giovedì 29 maggio 2014

Il girasole, l'abbraccio redentivo del padre

È un simbolo raro, nell’arte, il girasole. Ai medioevali era sconosciuto, infatti, i semi di questo fiore arrivarono in Europa – dall’America – soltanto nel XVI secolo. Se fosse stato noto, avremmo certamente goduto di bellissime natività o Madonne ornate da questo eliotropico.
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Un artista spagnolo, attento ai simboli anche cristiani benché istrionico e contraddittorio, Salvador Dalì non si lasciò sfuggire la prepotente bellezza del girasole. Non si lasciò sfuggire il curiosissimo autoritratto con girasole di Antonio van Dick; l’artista fiammingo, che aveva ricevuto da Carlo I di Inghilterra una preziosa offerta di lavoro, ottenne anche dal Sovrano un titolo onorifico. Per questo si ritrasse così: di profilo, mentre solleva con la mano sinistra una vistosa collana d’oro, simbolo del rango nobile ricevuto, e con la destra indica il girasole. Questo fiore, che appunto stava affascinando l’Europa per la sua misteriosa rotazione verso il sole, fu scelto dall’artista come segno allusivo della sua eterna dedizione al sovrano inglese.
Proprio prendendo spunto da questo simbolo Dalì, realizzò una tra le più affascinanti ascensioni della storia dell’arte.

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In una prospettiva vertiginosa Cristo sale al cielo mantenendo la forma della croce. Le mani ancora tese nello spasmo della sofferenza sembrano però aggredire quella fuliggine rossastra che ingombra il Cielo e segnano pertanto, non il punto della sconfitta, ma quello della vittoria. Ad accogliere Cristo nel suo trionfo sta un sole fulgido, dal cuore granuloso simile appunto agli acheni maturi del girasole. Il girasole per il suo ruotare attorno al sole, assumendone quasi le stesse caratteristiche (nel colore e nella corolla), è simbolo di adorazione e, per gli Inca, era segno stesso della divinità. È lui, per Dalì, il segno del Padre che, con lo Spirito, accoglie il Salvatore al termine della sua missione salvifica sulla terra.

Dalì era rimasto scosso dall’esplosione della bomba atomica e fu proprio da quell’evento che si avvicinò alla fede cristiana frequentando i padri carmelitani.  Attorno al 1950 infatti, risalgono molte opere religiose dell’artista. Cristo ascende al cielo quasi con lo stesso dinamismo cosmico della bomba di Hiroshima, un dinamismo positivo e non distruttivo.
Sorprende che al culmine dell’ascesa, ad attendere il Salvator, non ci sia il volto del Padre, ma quello di Gala, moglie dell’artista. Dalì nutriva una venerazione per questa donna: era la sua musa ispiratrice, capace di avvicinarlo alle realtà eterne. Come nelle antiche raffigurazioni dell’ascensione la Madonna era il fulcro attorno al quale si ricompattava la Chiesa sgomenta per l’assenza del Maestro, così Dalì ritrae la Vergine Maria col volto di Gaia (lo aveva già  fatto nella Madonna di Port Lligat, donata a Pio XII).
Il girasole, che tutto avvolge con la sua luce, è segno dell’abbraccio redentivo del Padre al quale siamo ammessi mediante Cristo. Di questo abbraccio, rivolto all’umanità intera, è testimone la Chiesa, simboleggiata da Maria e, quindi, da Gala.

Immagini:
Antoon van Dyck, Autoritratto con girasole, 1632-1633, olio su tela, 60 cm × 73 cm. Collezione privata del duca di Westminster.

Salvador Dali, Ascensione di Cristo, 1958, olio su tela, 115 x 123 cm. Collezione Privata.
 
Da Avvenire, Dentro la Bellezza

giovedì 22 maggio 2014

In salvo, sotto il manto blu della Vergine

Sessant’anni fa nel cielo segnato dalla seconda guerra mondiale, volava un pilota britannico incaricato di bombardare il distretto di Tubinga. Giunto sopra Ravensburg (città famosa per la produzione di puzzle), egli fece per rilasciare il suo carico di esplosivo ma una donna, con il manto aperto, apparve all’orizzonte. Aveva i capelli sciolti e lo guardava ferma in viso. Alla fine della guerra quel pilota tornò in Germania e, con sorpresa, vide che nella cattedrale di Ravensburg vi era una Madonna chiamata «Maria mit dem Schutzmantel», Madonna del manto. Per questo, oggi, la piazza centrale di Ravensburg è stata rinominata Marienplatz e l’originale della scultura, in legno di tiglio, è custodita al Bode-Museo di Berlino.
Il soggetto iconografico, diffusissimo nel XV, in Italia era noto come la Madonna della Misericordia. Famosa è quella di Piero della Francesca inserita nell'omonimo Polittico, oggi smembrato, e detto appunto: Polittico della Misericordia. Piero ritrae la Vergine come turris eburnea, che sta saldamente ancorata alla terra della sua umiltà. Maria indossa abiti dai tessuti modesti, eppure è incoronata regina; possiede, infatti, la regalità della santità per la quale servire è regnare. La corona che porta ha, del resto, lo stesso diametro dell'aureola. Piero la presenta anche come Vergine e Madre: il cordone monacale che le cinge la veste è simbolo di verginità, mentre il ventre appena rigonfio denuncia la sua maternità. Così Maria apre generosa il manto per accogliere il popolo rappresentato da persone di ogni età e di ogni ceto sociale. Un popolo in preghiera che si rifugia dentro l’abside di una cattedrale.

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La Madonna di Ravensburg, invece, pare camminare frettolosa verso ciò che ancora ha da venire, un futuro non lontano che essa vede chiaramente e che il popolo, pur senza vedere, teme. Lo sguardo mite, eppure fermo, è dolce e nel contempo imperioso. La sua postura la rende simile a una colonna che, mentre sorregge il popolo, cioè la Chiesa, si pone come barriera contro quanti vorrebbero farla crollare. Il manto blu racconta il mistero di cui è adorna: ella è la Theotokos, la Madre di Dio, e perciò stesso è anche la madre degli uomini. Il suo passo, frettoloso e deciso verso il pericolo incombente, è tale da non averle lasciato il tempo di legarsi i capelli, cosicché il velo, investito dal vento, sembra sul punto di cadere. Se i suoi capelli, sciolti e lunghi, la designano come una vergine giovinetta che ancora vive nella casa del Padre, l’abito rilucente d'oro zecchino, la designa quale regina, difensora del regno di Dio, colonna e baluardo contro qualunque nemico. Dieci persone stanno asserragliate sotto il manto di Maria.

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Dieci, come i dieci giusti che aspettano, secondo il libro dell'Apocalisse, la salvezza sotto l'altare. Dieci come il numero che designa simbolicamente una prova la quale, benché pesante non può schiacciare gli uomini che Dio ama. I volti sono di una bellezza e di un’intensità impressionante. Sono volti pieni di vita e ansiosi di raggiungere quella salvezza che già vedono assicurata là, sotto il manto della Vergine Madre. Tutti ci possiamo riconoscere in quei volti ed esser certi, anche noi come il popolo di Ravensburg, di trovare rifugio sotto il manto potente di Maria nelle ore difficili della storia.
Immagini:
Ravenburger Schutzmantelmadonna, Michael Erhart , 1480, Scultura in legno di tiglio,
Bode-Museo, ex Kaiser Friedrich Museum
Madonna della Misericordia (particolare dell’omonimo Polittico), Piero della Francesca,1460–1462 Olio e tempera su pannello, 180 cm, Pinacoteca Comunale, Sansepolcro (Arezzo)
 
Da Avvenire, Dentro la Bellezza

venerdì 16 maggio 2014

Cristo, il pastore che dà la vita per le pecore

Siede al centro della lunetta, che sta all’ingresso del mausoleo di Galla Placidia, il Cristo pastore. Siede al centro, perché è lui la via per la quale le pecore entreranno e usciranno e troveranno pascolo. Il bastone e il vincastro del Pastore divino, celebrati nel Salmo 23, hanno trovato una perfetta sintesi nella croce che è, per le pecore buone, salvezza e, per quelle cattive, motivo di condanna. Il bastone diritto e piuttosto corto, era lo strumento con cui il pastore guidava il gregge e scacciava il lupo; il vincastro invece, molto lungo e ricurvo alla sommità, era usato per prendere le pecore che si allontanavano riportandole sulla retta via.

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Cristo siede sopra una rocca a gradinate: il Migdal-Eder, la torre del gregge, il luogo dove il Pastore d’Israele sorveglia le sue pecore. Il rimando è ai monti biblici, luoghi dell’alleanza: il Calvario, il Sinai, il monte Moria. Cristo non ha la barba perché è pastore universale e dunque anche pastore dei romani, veste alla maniera dei romani e, nelle sue mani, lo strumento di supplizio da questi usato, è diventato strumento di misericordia. Ci sono pecore alla destra e pecore alla sinistra secondo una struttura a chiasmo, al cui centro Cristo, ruotando il suo corpo, unisce le due postazioni. Si comprende come vorrebbe salvare le une e le altre, ma non può, anche Cristo si arresta di fronte alla libertà delle pecore di accettare o meno l’alleanza. Pastore, in ebraico, si dice ro’èh (dalla radice ra’ah, pascolare), ma essendo l’ebraico scritto solo con le consonanti è possibile leggere la parola come re’eh, cioè amico, oppure ra’ah, cioè malvagità e corruzione. Così anche il mosaico appare più chiaro. Sul lato destro ci sono le pecore buone: ricevono il cibo dalle mani del pastore come dalle mani di un amico. Esse infatti si nutrono dell’alleanza e stanno di fronte a un monte a gradoni del tutto simile a quello dove siede il pastore. Le altre pecore, invece, stanno un poco a distanza e, pur guardando verso il pastore, restano di fronte a un monte che ha la forma dell’altare pagano. Cristo volge loro uno sguardo serio e preoccupato: sono le pecore dell’altro ovile, quelle pagane, quelle che non si lasciano condurre, che non lo vedono con amico (re’eh appunto) ma sono dominate dalla malvagità e dalla corruzione (ra’ah). Ma egli, il Ro’eh, rimane pastore: non le abbandona e mostra loro la via. Per questo, proprio dalla loro parte, egli incrocia i piedi come volesse salire un’altra volta sulla croce e dare la vita per loro.

Nella vicina Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, a poco meno di un secolo di distanza, la scena è totalmente mutata e l’organizzazione dello spazio e della composizione molto più didascalica. Cristo sta ancora in mezzo alle pecore e queste sono ancora tre da un lato e tre dall’altro. Qui però si allude chiaramente al Giudizio universale (le pecore alla destra del Signore e i capri alla sua sinistra) e alla scena di Giacobbe che divide il gregge del suocero Labano tenendo per sé (con l’inganno) le pecore macchiate. Cristo non ha più il bastone perché non è più pastore, ma giudice. Non siede su una roccia a gradoni, ma sopra un trono di pietra. La croce è rimasta solo nel nimbo e accanto a lui stanno due angeli. Uno rosso, simbolo della regalità e della luce, e uno blu, simbolo delle tenebre e delle realtà terrestri.

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Così, davanti all’angelo azzurro ci sono i capi striati, quelli cioè segnati dal peccato, mentre le pecore immacolate stanno davanti all’angelo rosso, segno di coloro che si sono purificati nel sangue dell’agnello e dunque godono della vita del Redentore. La mano del Cristo, infatti, è aperta verso queste pecore ed esse hanno un aspetto pacifico e sereno. Non così i capri dall’altra parte che, vedendo ritirata la mano del Pastore, si sono fatti vicini e tremanti. Anche qui permane una struttura a chiasma, infatti l’angelo delle tenebre guarda verso le pecore salvate e sorride, quasi per rassicurare loro di non essere destinate alla morte eterna, diversamente invece l’angelo della luce, quello rosso, guarda il gregge macchiato con la severità di chi dice, questo Regno non è per voi. Se l’arte di Galla Placidia era preoccupata di rassicurare i cristiani appena usciti dall’oscurità delle catacombe che la salvezza è certa per quanti amano il Salvatore, qui si comincia a mettere in guardia gli stessi cristiani che non basta questo nome per essere salvati, ma occorre l’amore a Cristo e la coerenza della vita.

Immagini
Lunetta del Buon Pastore, mosaico del V secolo (dopo il 425) Mausoleo di Galla Placidia Ravenna
Giudizio Finale, mosaico tedoriciano (culto ariano), VI secolo(505 d.C) basilica di Sant'Apollinare Nuovo Ravenna

Da Avvenire, Dentro la bellezza

giovedì 8 maggio 2014

La conchiglia del pellegrino, invito all'incontro

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Non sembra un giardiniere, come narrano i Vangeli, il Cristo Risorto di Duccio da Buoninsegna. Non sembra un giardiniere e nemmeno uno che viene dal Cielo. Nel tergo della Maestà senese, dove questo dipinto è incastonato, il Risorto è vestito rigorosamente di rosso e di blu con bagliori dorati sui panneggi che rendono evidente la sua dimensione “altra”. Chissà perché, in questa formella posta nell’estremo più alto della Maestà, Duccio ci offre un’immagine così quotidiana del Redentore. Ci voltiamo a guardarlo con lo stesso sguardo stupito e indagatorio dei due apostoli fuggiaschi. Leggiamo nei loro occhi quell’angoscioso “speravamo” che registra l’evangelista Luca e che esprime efficacemente lo sconcerto dei discepoli di fronte alla sconfitta. L’abito di Cristo è quello del viandante, porta un mantello di pelo e il cappello dei romei o di quelli che, per impegno votivo, decidono di viaggiare fino al Campus stellae. Sì, Cristo è un pellegrino, il più grande della storia, non si può fermare alle attese di quei due discepoli delusi, deve raggiungere la “fine del mondo” cioè finis terrae, quegli estremi confini che al tempo di Duccio si fermavano allo Stretto di Gibilterra. Cristo ha l’equipaggiamento necessario per mangiare la Pasqua: fianchi cinti, bastone, sandali ai piedi e passo frettoloso. Così ci accorgiamo del cenno deciso del Cristo, dello sguardo penetrante verso un punto lontano, più lontano rispetto al cuore e all’attesa dei due compagni di viaggio. Sorprende, di Cristo, la borsa: Duccio ha voluto corredarla con due conchiglie. Le capesante del cammino di Santiago. La conchiglia è un simbolo raro. Nella bibbia, la parola “conchiglia” ricorre una sola volta e a proposito degli aromi necessari per i sacrifici della Tenda. Secondo la leggenda, quando i primi cristiani giunsero alle coste della Galizia trasportando il corpo di San Giacomo apostolo, un giovane a cavallo (Cristo stesso) si fece loro incontro e per raggiungerli si gettò in mare riemergendo con il corpo pieno di conchiglie. Così il mito greco di Posidone, Dio del mare, e di Venere, dea dell’amore, trova contatto con la simbologia cristiana. Leggenda, certo, ma vero è che chiunque raggiungeva Compostela aveva l’obbligo di immergersi nel mare, rinnovare il battesimo, e portare con sé la testimonianza di una capasanta. Il Cristo di Duccio ha due conchiglie, ha già percorso due volte il giro della terra, ma ancora ne deve percorrere prima che tutta l’umanità (dunque anche noi) sia entrata in quella locanda. Le conchiglie compaiono anche, in altre tele dedicate all’episodio di Emmaus, non sull’abito di Cristo, ma su quello di un discepolo.

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È il caso della Cena di Emmaus di Caravaggio, custodita oggi alla National Gallery di Londra. Caravaggio ci permette di entrare nella locanda. Siamo anche noi a tavola con Cristo ed egli ci sorprende con un gesto brusco del braccio, quasi ad indicarci la necessità, per lui, di continuare il cammino. È tanta la sorpresa dei commensali e del locandiere che tutto si ferma quasi sospeso in quell’istante. Presto, e lo sappiamo dal Vangelo, Gesù scomparirà dalla loro vista e Caravaggio ci offre la gioia di vederlo per l’ultima volta, proprio come i due di Emmaus. Ma se il discepolo seduto a sinistra, poggiandosi sui braccioli della sedia, sembra volersi alzare spaventato, l’altro a destra, allarga le braccia quasi a voler misurare i confini della tela, i confini di quella tavola. Questo è probabilmente il discepolo di cui non conosciamo l’identità, quello nel quale Luca, proprio perché lasciato anonimo, ci invita a identificarci. Caravaggio lo veste col rocchino (o sanrocchino), il mantello corto dei viatori, sul quale fa bella mostra di sé una capasanta. Il marrone del mantello e le braccia spalancate del discepolo sono un potente rimando alla croce. Per Caravaggio la Chiesa è chiamata a raggiungere i confini del mondo con la forza disarmante della croce. E anche noi, custoditi dal cibo offerto in questa locanda, non possiamo rassegnarci a vedere questa tavola vuota: dobbiamo correre all’annuncio di Colui che, come allude la conchiglia, starà con l’uomo ogni giorno, fino alla fine del mondo.

Immagini:  Duccio da Buoninsegna, Maestà, 1308-1311, I discepoli di Emmaus (tergo della Maestà) particolare, tempera su tavola, 51 x 57 Museo dell'Opera del Duomo.

Siena Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cena di Emmaus, 1601-1602, olio su tela,139 cm × 195 cm National Gallery, Londra

Da Avvenire, rubrica Dentro la bellezza

venerdì 2 maggio 2014

La torre e la piaga, la scienza che non vede

La torre di Babele e la piaga di Cristo. L’occhio penetrante dell’artista polacco Jerzy Duda Gracz, convertitosi dopo il primo viaggio di san Giovanni Paolo II nella sua terra, scruta la via crucis del Salvatore e vi scopre le piaghe del nostro tempo. Il nuovo Tommaso della storia è scienza. Il dito più rappresentato nelle opere d’arte, quel dito che Caravaggio realizzò con grande realismo nell’omonima opera, ora indaga nel costato di Cristo con gli occhiali del sospetto.

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 La scienza vuol vedere per credere, vuol capire anche l’indicibile. impossibile credere a un uomo piagato che cammina, a un redivivo che parla di un regno dei cieli, in netta contrapposizione alle nostre ziqqurat, alle torri della nostra volontà superba di toccare il cielo. Il luogo da cui proviene questo irriverente chirurgo è sullo sfondo: la torre di Babele di Bruegel il vecchio, simbolo del pensiero relativista che misconosce la dignità dell’uomo. Pieter Bruegel aveva realizzato la sua torre ispirandosi al Colosseo, segno della tracotanza umana che vuole soffocare la verità (il martirio di molti cristiani). Così in basso a sinistra l’artista colloca il Re Nimrod, simbolo degli Imperatori di ieri e di oggi. Egli voleva sudditi dalle parole uniche.

Quel linguaggio unico che permesse di non sprecare forze e lanciarsi in un’ impresa senza pari: raggiungere il Cielo e dominare anche il potere sovrano di Dio. Benché riverito e circondato da architetti, Nimrod sperimenta l’impossibilità di ridurre l’uomo a oggetto, unificato da un potere corrosivo e appiattente. La torre, per la disparità dei linguaggi, sorge così disuguale, così disarmonica che non potrà alzarsi più di quanto non abbia fatto. E mentre la parte più alta raggiunge il dodicesimo piano, le altre parti già si sgretolano minacciando di tornare a ciò che erano: roccia e sabbia. La vanità dell’uomo indagatore la tratteggia anche Duda Gracz poiché Cristo solleva il suo lenzuolo di luce e si lascia perlustrare ma, sollevando il braccio, si copre inevitabilmente il volto.
 
È il dramma di una scienza che indaga il Mistero senza incontrarlo. Dietro il chirurgo c’è una folla di malati di ogni genere ed età: l’uomo è Mistero, la sofferenza umana è il segno del Risorto presente fra noi. Sono i piagati della storia che testimoniano quotidianamente la forza disarmante di quel lenzuolo. Il nuovo Tommaso, lo scienziato, indaga del Salvatore le piaghe ma non lo incontra. Ha gli occhi spalancati e non vede; può toccare e visitare, ma non comprende. È lontano da quel Giovanni che un giorno entrando nel sepolcro vide un lenzuolo e credette.
 

Come siamo simili a un tale Tommaso! Tocchiamo quotidianamente il mistero di una vita, il mistero di piaghe umane che additano Altro, che in-segnano il Mistero e non vediamo. Così l’ideologia dilaga, la filosofia del dubbio e del sospetto ci corrode com’è corrosa e tormentata la Babele di Bruegel.
 
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Il nuovo Tommaso, in cui talora ci riconosciamo, è così attento alle sue scrupolose indagini che neppure s’avvede del ragazzetto che sta fra lui e l’Uomo piagato. Non s’accorge di quel bambino da nulla che, con un gesto semplice, ha fatto molto più di lui. Il bambino ha gli occhi chiusi, non indaga, non studia, non s’attarda sulle piaghe, ma nell’impeto della sua innocenza abbraccia teneramente il Salvatore, lo vede e incontra. Così Duda Gracz ci insegna a vincere la supponenza della nostra Babele: abbracciando la sofferenza si scorgerà in essa il luminoso volto del Mistero.
 
Immagini

Jerzy Duda Gracz (1941-2004) Golgotha di Jasna Gora Collezione del Museo di Czestochowa XVI stazione (2000-2001)185 x 117 cm
 
Pieter Bruegel il Vecchio, Grande torre di Babele, 1563, Olio su tavola, 114x155 cm Kunsthistorisches Museum, Vienna
 
Rubrica Dentro la Bellezza, Avvenire