mercoledì 24 dicembre 2014

Nell'oscurità germoglia una nuova Speranza

​Siamo tutti lì dietro a Giuseppe, siamo invitati da Georges de La Tour a entrare nella grotta più celebrata della storia. Luminista caravaggesco, de La Tour indugia in una narrazione più chiara, dove la luce è meno violenta e il fondo meno oscuro. Non ci permette di vedere null’altro che la gente assiepata attorno alla culla di un Bambino. Non si vede il cielo stellato che canta la gloria nel Nascituro, non le greggi e i pastori che ricevono l’annuncio, nulla di tutto questo.


Il trafficato inverno della Betlemme di Cesare Augusto al tempo del Censimento è lontano, ci sembra di udirne a tratti il suono ovattato mentre qui, in questa spelonca nuda, della quale neppure conosciamo i confini, è il silenzio. Quanto abbiamo bisogno di un silenzio contemplativo che ci aiuti a rischiarare le idee. Quanto vociare, quanta babele di lingue, di cose dette e ridette, di notizie amplificate, di atrocità reclamizzate quasi fossero un prodotto di consumo. Come ci fa bene questa natività di de La Tour.
Il titolo è importante: Adorazione dei Pastori. Adorazione: ad os, portare la mano alla bocca e baciare. La bocca tace e si apre a quello stupore magnificamente cantato dalle Antifone "O" sette giorni prima di Natale. È lo stupore che conosce.
Nella grotta ci sono cinque personaggi. Cinque come i libri della Torah attorno a un nuovo rotolo, una nuova legge: la Parola fatta carne. Tutti sono come colti da una rivelazione. Il pastore che ci sta di fronte ha tra le mani un flauto e si scosta la visiera come sorpreso da una luce altra e da un calore nuovo. Là fuori ha lasciato i suoi sogni, le sue speranze, l’attesa di un futuro immaginato. Ora, con quel gesto sembra allontanare tutto: c’è un Presente qui che azzera ogni desiderio, ogni attesa.
Questo pastore, proprio perché nascosto, dà profondità alla scena, la luce gli bagna appena il volto rivelando la gioia profonda che, ormai, lo abita. Vediamo in lui tutti i sognatori della storia, quelli che confidano nel loro flauto, nella loro capacità di immaginare un mondo nuovo e di comunicarlo. Ci sono necessari, eppure qui sono richiamati, come questo pastore, a una concretezza unica: il sogno è un bambino, una promessa di vita. Un futuro che ci veda spettatori (perché il centro è il bimbo) e protagonisti insieme.
L’altro pastore invece è diverso: serio, pensoso, regge il bastone con vigore e s’indovina ancora l’energia con la quale guida il gregge. L’ha lasciato là fuori e s’è portato appresso solo l’ultimo nato, e vive un conflitto tra le preoccupazioni del gregge, sperduto sopra i monti, e la luce di questo Bambino. Quanti volti così nella notte di Natale? Gente più avvezza al lavoro, che alle cose di Dio. Eppure in questo giovane uomo s’individua un passaggio, un cambiamento: cosa sarebbe la sua guida, la sua perspicacia senza il Pastore d’Israele, quello vero, quello che gli sta davanti inerme, ancora infante ma già carico di un’autorità che fa zittire?
La levatrice è straordinaria. Ha quell’aria indispettita di chi avrebbe dovuto essere la prima: la prima a sapere, la prima ad arrivare, la prima a conoscere, la protagonista. E invece è arrivata alla grotta e questa ragazzetta da nulla aveva già partorito, da sola. Così non sa cosa guardare, se la sua ciotola d’acqua calda inutilizzata o la compostezza grave di quella Madre e di quel Bambino. Il suo abito ci racconta molto di lei.
Nulla è lasciato al caso, non è una am ha arez, una del popolo della terra ma, potremmo dire, "veste firmato", è una donna battagliera. È davvero la domina della sua casa. Ora tutta la sua sicurezza s’infrange di fronte allo stupore di un fatto inusitato: un bambino nato senza sangue, né doglie, né lacrime. Tutto ciò è incomprensibile. Si scorgono, in questa donna, i cercatori di verità, quelli che forse non credono in Dio, mentre credono molto in loro stessi, eppure di fronte al soprannaturale si lasciano provocare, com-muovere.
L’altra donna del gruppo è la Madonna. Così solitaria e ieratica, tanto diversa dalle Madonne adoranti che siamo abituati a conoscere. Non capiamo neppure bene dove stia guardando, sembra vedere lontano, più lontano dei presenti, più lontano di noi. Vede già il sangue dell’Agnello sparso per i nostri peccati. Forse per questo il suo abito è rosso, quasi fosse già carica di quel sangue. Somiglia a un’altra Madonna di La Tour, anche lei vestita di rosso.




Una Madonna più dolce, fanciulla e principessa insieme, che ci porge il Figlio con mestizia. Pure in quest’altra tela si fa strada, nel buio, una levatrice con la sua candela. Anche qui non vediamo nulla se non il Nuovo Nato, che è il titolo del dipinto. Ma chi è Costui?
È proprio all’abito della Vergine che George de La Tour affida la sua risposta. Nell’Adorazione dei Pastori sull’abito della Madre si proiettano ombre. L’ombra delle mani della Vergine disegna ali come di colomba: è il segno dello Spirito di cui è ricolma. Qui è scritto il mistero del suo parto indolore. Un’altra ombra, più piccola, si trova all’altezza del ginocchio (simbolo di adorazione), la provoca l’agnellino che, avvicinandosi al divino Infante, si mette a brucare. Sì, è l’ombra di un germoglio. Ecco l’identità di Colui che adoriamo: il Germoglio giusto, atteso da Israele. Ora sappiamo qual è la rivelazione che riempie la grotta: tutti vedono, tutti sono entrati dietro a una fiaccola. Ma la luce vera non è questa. Giuseppe si fa schermo con la mano perché quella fiaccola non colpisca il nostro sguardo: la luce del dipinto viene da lui, da questo Germoglio di novità e di vita. Attorno al bimbo ruotano i volti e i simboli del dipinto. E proprio come nella tela de Il Nuovo Nato, Cristo è bambino, eppure già dormiente nel sonno della morte; è neonato, eppure già avvolto nelle bende e in un sudario, umile promessa di risurrezione.
L’oscurità cui ci costringe de La Tour somiglia molto al panorama di questo Natale. Non possiamo dimenticare il mondo in fiamme, il veto davanti a molti presepi, lo scempio impetrato contro inermi neonati eppure la Tour ci ricorda che una siffatta oscurità non è l’ultima parola sul mondo. Un Nuovo Nato ha chiamato a raccolta le genti dietro l’umile candela di Giuseppe, dietro la fiamma tremula della levatrice. Così siamo entrati anche noi attirati da questa fiamma per abbeverare il cuore di una nuova Speranza: ecco proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?

da Avvenire del 23 dicembre 2014, di Maria Gloria Riva

giovedì 18 dicembre 2014

Quel taglio è una ferita di luce, un dono di vera vita

Contro chi vedeva l'Incarnazione come un evento mistico (Cristo, in un bagliore di luce, entrava nel grembo di Maria) si sviluppò, in ambito agostiniano, la verità teologica della gestazione della Vergine. Fiorirono così le madonne del parto, dalle più antiche del duecento, fino alla Madonna di Monterchi, capolavoro di Piero della Francesca. L’ affresco era destinato all’antica chiesa di Santa Maria di Momentana, dove le donne incinte si recavano a impetrare grazie per sé e per il nascituro. Attorno al 1785 la chiesa fu in parte distrutta per edificare un cimitero. Nel 1911 l’affresco fu staccato per varie ragioni, passando di luogo in luogo.

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Era straordinaria però, l'immagine di una Madonna del parto all'ingresso di un cimitero! Una Madonna del parto, così, come quella di Piero, che appare come arca dell'alleanza in uno squarcio di cielo indicando solennemente la ferita del Mistero. Sì, quel taglio nell’abito azzurro, è una ferita che addita all'uomo la bianca luce dell'eternità. Come si potrebbe raccontare meglio il Natale? Non è il cimitero, nel nostro quotidiano, il luogo della domanda, spesso angosciosa, di chi è assillato dal senso di una vita che approda alla morte? Contro certa cultura moderna che vorrebbe consegnare la morte al nulla, contro certuni che vorrebbero imporre agli uomini un credo con la spada e la violenza, il cristianesimo sorge da una donna incinta che sta come portale di vita davanti al luogo della morte. Com’è stabile la Vergine, dipinta da Piero, dentro le pesanti cortine della Shekinà! E com’è ferma mentre addita il luogo della novità divina! Il suo grembo, azzurro è come il firmamento (dal latino firme), cioè stabile. Sì, la tua Parola, o Dio, è stabile come il cielo! E chi affonda il suo piede in essa, Parola fatta carne, non avrà da temere. Davvero il piede destro della Vergine è fermo, certo nell'attesa di un evento che fonda la storia dell'umanità. Il Natale è la festa della pretesa cristiana: nessuna religione vanta questo. Noi abbiamo la pretesa di non morire perché una donna gravida di vita sta alle porte del cielo.

Piero della Francesca, Madonna del Parto, 1455, affresco, 260 cm × 203 cm.
Spazi espositivi, Monterchi
 
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

giovedì 11 dicembre 2014

Lucia, uno sguardo nuovo per riconoscere la vera via

Era alta 1 metro e 50, corpo esile, capigliatura castana, si chiamava Lucia. Non fu figura inventata dalla Chiesa, per far piacere ai bambini in quelle aree del mondo dove lei porta i regali: Santa Lucia è esistita veramente. Il suo corpo riposa a Venezia, ma la sua fama gira in tutto il mondo. Anche nella Svezia progressista, la festa di Santa Lucia, è tra le più attese del periodo natalizio. Le ragazze si vestono di bianco e si adornano il capo con una corona di sette candele. La santa è nota per gli occhi che ostende in un piattino, ma in realtà Lucia morì di spada conservando perfettamente la vista. Ma allora perché quegli occhi sul piatto offerti ai fedeli in ogni affresco, tela o statua che la rappresenti? Impressionano, ad esempio, gli occhi fioriti sopra uno stelo, della Santa Lucia di Francesco del Cossa del 1472. Impressionano perché ti guardano fissi come aspettando qualcosa.
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 Una medesima sensazione ce la offre un altro artista duecento dopo, Francesco Furini nel 1646. La sua Lucia ci volge proprio le spalle e, se da una tal postura intuiamo la forza prorompente della sua bellezza, da quello che ci offre, i suoi occhi nel calice appunto (gli unici che ci guardano), siamo riconsegnati alla sensazione di essere attesi.

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In realtà è Lucia ad aspettare che noi si apra gli occhi. Abbiamo lo sguardo così abituato ai misteri del Natale, per i quali lei ha dato la vita; abbiamo una così bassa concezione per la verginità e ci pare così scontata quella libertà di cui godiamo, mentre per tutto questo Lucia fu uccisa, che ella non può che desiderare il nostro risveglio. La storia della martire sembra una cronaca dei nostri giorni: avendola scoperta cristiana e determinata a rinunciare al matrimonio per consacrarsi a Dio, il fidanzato la denuncia.

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Seguono minacce e torture: vogliono avviarla alla prostituzione, ma lei diventa pesante come un macigno; la condannano al rogo, ma le fiamme la risparmiano; alla fine la uccidono trapassandola a fil di spada. E quando cessa la sua vita, inizia la sua fortuna. Ecco perché Francesco della Cossa le mette gli occhi-germoglio fra le dita! Sì, una nuova vita germoglia, ogni qualvolta la si perde per Cristo e per la sua Verità: ecco il dono di Lucia! La corona con sette candele delle giovani svedesi ricorda la sua carità: Lucia scendeva nelle catacombe a curare gli infermi recando una luce sulla testa per poter camminare nel buio. Forse per questo lei nasce al Cielo nel giorno più corto dell’anno, per essere una luce nella notte del mondo. Siamo un po’ meno a disagio, ora, di fronte agli occhi-germoglio della Santa, ora sappiamo perché ci guardano: che si possa incominciare a vedere, nonostante si viva nel periodo più miope della post modernità. Che germogli in noi uno sguardo nuovo per riconoscere la via. Che Lucia ci possa guidare verso la vera Luce, quella che apre all’intelligenza delle cose, quelle del Natale che rischiamo di non più riconoscere.
Immagini: Francesco del Cossa, Santa Lucia (dal Polittico Griffoni), 1472-1473 tempera su tavola 79 cm × 56 cm  National Gallery of Art, Washington
Furini Francesco, Santa Lucia, 1630 – 1646, olio su tela, cm 68,5 x 51,8. Galleria Spada, Roma     

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza


mercoledì 10 dicembre 2014

Pericolo digitale

Segnalo l'interessante dossier apparso su Dimensioni Nuove, nel numero 7 di settembre-ottobre 2014. Vai al seguente link:  http://www.dimensioni.org/2014/09/pericolo-digitale.html

A questo proposito, la classe 3E, riflettendo in classe sui rischi connessi all'uso dei mezzi digitali (smartphone, socialmedia, ecc.) ha prodotto e pubblicato questo podcast


domenica 7 dicembre 2014

La nascita di Gesù nel polittico di Hugo van der Goes














Il 28 maggio del 1483 giungeva a Firenze via mare fino alla foce dell'Arno e poi via fiume, un imponente trittico e veniva collocato nella cappella Portinari della chiesa di Sant'Egidio nell'Ospedale di Santa Maria Nuova. La tavola proveniva dalle Fiandre ed era stata dipinta da uno dei più famosi e capaci pittori di quella terra: Hugo van der Goes. L'artista era nato a Gand attorno al 1440. Fu iscritto alla corporazione dei pittori nel 1467 e lavorò in diverse città delle Fiandre. Colpito da una grave malattia mentale, si ritirò in un monastero e vi morì a soli 42 anni.
Il polittico, capolavoro del pittore, era stato commissionato da Tommaso Portinari, un agente del banco dei Medici di Firenze nelle piazze del Nord Europa. L'opera, realizzata a Bruges, databile tra il 1477 e il 1478, è dipinta su tre tavole unite da cerniere, lo scomparto centrale reca una Adorazione dei pastori.


Nei due scomparti laterali, mobili, sono raffigurati i membri della famiglia di Tommaso Portinari e i lor santi patroni: a sinistra il capo famiglia con i due figli maschi Antonio e Pigello;


a destra la moglie Maria con la figlia Margherita.


Alle spalle dei maschi San Tommaso apostolo e Sant'Antonio Abate, mentre sullo scomparto opposto sono ritratte Santa Maria Maddalena e Santa Margherita. Il significato iconografico dell'Adorazione è complesso. La scena è incentrata sulla figura di Maria che inginocchiata adora a mani giunte il Figlio. Il piccolo è adagiato su un lettuccio di paglia, a significare la povertà della sua nascita.


San Giuseppe è defilato in un angolo, quasi nascosto da una colonna della tettoia. Arcangeli ed Angeli sono rivestiti
 con l'abito proprio della loro categoria: i ricchi piviali di prezioso broccato sono per gli arcangeli, altri hanno un camice bianco e la stola del diacono oppure indossano lunghe tuniche azzurre come i ministranti e tutti fanno corona alla scena centrale. Un'attenzione particolare meritano i pastori giunti alla capanna dopo l'annuncio degli angeli: i loro volti, le vesti e gli atteggiamenti sono di un realismo esemplare; sono pastori "veri", come quello in primo piano, con il viso rugoso e con la barba ispida, ma tutti sembrano impacciati, come se dovessero presentarsi ad un personaggio importante.


Anche i particolari hanno la loro valenza nel dare significato all'evento: i sandali abbandonati (forse dello stesso Giuseppe) fanno riferimento al testo di Esodo 3,5, quando Mosè si avvicina al roveto ardente e Dio gli comanda di togliersi i sandali perché il luogo che calpesta è santo.


La natura morta fatta da due vasi pieni di fiori, un'albarella e un bicchiere di vetro sono il simbolo della passione e morte di Gesù: i gigli rossi simboleggiano il sangue della passione, gli iris bianchi la purezza mentre gli iris purpurei e l'aquilegia i dolori di Maria.  Il covone di spighe abbandonato quasi per caso è un chiaro riferimento all'Eucarestia.



Altri particolari, sullo sfondo delle tre tavole, narrano il prima e il dopo della nascita di Gesù: alle spalle dei pastori si intravvede il riferimento alla visita di Maria alla cugina Elisabetta e poco più distante, l'annuncio degli angeli a quegli stessi pastori che per primi, sono giunti alla stalla. Nell'anta di sinistra, tra le rocce alle spalle di Sant'Antonio si intravvedono Maria e Giuseppe che affrontano il viaggio alla ricerca di un posto dove alloggiare, mentre sullo scomparto opposto il paesaggio è animato dalle avanguardie e dello sparuto corteo dei Magi.
L'impatto di questo polittico sulla pittura fiorentina dell'epoca fu dirompente. Il realismo dell'ambientazione e dei personaggi sconvolse gli schemi di alcuni pittori le cui opere, forse erano ancora piene di preziosismi tardogotici. Anche pittori del calibro di Filippino Lippi e di Leonardo da Vinci studiarono l'opera cercando ispirazione da simile originalità.
Basta ammirare la tavola della Natività di Domenico del Ghirlandaio sull'altare della cappella Sassetti nella chiesa fiorentina di Santa Trinità, datata 1485 per rendersi conto dell'attenzione e dell'entusiasmo che accompagnò il suo arrivo nella città toscana.

Il Trittico Portinari e un dipinto olio su tavola (253x141 cm i pannelli laterali, 253x304 quelle centrale) di Hugo van der Goes, databile al 1477-1478 e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

da Dimensioni Nuove, numero 9/2014

La natività del Ghirlandaio

Francesco Sassetti, un ricco banchiere fiorentino, aveva commissionato a Domenico del Ghirlandaio la decorazione della cappella di famiglia nella chiesa fiorentina di Santa Trinità. Il pittore l'aveva decorata, dalle volte fino alle quadrature di base, con affreschi dedicati alla vita di San Francesco, il patrono del Sassetti e vi aveva lavorato tra il 1482 e il 1485. Conclude l'opera con la pala dell'altare dove vi dipinge un'adorazione dei pastori. La scena è tradizionale: Maria in ginocchio adora il piccolo Gesù. San Giuseppe è teso con lo sguardo ad osservare gli angeli che annunciano ai pastori la lieta notizia. Già il corteo dei Magi si sta avvicinando, attraversa un arco di trionfo ad un unico fornice: la scritta, in latino, della trabeazione dice 'Eretto in onore di Gneo Pompeo Magno per volere di Ircano sacerdote del Tempio'.  La cultura classica era di casa nella Firenze della fine '400 e il Ghirlandaio dimostra di essere alla moda riportando sul sarcofago che serve da mangiatoia all'asino e al bue, sciorina la sua erudizione (forse con l'aiuto di un qualche intellettuale della cerchia medicea) la profezia dell'augure Fulvio, ucciso durante la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo: dal suo sarcofago sarebbe nato un dio, alludendo a Gesù che avrebbe sconfitto il paganesimo. Il gusto classico è ulteriormente confermato dai pilastri scanalati corinzi che sostengono la tettoia; su un plinto il pittore ha messo la data di esecuzione: MCCCCLXXXV. Alcuni particolari rimandano direttamente al polittico di Hugo van der Goes: il vivace realismo delle figure dei pastori in adorazione sono una citazione diretta di quelli del pittore fiammingo. I particolari come la sella e la borraccia e il piccolo cardellino, figura della passione di Cristo e lo splendido paesaggio del fono sono debitori della cultura fiamminga. Il realismo delle Fiandre dimostra di aver fatto il suo ingresso trionfante a Firenze. Pare che il pastore che indica ai compagni il piccolo Gesù sia l'autoritratto del pittore.

da Dimensioni Nuove, 9/2014

sabato 6 dicembre 2014

Il vero San Nicola, le sfere della provvidenza

Ti guarda quasi minaccioso il San Nicola di Antonello da Messina della Pala di San Cassiano. Ti guarda ostendendo il libro della Sacra Scrittura con sopra tre sfere dorate, attributo frequente del Vescovo di Myra. Il loro significato risale alla storia del Santo che, prima ancora di essere consacrato vescovo, venne a conoscere il caso di una famiglia nobile e ricca, caduta in miseria. Il padre, vergognoso dello stato di povertà in cui versava, decise di avviare le figlie alla prostituzione. Nicola, nascostamente, lasciò scivolare dalla finestra dell’abitazione dell’uomo tre palle d’oro con le quali il padre poté maritare le figlie e risparmiare loro l’onta della prostituzione.

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Si comprende allora lo sguardo minaccioso del santo di Antonello: la fame non ci induca a comportamenti che ledono la dignità dell’uomo. La fede sostiene e la grazia viene in aiuto con la provvidenza. Un medesimo invito alla fiducia in tempo di crisi lo lancia Santa Maria Maddalena che, accanto a san Nicola, regge un vaso con l’unguento prezioso. Quel nardo che Giuda avrebbe venduto, per darne il ricavato ai poveri, Cristo lo rivendica per sé, assicurando che nulla sarebbe mancato a chi si fosse occupato di lui. Tutto questo, ahimè, male si accorda con l’attuale immagine del celebre vescovo di Myra, diventato l’emblema del Natale, grazie alla figura di Babbo Natale. Basta digitare in internet Natale, Santa Claus o san Nicola ed ecco apparire le più disparate rappresentazioni di Babbo Natale soprattutto legate alla Coca Cola. Spesso le immagini scadono nell’indecenza più amara dove, i bambini e il santo vegliardo portadoni, e tanto meno la diffusa Coca Cola, c’entrano poco. Vero è che la scristianizzazione del Santo iniziò dalla bevanda più famosa del mondo, quando nei primi decenni del 1800 San Nicolaus (da cui Santa Claus) divenne, grazie a una poesia di Clement Clarke Moore (o per alcuni di Henry Livingston Jr.), il Babbo Natale che tutti conosciamo.

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Questi, come il San Nicola di Antonello da Messina, inizialmente vestiva di marrone o di verde ma, a dipingerlo in rosso, fu il primo illustratore delle pubblicità della Coca, Haddon Sundblom, associando Santa Claus ai colori della bevanda per sempre. In una delle prime pubblicità, del 1931, appare già il Santa Claus in edizione commerciale. Qui di san Nicola non resta che un pallido ricordo e dell’attributo dei tre globi d’oro restano solo i campanelli appesi al berretto e i tre vistosi bottoni dorati, in evidenza è, invece, il bicchiere della Coca Cola con il quale il Santo brinda al Natale.  Proprio il mese scorso moriva in Gran Bretagna, all’età di 85 anni, John Moore, il Babbo Natale degli spot pubblicitari. Insomma San Nicola e le sue tre sfere hanno fatto molta strada, passando dalla casa del nobile di Patara ai nostri alberi di Natale come promessa di una provvidenza che non viene meno e di una visita dall’Alto che non mancherà di portare frutti nella vita.

Immagini: Pala di San Cassiano Antonello da Messina (1475-76) olio su tavola 55,9cm×35cm
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Cartellone pubblicitario della Coca Cola del 1931 ideazione di Haddon Hubbard Sundblom
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

Un filo per non perdersi nel labirinto della vita

Così sovente si sente l'espressione «ho perso il filo» che neppure più pensiamo all'origine dell'eponimo. Perdere il filo può essere in verità un gran danno, specie quando si parla in pubblico e la consequenzialità dei pensieri ci abbandonano per un attimo: lo smarrimento è totale. Non è tuttavia così drammatico come lo sarebbe stato per Teseo che, costretto dentro i meandri del labirinto del Minotauro aveva quel filo di Arianna che lo legava all'uscita, unica via di salvezza, dopo l'uccisione del Mostro. Il labirinto è citato anche nella Bibbia a proposito di uno dei cortili del tempio di Salomone. Non a caso nelle cattedrali medioevali (famosa è certamente quella di Chartre), la sequenza di cerchi concentrici che costituiscono il percorso è interrotta in alcuni punti da sbarramenti detti Nodi (o labirinti) di Salomone. La distanza che intercorre fra l'ingresso del labirinto e il centro è breve, ma per raggiungere il centro - almeno nel labirinto di Chartre - occorre percorrere 261,5 m e tutto ciò volutamente. I percorsi del labirinto, nelle cattedrali, erano detti anche Chemins à Jérusalem e sostituivano il pellegrinaggio in Terra Santa. Spesso si percorrevano in ginocchio, con un rosario al collo, pregando per la salvezza o della propria anima o dell'anima della persona per la quale si chiedeva la grazia. Sieger Köder, artista tedesco contemporaneo, realizza una curiosa versione del percorso di Chartre: al centro del labirinto non trionfa Teseo che uccide il Minotauro, né si vede Arianna, all'esterno, in trepida attesa; non dipinge i fedeli di Chartre che imboccano quel sentiero pregando in ginocchio, ma al centro del labirinto c'è un albero di vita nel quale fiorisce un mazzo di rose. Dietro si scorge il rosone della cattedrale di Chartre quasi a evocare, con i suoi bagliori di luce, Colei alla quale la cattedrale è dedicata: la Vergine Madre (vera Arianna per Köder). Le rose sono quattordici come le tradizionali stazioni della via Crucis del Salvatore. L'artista ci aiuta a comprendere, dunque, come il cammino verso Gerusalemme, che fiorirà per Cristo nella risurrezione, è un cammino spinoso.

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Pessimista e inclemente verso il tema religioso del labirinto, la fotografa e artista russa Larissa Kulik. Nella sua illustrazione digitale «Il giovane melo», colloca al centro di un labirinto il biblico albero. La solitudine che regna in questa immagine è drammatica. Nessuno s’interessa più al percorso di santità che l’antico labirinto di Chartre ancora propone. Qualcuno, che ha desiderato intraprendere il percorso, è morto all’esterno e se ne vedono i resti alla destra dell’immagine. Il labirinto è abbandonato all’erosione del tempo e anche il filo di Arianna giace a terra dimenticato. Soltanto due corvi vigilano sul tracciato, forse in attesa di qualche altro sfortunato pellegrino pronto a diventare loro preda. Larissa incarna, nella sua opera, quell’umanità che ha perso il filo della straordinaria meta per la quale è nata e ha abbandonato il desiderio.

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Immagini: Sieger Köder, Labirinto e rose, Olio su tela 1991-1992 Collezione Privata
Larissa Kulik, Giovane melo nel labirinto, Illustrazione digitale

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza