giovedì 30 ottobre 2014

L'origine cattolica delle mele di Halloween

L’artista ottocentesco irlandese Daniel Maclise immortalò, in diverse opere, le celebrazioni notturne di Halloween, in cui è possibile vedere uno dei giochi più usati in quella circostanza. Tali giochi (come pure la festa) prendevano le mosse da un’usanza cristiana.

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Il gioco cristiano era detto di Adamo ed Eva o gioco dell’albero. Su un albero, spesso una conifera – simbolo della Trinità - si appendevano mele e ostie: le prime, cibo di Eva, madre dei morenti; le seconde, cibo di Maria, madre dei viventi. Bimbi bendati dovevano accostarsi all’albero e ricevere le cibarie da due bambine che rappresentavano Eva e la Madonna. Occorreva riconoscere le mani dell’una e dell’altra e acquistarsi la vita eterna, con le ostie, o la morte, con le mele.

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Il celebre Polittico dell’Agnello di van Eyck, il cui tema di fondo è proprio la festa di Ognissanti, pone, all’interno del polittico, in alto ai lati, proprio i due progenitori dove Eva tiene fra le mani una mela. La Madonna invece, ha in mano il libro della vita e indica, con il capo, Dio Padre che ha sul trono il ricamo del pellicano, segno del banchetto di vita cui il Figlio suo (presente sotto in forma d’agnello) invita. Secondo la Legenda aurea il 1° novembre tutti i Santi si recano in Paradiso a rendere omaggio alla Trinità, cosicché van Eyck raffigura otto gruppi di uomini e donne, rappresentanti di tutti i ceti della società di allora che, come esponenti delle beatitudini, salgono a Dio esultanti. La festa dei defunti era strettamente legata, a livello cristiano, a quella dei santi, cosicché Halloween nasce come festa cattolica tesa a rassicurare circa il destino eterno dei propri cari.

In una illustrazione del 1840 Maclise mostra, appunto, un gioco vigente ancor oggi ad Halloween: lo snap apple (addenta la mela). Bambini con le mani legate devono addentare una mela che viene gettata in un secchio d’acqua o fissata su un’asta incrociata. È evidente, dunque la valenza simbolica dei giochi, che producendo una cultura popolare, erano tesi ad educare. Nel corso dei secoli la festa di Halloween, anche a causa delle polemiche (luterane prima e puritane poi) che la tacciarono di magia e di esoterismo, è scivolata verso una cultura del macabro e dell’occulto che poco ha a spartire con la sua origine cattolica. Lo esprime il gioco stesso della mela: il primo educava a capire come nella vita siamo tutti bendati e che occorre affinare i sensi per scegliere bene. Il male, infatti, ha una sua appetibilità (com’è appetibile la mela), ma porta alla morte, mentre il bene non sempre porta con sé una soddisfazione immediata (come l’ostia), ma apre a una vita senza fine. Il secondo, invece, educava a lasciar liberi gli istinti (la bocca) legando le mani – cioè escludendo la ragione - per conquistare quel frutto a danno di altri.
 
Immagini:
Daniel Maclise (1806-1870) Snap-Apple Night (Festa di Halloween in Blarney Co. Cork) 1832 litografia colorata a mano.
Jan e Hubert van Eyck Adorazione dell’Agnello Mistico, Polittico, 1432, olio su tavola, 350 x 461 cm. Cattedrale di San Bavone, Gand. 

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 25 ottobre 2014

Riflessioni sul tema della vita come viaggio

In questo inizio di anno scolastico sto riflettendo con le classi terze sul tema della vita come viaggio. Un viaggio dall'uomo alla persona nel senso che ogni uomo nel corso della sua esistenza va formando una propria personalità. Si tratta di un viaggio fatto di tappe, tra le quali una delle più importanti è di sicuro l'adolescenza. Tra i materiali che ho usato per far riflettere i miei studenti ho usato la canzone Life is Sweet di Fabi, Silvestri, Gazzè.



Molto bello l'articolo di Pino Fanelli, su Insegnare Religione di settembre/ottobre 2014, che va a prendere in esame alcuni passaggi della canzone, di cui riporto di seguito il testo completo.

Disteso sul fianco passo il tempo, passo il tempo
fra intervalli di vento e terra rossa.
Cambiando cambiando prospettive
cerco di capire il verso giusto,
il giusto slancio per ripartire.

Questa partenza è la mia fortuna
Un orizzonte che si avvicina
Sotto il mio camion c'è la mia cucina
e intanto aspetto aspetto aspetto
che il fango liberi le mie ruote
che la pianura calmi la paura
che il giorno liberi la nostra notte
tutti insieme, tutti insieme


Ma tutti insieme siamo tanti, siamo distanti
siamo fragili macchine che non osano andare più avanti
siamo vicini ma completamente fermi
siamo famosi istanti divenuti eterni
E continuare per questi pochi chilometri sempre pieni di ostacoli
e baratri da oltrepassare sapendo già
che fra un attimo ci dovremo di nuovo fermare


Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
Con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!


Un ponte lascia passare le persone
un ponte collega i modi di pensare
un ponte chiedo solamente
un ponte per andare andare andare


E non bastava già questa miseria
Alzarsi e non avere prospettiva
E le punture quando viene sera
e la paura la paura


La paura che ci arresta che ci tempesta
non insetti che volano ma proiettili sopra la testa
È una puntura ma direi che è un po' diversa
La cura c'è ma l'aria non è più la stessa


E continuare non è soltanto una scelta
ma è la sola rivolta possibile.
Senza dimenticare che dopo pochi chilometri
ci dovremo di nuovo fermare


Da qui passeranno tutti o non passerà nessuno
con le scarpe nelle mani, in fila ad uno ad uno
Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet!


A prescindere dal tempo che è un concetto qui inutilizzabile
mi basterebbe avere un posto giusto da raggiungere


Da qui passeranno tutti fino a quando c'è qualcuno
perché l'ultimo che passa vale come il primo
Life is sweet! Life is sweet!


E qui il link al podcast sullo stesso argomento costruito dalla classe 3E:

Il nuovo libro di Alessandro D'Avenia: Ciò che inferno non é


venerdì 24 ottobre 2014

Lo sguardo dall'alto, per capire cos'è importante

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Raccoglie l’eredità di Arcimboldo, e forse di molti altri ancora, come Bosch e Bruegel, come Rembrandt, come Dalì, raccoglie questa preziosa eredità e la trasforma in modo del tutto personale. Si chiama Andre Martins de Barros è nato ai piedi dei Pirenei, a Pua, è francese, ma nelle sue vene scorre tutta la passionalità del mondo ispanico. Le sue opere parlano di terra, di corpi umani, ma hanno lo struggente desiderio di vedere tutto dall’alto. I temi religiosi non sono molti, eppure quelli presenti sono significativi. Barros è ossessionato dalla figura di Dio Padre che, come vegliardo, scruta il mondo. Un mondo che piange, un mondo che dovrebbe essere avvolto nella luce, mentre è oscurità e legno.
Di Dio Padre vedi soprattutto le mani, vedi la sua opera, perché il volto – come dicevano gli antichi – non lo si può vedere appieno. E tuttavia è tenerissimo il gesto di quelle mani che sollevano la terra, un globo di legno che – come afferma il titolo – piange: Pleurs de terre. Il pianto della terra Dio lo vede: vede le gocce del mare delle lacrime cadere nell’universo; vede le fiamme di un mondo in guerra salire al cielo. Ma Dio Padre non cessa neppure di vedere come dovrebbe essere questa nostra terra: azzurra e luminosa, come Barros ce la mostra nel punto più profondo della tela, quasi pronta a emergere nella bellezza della sua vera identità.

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Una delle sue tele s’ispira a Cristo. Il titolo è Golgotha e percepisci immediatamente un crocefisso: Cristo è centrale, circondato da una corona di spine immensa come se tutto il dolore del mondo fosse convenuto lì, attorno alla croce. E in effetti, tutto il dolore del mondo è nascosto dentro la cifra del Golgotha sopra il quale salgono infinite schiere di cristiani. Le vediamo attorno al Cristo assiepate, sofferenti. Ci sono uomini di ieri e di oggi. Ci sono anche i due ladroni, ci sono i profeti, ci sono gli apostoli in primo piano. Forse c’è anche Pietro che porta il suo fascio di ulivo: porta la pace a un mondo che, della pace, non sa che farsene.
Ma quella stranezza che avverti subito, tipica dei dipinti dell’Arcimboldo, quella stranezza che ti fa vedere non un gruppo umano, ma un volto, ti cattura. Non ti permette di indugiare sulle singole figure, sei costretto ad allontanarti con lo sguardo per guardare la scena dall’alto. E allora vedi: è il volto di Cristo che sofferente, eppure maestoso. Si leva dalla terra, si leva come le catene montuose di questa nostro pianeta, si leva imponente e capace di dare senso a tutta la storia. Capace, come i monti, di dare rilievo.

Forse dovremmo conquistare il medesimo sguardo, in quest’ora difficile, dove le parole si sono sollevate come spade attorno al Sinodo; parole che volevano essere pacifiche, ma sono diventate roventi. In quest’ora dove le immagini di un mondo crocefisso, il mondo dei martiri cristiani, si leva a giudicare le nostre piccole beghe quotidiane, i giochi politici, gli equilibri di un potere stanco. Ecco, Barros ci rieduca a uno sguardo diverso, dall’alto. Dove poter vedere finalmente ciò che conta: il rilievo di una Chiesa che in ogni ora della storia conserva in sé l’impronta del suo Fondatore. Quel volto di Cristo che mai l’abbandonerà.

Immagini:
André Martins de Barros, Pleurs de terre, olio su tela, 2006, Collezione Privata
André Martins de Barros, Golgotha, olio su tela, 2006, Collezione Privata

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

venerdì 10 ottobre 2014

Lo specchio della famiglia post moderna

Il titolo è già di per sé significativo: Gli sposi Arnolfini dopo van Eyck. È il dipinto di Botero che riproduce una delle famiglie più celebri del mondo, i coniugi Arnolfini.

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Van Eyck aveva disseminato l’opera di simboli cristiani: il rosario appeso alla parete; lo specchio con i misteri dolorosi e il riflesso dei due testimoni di nozze; il candelabro con sei candele, simbolo del sesto giorno, una sola delle quali accesa; i piedi scalzi di lui, per dire che il matrimonio è una terra santa; la statuetta di Santa Margherita, patrona delle partorienti e gli zoccoli di lei ai piedi del letto, quasi a denunciare la malattia per un parto difficile e, infine, il cane della fedeltà. Per van Eyck il benessere dei coniugi era segno della loro fede, la quale nell’ora della prova (come quella di una possibile morte di parto), teneva uniti i due sposi. I due testimoni, poi, ritratti nello specchio dei quali uno è lo stesso van Eyck, erano garanti di un patto indissolubile che non si arresta nemmeno di fronte alla morte.

Tutto questo nella rivisitazione di Botero del 1978 non c’è più. Quel dopo van Eyck disegna il profilo della famiglia post moderna, dove ogni senso mistico è azzerato.

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Le candele di Botero sono tutte spente: il tempo dell’amore è finito. L'uomo non è scalzo, ma porta comode pantofole da casa, mentre gli zoccoli - in primo piano - sono quelli della donna. L'allusione alla sacralità della coppia, evocato dal gesto biblico del togliersi i calzari è, dunque, totalmente assente. Qui il marito si è impoltronito mentre la donna, con gli zoccoli abbandonati in direzione della porta di casa, sembra presa dalla febbrile tentazione di evadere, frenata solo dalla custodia dello sposo e del cane da guardia.  Anche i riferimenti religiosi sono stati tolti: non c'è la statua lignea di Santa Margherita, forse perché nessuna donna muore più di parto ed è piuttosto il feto a morire; non ci sono le decorazioni con i misteri della vita di Cristo attorno allo specchio e, quindi, nessun riferimento esplicito alla dimensione del tempo o del dolore, vissuti nella fede; tanto meno c’è il rosario appeso alla parete. In Botero tutto è appiattito, la camera è ridotta all’essenziale, perché impoverito e ridotto all’essenziale è, oggi, il sacramento del matrimonio e il ménage coniugale. Il dramma si consuma tuttavia proprio dentro il riflesso dello specchio che, come in van Eyck, è il punto focale dell'opera. Nella versione di Botero lo specchio non riflette che i due sposi e una porta socchiusa: la coppia versa in una dolorosa solitudine e deve fare i conti con la continua tentazione di evadere dal quotidiano. Ecco per Botero lo specchio della famiglia attuale: l’individualismo narcisista, la capricciosa volontà di godere solo per sé senza dare la vita per nessuno e, infine, la scomparsa della fede che garantisce i principi fondamentali dell’esistenza e conferma i passi degli sposi nell’ora del dolore.
 
Immagini:
Jan Van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini 1434, olio su tavola 81,8 cm × 59,4 cm National Gallery, Londra
Fernando Botero Gli sposi Arnolfini dopo van Eyck, olio su tela, 1978
 
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

sabato 4 ottobre 2014

L'origine del senso religioso

Ciò che fa essere l'uomo un uomo e lo distingue dagli altri esseri viventi è la capacità di pensare, ragionare e porsi domande. É lo stupore, la meraviglia di fronte alle cose del mondo, agli spettacoli della natura e alle forze che essa manifesta che ci fa porre domande come queste: Chi? Che cosa? Perché? Che senso ha?



Oggi 4 ottobre è la festa di San Francesco d'Assisi. Egli nel 1224, due anni prima della morte, aveva passato un lungo periodo di degenza nella sua diletta san Damiano: e lì aveva composto la più alta opera di poesia di tutta la storia della lingua italiana, il Cantico delle Creature.
Eccolo nella versione di Angelo Branduardi.




Bello il seguente video che presenta i segni della presenza religiosa fin dagli inizi dell'umanità




giovedì 2 ottobre 2014

Pace e bellezza nel segno della Sacra famiglia

Sta contro l’albero secco, che divide in due la scena, l’angelo musicante del Riposo durante la fuga, di Caravaggio. È un angelo musicante, sensuale, com’è sensuale il Cantico dei Cantici, ambiente simbolico del dipinto.

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Ci sentiamo attirati dall’occhio profondissimo dell’asino che sta dietro san Giuseppe il cui sguardo estatico è fisso verso il musico. Da qui comincia il percorso che l'artista ci obbliga a seguire, dal volto mesto di Giuseppe che, stanco del viaggio, strofina un piede contro l'altro per riprendere forza e calore. La meta del viaggio è indicata dallo spartito minuziosamente vergato, un versetto del Cantico musicato dal compositore fiammingo Noel Bauldewijn: Quam pulchra es, et quam decora, carissima, in deliciis! La meta è, dunque, la bellezza immacolata della santità che l'unione con Cristo assicura. Giuseppe è segno dell’umanità sopra la quale grava il peso dei peccati, come sopra l'asino grava la soma, ma che desidera raggiungere la pace perfetta incarnata dalla Vergine che culla il Figlio dormiente. È lei l'oggetto dei versi della Cantica; lei, col Figlio suo, è la meta del viaggio, la vera pace cui tutti anelano. Il quadretto famigliare doveva riportare Caravaggio a ricordi della sua infanzia, come il paesaggio lombardo, l’unico dell’artista, che sprofonda all'orizzonte. I genitori di Caravaggio si chiamavano tra l’altro, Fermo e Lucia, come i futuri Promessi Sposi nella prima versione del Manzoni. Di recente questo dipinto è stato goffamente interpretato, travisandolo, in nome di certe tendenze omosessuali attribuite al Merisi. Sì, l'angelo è nudo e carnale, efebico, ma la sua carne splende di madreperla e porta con sé la luce di quel Cielo donde arriva. La nostra fede coinvolge la carne dell'uomo, fino ai suoi impulsi, non per lasciarla dov’è, ma per riscattarla dalla morte e spingerla a un amore, scevro da ogni cedimento testimoniato dalla famiglia di Nazareth, che si compie in Cristo e nella sua eternità. Del resto il destino di Cristo è rappresentato dagli infiniti simboli della tela: elementi che alludono alla passione, come l'asino e la corda rotta del violino; l’immancabile tasso barbasso ai piedi della Vergine, rimando alla rinascita spirituale; il fiasco del vino, segno dell’Eucaristia; fino al balenio luminoso del lenzuolo di cui è rivestito l'angelo, promessa di risurrezione. Insomma, nessuna maliziosa ambiguità nell’opera, nessuna spada di Damocle sopra la famiglia, ma profondissima meditazione sulla grazia che avvolge le più grandi passioni umane capaci di cantare il divino, come il Cantico dei Cantici.

Immagini: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, 1595-1596, olio su tela 135,5 cm × 166,5 cm, Galleria Doria Pamphilj, Roma.
da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza