo, è attratto dal Mistero ed è in esso che si concepisce come chiamato da Dio per una missione. Forza perché lo sguardo di ciascuno è verso un centro e non verso l’uno o l’altro membro del gruppo. Tutti guardano verso un punto più alto, verso lo Spirito che tutti unisce e tutti affratella. Quanto ci educa questo vibrante gruppo di discepoli! Anche noi avremmo tanto bisogno di uno sguardo che converga verso un centro, verso un punto alto, più in alto! Christian de Chergè, martire a Tibhirine ad opera dei fratelli della montagna, a proposito del fondamentalismo mussulmano affermava che, oltre le categorie dell’odio, più in alto c’è un giardino. Ma questo punto più alto chiede, a noi cristiani, franchezza, parresia, capacità di sperare. Le figure dipinte da El Greco sono quattordici: undici apostoli e tre donne. Quattordici come il valore numerico del nome di Davide. Le promesse fatte a Davide si sono compiute: un popolo nuovo darà lode al Signore. Un popolo che porterà sempre in sé il segno dell’imperfezione umana: undici apostoli e non dodici (numero simbolico della totalità), undici perché quell’uno che manca resta, come ombra, sullo sfondo del Calvario. Tuttavia quest’assenza è colmata da Maria, è lei a completare quell’undici scandaloso, è lei la «matrice» che non vacillerà. El Greco ha sigillato la sua opera con un elemento scenico: vi si appoggia l’apostolo di spalle con la testa rovesciata. È l’inizio del corrimano di una scala il cui termine ideale è Maria. Sì, oltre le nostre paure, oltre le nostre oscurità più in alto c’è un giardino: la Vergine ne è la primizia.


Dunque: se sei sbattuto dalle onde della tribolazione, come disse San Bernardo, guarda la stella, invoca Maria. Ave, gratia plena! Con un tratto più sintetico e fermo l’anonimo artista del Salterio Hunterian (uno dei più grandi tesori della Glasgow University), realizza una miniatura sulla Pentecoste. La Madonna è al centro, anche qui come una colonna, una turris eburnea attorno alla quale i discepoli del Signore si raccolgono

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Lo Spirito irrompe dall’alto in un fiume di fuoco che incendia gli apostoli come selva di ceri. Oltre le pareti del cenacolo, avvolte dall’oro dell’inconoscibile opera di Dio, sta la città: Gerusalemme, la città-teatro della morte del Signore eppure anche la città giardino. Qui, Gerusalemme, in realtà sembra essere edificata sulla volta della sala del Cenacolo. In modo diverso da El Greco, dunque, questo anonimo artista del XII secolo, suggerisce l’immagine di una umanità rinnovata dal fuoco dello Spirito che edifica la città-giardino avendo come colonna portante la Vergine Maria.

Immagini
El Greco, Pentecoste 1597-1600 Olio su tela, cm 275 x 127 Museo del Prado, Madrid
Il Salterio Hunterland, Pentecoste, Miniatura del XII secolo, Folio 15v, Università di Glasgow, Scozia UK

(da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza)

giovedì 14 maggio 2015

Il coniglio, simbolo delle due nature di Cristo

La moglie di Tiziano morì di parto nel 1530, mentre l’artista, su richiesta di Federico Gonzaga, s’apprestava a dipingere la Madonna del coniglio. La composizione tradisce lo stato d’animo dell’artista che sembra essere ritratto nel pastore sul lato sinistro del dipinto. Alcuni vedono qui un ritratto di Federigo ma altri, a ragione, ravvisano lo stesso artista che accarezza con lo sguardo perso una pecora nera, simbolo della sua sventura. La Madonna, finemente abbigliata, ha lasciato il divin Figliolo alla dama di compagnia, santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile per la ruota dentata sulla quale si appoggia. Il gesto, apparentemente naturale e legato all’iconografia della Santa che Gesù Bambino degnò delle mistiche nozze, rimanda alla realtà del pittore il quale, a causa della morte della sposa fu costretto a lasciare la neonata Lavinia nelle mani della sorella Orsa.

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La radiografia ha rivelato che in una prima versione la Madonna guardava proprio il pastore, mentre con gesto deciso tratteneva il piccolo coniglio bianco. Il coniglio, il cui pelo muta da marrone in inverno a bianco in estate è, secondo sant’Ambrogio, simbolo delle due nature di Cristo.

Lo attesta un’opera di scuola emiliana di un seguace del Badalocchio (XVII secolo) dove la Madonna e il Bambino sostano in una radura con sant’Anna e san Giovannino. In primo piano due coniglietti fissano la croce con il cartiglio: Ecce Agnus Dei, attributo del Battista. Gesù, invece, sta guardando proprio i due animali quasi presago del loro significato. Accanto a lui, un poco arretrata, Sant’Anna scruta il libro delle Scritture: è Cristo l’Agnello promesso dai profeti. Egli è vero Dio e vero uomo e il supplizio della croce non lo potrà annientare perché la natura divina trionferà trascinando con sé la natura umana nella gloria. I due coniglietti, infatti, sono ritratti proprio nel momento della muta dove uno, più nascosto, ha ancora il pelo marrone, mentre l’altro, decisamente voltato verso la croce, è ormai candido ed è segno della risurrezione futura.
Se per la sua capacità riproduttiva il coniglio indica la lussuria, quando è bianco e associato alla Vergine Maria o a Gesù Bambino, è rimando alla verginità feconda. Il fatto poi che il coniglio nasca a primavera lo ha reso emblema della risurrezione. Così l’opera di Tiziano rivela tutta la sua profondità.

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Da un lato la Vergine Madre, mostrando al Figlio il piccolo coniglio bianco, gli insegna la verità della sua natura divina che lo porterà, con la risurrezione, alla vittoria sul male e sulla morte. Dall’altro, invece, i l pittore ha lasciato in eredità alla figlioletta Lavinia la sua fede nella vita eterna. La Madonna, infatti, rappresenta la moglie dell’artista che attesta alla piccola (nei panni di Gesù) la certezza dell’eternità da lei già raggiunta, ma che sarà meta del loro futuro ricongiungimento. Accanto alla Madonna sta un cesto da cui sbucano una mela e un grappolo d’uva. Il primo frutto è simbolo del peccato originale, il secondo è segno di quel rimedio al peccato che è l’Eucaristia, pane – appunto- per una vita che non muore. Il gruppo siede in luogo ameno carico di fiori, simbolo di quell’Eden la cui memoria vive nel cuore umano come nostalgia, il paesaggio sullo sfondo, invece, con il campanile in controluce rimanda alla sera della vita dove ciascuno sarà chiamato a rendere ragione della sua speranza. Come Caterina alle cui spalle già vede profilarsi i soldati che la manderanno al martirio.

ImmaginiTiziano Vecellio, Madonna del coniglio, 1530 circa, Olio su tela 71×85 cm. Louvre, Parigi
Scuola Emiliana XVII sec (seguace del Badalocchio) olio su tela 39x31 cm. Collezione Privata Bologna

da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

giovedì 7 maggio 2015

L'albero e l'abbraccio generoso della madre

Giovanni Segantini aveva sette anni quando perse la madre, ma ritrovò una sorta di abbraccio materno nelle Alpi e nel loro maestoso dilatarsi verso il cielo. Nel 1894, quando dal cantone Grigioni si trasferì all''Engadina, andando ad abitare a Maloja, l'artista realizzò un dipinto affascinante: un olio su tela dal titolo «L’angelo della vita».

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Nell’opera si rintraccia l’amore per il simbolismo a tratti mistico, anzi religioso, che appassionò l’artista proprio per l’incontro con la terra Engadina. Una betulla allegorica taglia irrimediabilmente a metà la tela e ci introduce nella profondità del quadro obbligandoci ad andare oltre, oltre la sua nodosità, oltre la donna col bambino, per giungere al paesaggio sullo sfondo. Lì vediamo un laghetto alpino, promessa di fecondità e di vita, attorno al quale, però, tutto è brullo; neppure l’albero, da un lato privo di foglie, sembra beneficiare di quelle acque. Segantini racconta la parabola di un'umanità che cerca la salvezza contorcendosi nel cielo chiaro della vita ma, proprio come quest'albero, non si accorge di averla molto vicina a sé, quasi a portata di mano. Le acque argentee del lago si rispecchiano nell’abito di questa madre, il cui incarnato, pieno di luce, rimanda all’innocenza perduta e a una dimensione, come afferma il titolo, angelica. È per una siffatta madre che l’albero riacquista la vita, infatti proprio accanto a lei i rami rinverdiscono. La tenerezza con cui il bimbo sta aggrappato al corpo della madre rievoca la fanciullezza di Segantini, cui questo abbraccio materno fu rubato prestissimo. Il dipinto ha un secondo titolo che conferisce all'opera un insospettato spessore religioso: la dea cristiana. Sulle prime pare un titolo irriverente, quasi una presa di distanza dell’autore dalla Vergine Maria, ma dopo una più attenta riflessione s’intravvede la nostalgia dell’artista per una tale Madre. Fin da allora, del resto, la figura della donna-madre, andava mutando rapidamente, entrando in una crisi drammaticamente registrata anche oggi. Non a caso il secolo in cui visse Segantini (tra 1850 e il 1950) vide prender corpo, in America e in Europa, la festa della Madre. Altre opere dell’artista sul tema offriranno uno spaccato profetico della crisi femminile che andava diffondendosi. Nella tela «Le cattive Madri», ad esempio, l’albero, benché ancora protagonista della scena, non è centrale ma collocato sul lato destro della tela quasi a sbarrare ogni possibile passaggio. Il paesaggio alpino è lontano dalla primavera del quadro precedente ed è anonimo e nevoso, simbolo di una morte che tutto abbraccia. Sullo sfondo quasi confuse nel paesaggio vi sono madri che danzano nella neve con i loro piccoli, mentre una, con i capelli impigliati fra i rami, rifiuta il suo nascituro ancora legato al cordone ombelicale ma, gettato nel ghiaccio. 

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In primo piano un’altra cattiva madre è totalmente abbandonata all'albero e segue l'inclinazione dei suoi rami. È dunque la donna che segue le sue inclinazioni e rimane così impigliata nelle logiche della morte. I capelli e l’abito di questa madre sono un tutt'uno con l'albero. Tiene, è vero, avvinto a sé un bimbo, ma non lo abbraccia, anzi lo costringe a procurarsi da se medesimo il latte che lei stessa dovrebbe dispensargli con amore. Fa riflettere come un artista qual è Segantini, in fondo non dichiaratamente religioso, sia giunto attraverso la sua esperienza personale a un’indagine così acuta e vera sulla maternità. Egli aiuta anche noi comprendere che solo attraverso la certezza di essere stati generati alla vita da un abbraccio simile a quello di Maria: materno, generoso e gratuito, è possibile ritrovare la strada dell’equilibrio, della giovinezza del cuore e della speranza.

Immagini:
Giovanni Segantini. L'angelo della vita, 1894, olio su tela, cm. 276 x 212 Galleria d'Arte Moderna, Milano.

Giovanni Segantini Le cattive madri" 1894, olio su tela, 105 x 200 cm, Vienna, Kunsthistoriches Museum)
 
da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 1 maggio 2015

San Giuseppe tra la Scrittura e la vera vigna

Ha il cappello da lavoratore san Giuseppe in questa Sacra Famiglia a firma di Joos van Cleve, pittore olandese attivo ad Aversa nei primi decenni del 1500. Ha il cappello di paglia da lavoratore e legge attentamente un libro inforcando un paio di occhiali. L’attitudine è del dotto conoscitore delle Scritture che lasciandosi alle spalle lavoro e fattoria, contempla Maria mentre allatta Gesù.

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Non vediamo ciò che legge Giuseppe ma certo egli viene istruito dalle Scritture circa il Mistero o della sua Vergine Sposa e del Figlio Gesù. Attorno al Cristo e alla Vergine Madre si dispiegano simboli che rivelano la natura e il destino di quel Bambino. Sul davanzale dov’egli poggia i piedi v’è un vaso di vino. Né una bottiglia né un calice, bensì un vaso: quello che compare spesso in mano agli angeli o alla Maddalena sotto la croce, destinato a raccogliere il sangue di Cristo. Capiamo che quel Bimbo è la vera vite che dispenserà il vero sangue dell’uva, cioè il suo sangue, bevanda di salvezza eterna. Sarà il suo sacrificio a riaprire il Paradiso la cui chiusura era stata provocata dal peccato. Dall’altro lato del davanzale vediamo, infatti, un’arancia tagliata con uno spicchio proprio davanti a Cristo. L’arancia, tonda e dorata, è il frutto proibito mangiato dai progenitori che ha provocato nel mondo morte e dolore. Quel coltello che un tempo ha ferito l’albero della vita ora ferirà Cristo, il nuovo Adamo, dal quale però sgorgherà una fonte di salvezza. Gesù non pare consapevole del destino di croce che lo attende, ci guarda gioioso, aggrappandosi al seno purissimo della Vergine Madre. Il gesto, comune ai piccoli poppanti, nasconde un grande insegnamento. Il Messia si ciberà di latte e miele fino a che non apprenderà la durezza della vita. Ora, egli, Immacolato, riceve latte da una Donna Immacolata: Maria che per la sua innocenza, contribuisce al successo della Redenzione. Ella è presaga del dolore del Figlio, infatti abbassa gli occhi ammirando quasi distrattamente un piccolo fiore di aquilegia. Piantine di aquilegia sono dipinte anche sul telo che sta dietro il trono della Madre. L’aquilegia, con la gamma dei colori che vanno dal rosso cupo al violaceo e pendendo dai rami come gocce di dolore, evoca la passione e il sangue che versò Cristo sulla croce. Il Cuore verginale di Maria intende e prevede ciò che Giuseppe legge nelle Scritture. San Giuseppe veste come il monaco contadino, il quale nella pausa di mezzogiorno, lasciava temporaneamente il lavoro per dedicarsi alla preghiera. Il suo aspetto monastico dunque assicura al fedele la sua verginità e lo rende totalmente partecipe dell’opera di Redenzione che Cristo è venuto a compiere.

In un’altra opera van Cleve, lo veste addirittura da monaco e gli pone in mano un Cartiglio sul quale si leggono le prime battute del Magnificat, la preghiera serale che apre al giorno seguente.  Davanti a Gesù scorgiamo il vaso con il vino, ancora egli ha davanti a sé, questa volta in mano, un’arancia. Il davanzale tuttavia è arricchito di molti altri frutti: un grappolo d’uva, una pera, un melograno e alcune ciliegie.

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Questi frutti simbolici sono un riferimento all’Incarnazione e alla Passione. La pera e la melagrana sono simbolo della fertilità verginale della Madonna, mentre le ciliegie e l’uva sono un rimando alla croce e al sangue versato dal Redentore.
Il coltello, che anche qui troviamo appoggiato sul davanzale, questa volta è rivolto verso di noi e sta tra una noce e una castagna. La noce, con i suoi tre elementi il guscio, il mallo e il gheriglio, indica la croce (il guscio), che attraverso la carne di Gesù (il mallo), rivela la sua divinità (il gheriglio). La castagna, invece, in latino castanea, è rimando alla castità e alla continenza, virtù che ebbero Giuseppe e Maria e per mezzo delle quali Cristo ha rinnovato il mondo invecchiato nella concupiscenza.
Pertanto, il coltello rivolto a noi, ci sprona a tagliare con le concupiscenze innaturali al fine di affrettare il compiersi del disegno salvifico sul mondo. Ciascuno di noi ha da cantare il proprio Magnificat, come Maria e Giuseppe che con il loro sì, affrettarono l’opera di Redenzione del Cristo.
 
 
Immagini:
Joos van Cleve La Sacra Famiglia c. 1515 olio su panello, 53 x 40 cm Akademie der bildenden Künste, Vienna
Joos van Cleve La Sacra Famiglia c. 1512-13 olio su legno, 42,5 x 31,8 cm The Friedsam Collection, New York
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza