giovedì 31 luglio 2014
Il velo e il finocchio, la vita che non inganna
É una vergine nordica quella dipinta da Marianne Stokes, artista austriaca del XIX secolo. Una Vergine Madre che rimanda alle tante Madonne del velo seminate nella storia dell'arte: la Madonna del velo di Raffaello, la Madonna del velo di Umberto Giunti, attribuita erroneamente a Botticelli. Madonne le quali, sollevando il velo che nasconde il divino Bambino, sembrano dire con il loro gesto: «Sotto il velo della carne si nasconde il Verbo dell'Altissimo, nato per morire». Forse per questo la Madonna della Stoke è anche un’Addolorata. Lo dicono i colori dell'abito, il rosso del sangue, il blu del Mistero. Lo dice lo sguardo mesto rivolto a noi, che rimaniamo quasi indifferenti di fronte al miracolo inusitato di un Dio che si fa uomo. Della passione, del destino di questo bambino, apparentemente uguale a tutti gli altri bambini, narrano gli arbusti spinosi sullo sfondo. Una girandola di spine che presto avvolgeranno il capo del Salvatore.
Spicca tra esse un arbusto strano, ma inconfondibile per quanti amano andar per campi a raccogliere erbe, il finocchio selvatico. Un simbolo raro nell’arte, ma non sulla tavola. Un tempo, infatti, si era soliti offrire, con il vino meno buono, dolci al finocchio per la proprietà aromatica di questi semi capaci di correggere i difetti del vino. Per questo si prese ad usare il vocabolo “infinocchiare” col senso preciso di trarre in inganno. Non a caso la Madonna ha un abito dorato, tempestato di grappoli d’uva: quello che Cristo dispensa è il vino buono della gioia e della salvezza. Lo scopriranno quanti saranno fedeli nella tribolazione e lasceranno che si sollevi, per tempo, il velo della verità.
Il finocchio, infatti, ha la duplice valenza simbolica della forza e del tradimento. Non sono poche le nature morte che, mediante la comparsa di quest’ortaggio insieme con altri elementi, alludono alla Vanitas, cioè alla caducità della vita. Una di queste reca la firma di Carlo Magini, pittore marchigiano, del periodo barocco. Accanto a due finocchi in primo piano, egli dipinge due pezzi di carne (lombata di vitello), appena macellata, freschissima, e fra questi oggetti spicca un’arancia, frutto dorato che evoca l’albero della vita. Il simbolismo è chiaro: da un lato la carne con i suoi richiami e dall’altro l’inganno entro il quale la carne può trascinare a motivo del peccato. Dietro, una candela spenta e un fiasco di vino chiuso in modo approssimativo da una carta, raccontano della corruzione di tutte le cose, che incombe sul presente: la luce che si spegne, il vino che inacidisce. E noi, immersi in tutto questo, siamo appesi a un filo, in bilico come la tazza da caffe e il coltello in primo piano. Occorre qualcosa di certo che ci permetta di vivere il presente nella certezza del futuro. Tornano alla mente le sfide attuali. Di fronte ai diversi dibattiti sul genere, sui principi non negoziabili, di fronte all’appello accorato del Santo Padre contro eventuali guerre, la riflessione su ciò che veramente conta s’impone. E s’impone, ahimè, solo quando ciascuno di noi è messo di fronte al crudo realismo dei problemi, dove nessun tentativo di infinocchiare la realtà tiene. È bello allora trovare riposo fra le braccia di una Madre, come quella che ci offre Marianne Stoke, una madre capace di aiutarci a sollevare il velo che copre le coscienze, scoprire le falsità e giudicare tutto a partire da quella dimensione eterna che ci attende, dove tutto cadrà e solo la verità resterà, appunto, senza velo.
Immagini
Marianne Stokes (1855-1927), Madonna col Bambino, 1907-08 Tempera su pannello, 88 x 119 cm. Wolverhampton Art Gallery, West Midlands, UK
Carlo Magini (1720-1806), Natura morta 1760 Olio su tela, 55x84 cm. Collezione Privata
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
sabato 26 luglio 2014
venerdì 25 luglio 2014
giovedì 24 luglio 2014
Emergenza
Il medico del pronto soccorso al paziente:
- É lei l'arbitro di calcio che ha inghiottito un fischietto?
- Fìììììììììììììììììììì!!
- É lei l'arbitro di calcio che ha inghiottito un fischietto?
- Fìììììììììììììììììììì!!
Colmo
Qual è il colmo per un imbianchino?
Farsi dare una mano!
E per un cuoco pigro?
Cucinare a fuoco lento!
Farsi dare una mano!
E per un cuoco pigro?
Cucinare a fuoco lento!
Passiflora, quando un fiore illustra la Passione
Quando il frate agostiniano spagnolo Emmanuel Villegas tornò dal Messico nel 1610 con il disegno della passiflora, il mondo cristiano fu scosso da un fremito: davvero il Nuovo Mondo era simile all'Eden biblico e quel fiore sembrò la prova vivente della passione del Messia. Ogni singola forma della passiflora ricompone simbolicamente gli eventi della Pasqua: la corolla rimanda alla corona di spine, le cinque antere alle piaghe del Signore, i tre stigmi ai chiodi usati per la crocifissione; l'ovario rappresenta il calice dell'Ultima cena, i dieci petali gli apostoli che non tradirono Gesù, la foglia la lancia che trafisse il suo costato e, infine, i frutti, che nascondono piccoli semi rossi, simboleggiano il sangue versato sul Calvario.
Così dal XVII secolo in poi fiorirono opere e leggende attorno a questo misterioso fiore messicano. Una di queste riguarda la Maddalena, che il mattino di Pasqua entrando nel sepolcro trovò, invece del corpo del Signore, il fiore della passiflora. Benché rovinata, un'immagine rara della Maddalena con il fiore della Passione la si trova a Trento, nel Museo dei Frati di San Bernardino.
Un altro dipinto con la passiflora ce lo regala Joos van Cleve, artista fiammingo della Scuola di Anversa: una Madonna pensosa tiene in grembo Gesù infante. Questi sembra correre verso il suo destino, mentre si volge a guardare i fiori che la Madre tiene nella mano destra. Sono due: un garofano rosso, simbolo dell'umanità di Cristo, e una passiflora, con evidente rimando alla passione per la corolla che disegna una corona di spine. I colori dominanti sono quelli dei trinitari: bianco rosso e blu. Alla Trinità, del resto alludono le ciliegie tenute alte dal Bimbo. Rosso e blu indicano poi le due nature di Cristo, umana e divina, mentre il bianco, qui significativamente rappresentato dal drappo che cade sulla spalla della Vergine, rimanda alla risurrezione e al telo sindonico.
Due versioni di questo dipinto hanno solo il garofano e non la passiflora che, peraltro, si conobbe in Europa ben 80 anni dopo la morte di van Cleve. Il fiore può essere un'aggiunta successiva da parte di chi desiderò rafforzare il simbolismo dell'opera. Il Cristo, infatti, si volge preoccupato verso la passiflora, mentre a passo lesto corre in direzione del telo e delle ciliegie, simboli della vita Trinitaria. Sì, la morte incute timore, anche a Cristo ma, come assicura van Cleve, il disegno della Trinità è rendere certo l'uomo di un destino di bellezza, come bella e profumata è la dolorosa passiflora.
Immagini
Anonimo, Santa Maria Maddalena, olio su tela, XVIII sec. Fondazione biblioteca San Bernardino Trento.
Joos van Cleve, Madonna con il Bambino, olio su pannello, 1530/35 Art Museum Cincinnati.
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
mercoledì 23 luglio 2014
Estate
É tempo di mietitura e l'erba sta per essere tagliata. La mucca cerca di consolarla: - Foraggio...Foraggio...
lunedì 21 luglio 2014
Al Polo
Due donne eschimesi si incontrano: - Ma dov'è finito il tuo igloo? - Cavoli! Ho lasciato il ferro da stiro acceso!
Storica
Un centurione all'imperatore: - Cesare, i Galli sono caduti nel nostro tranello! - Che polli!
giovedì 17 luglio 2014
La Madonna sul monte che avvicina le civiltà
Chi, attraversando l’arida Samaria, giunge alle pendici del Carmelo s’impatta con la bellezza verdeggiante di un monte che è promessa di acqua e fertilità, per una terra che si dibatte fra il deserto roccioso e il mare. Nella Bibbia il Carmelo è immagine di una bellezza femminile prorompente e pura, come attesta il Cantico dei Cantici:«Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora». I toni della porpora dominano una tela del barocco sud americano dedicata alla Virgen del Cerro.
La Madonna della montagna, che nella tradizione europea si lega spontaneamente alla Vergine del Carmelo, è legata, presso il popolo andino, all'archetipo della Grande Madre. El cerro del Potosí, celebre cima della Bolivia, ben prima dell'arrivo degli europei era venerato come la Reina, la regina di tutti i monti. Un tale culto si fuse spontaneamente a quello della Vergine la quale, avendo portato in sé il Salvatore, è regina di tutte le Madri. Nasce così l’iconografia della Virgen del Cerro: dalla sommità del monte sbucano il volto di Maria e le sue mani aperte, in atto di ricevere e subito donare. Questa forma “montana” di Maria si ritrova in altre Madonna della regione andina, come la Virgen de Pomata, dove il caratteristico abito (dalmatica o piviale) viene ad assumere la forma di un monte. Fu proprio attorno al XVI secolo, che invalse l’uso di rivestire in tal modo le statuette della Vergine Maria (ad es. a Loreto).
La Madonna della montagna, che nella tradizione europea si lega spontaneamente alla Vergine del Carmelo, è legata, presso il popolo andino, all'archetipo della Grande Madre. El cerro del Potosí, celebre cima della Bolivia, ben prima dell'arrivo degli europei era venerato come la Reina, la regina di tutti i monti. Un tale culto si fuse spontaneamente a quello della Vergine la quale, avendo portato in sé il Salvatore, è regina di tutte le Madri. Nasce così l’iconografia della Virgen del Cerro: dalla sommità del monte sbucano il volto di Maria e le sue mani aperte, in atto di ricevere e subito donare. Questa forma “montana” di Maria si ritrova in altre Madonna della regione andina, come la Virgen de Pomata, dove il caratteristico abito (dalmatica o piviale) viene ad assumere la forma di un monte. Fu proprio attorno al XVI secolo, che invalse l’uso di rivestire in tal modo le statuette della Vergine Maria (ad es. a Loreto).
Un esemplare del XVIII secolo, realizzato dalla Scuola Cuzqueňa (quindi peruviana), offre l’immagine di Maria che, come santa Montagna, offre il suo frutto più prezioso: il Re del Cielo. Le mani della Madonna, una delle quali con il palmo aperto, reggono un rosario rosso fuoco, come i cuori di coloro che la venerano. Lo sguardo della Vergine di Pomata è rivolto al Figlio, mentre questi guarda noi, quasi rassicurandoci circa la potente intercessione della Madre.
La Virgen del Cerro, invece, rivolge occhi e orecchio, (ben visibile per l’orecchino a forma di rosario) alla Trinità. Come la cima del monte è rivolta verso il Cielo, così il cuore della Vergine è rivolto verso l'Altissimo. Come la montagna è bagnata dalle acque del Cielo che convoglia nelle valli fecondandole, così Maria riceve da Dio le grazie da distribuire ai fedeli a lei affidati. Una serie di personaggi, su scale differenti popolano la scena. Troviamo Papa Paolo III e re Carlo V, segni del potere spirituale e temporale, e ai lati i donatori. Su scala ridotta, lungo le pendici del monte, vediamo gli indigeni che scoprono giacimenti d’argento, il re Inca, fondatore di Potosí, e i conquistatori spagnoli che acclamano la regina del Cielo. L'opera narra l’integrazione avvenuta fra popoli diversi grazie alla fede. Come in Messico (con la Guadalupe), anche qui Maria forgia una nuova cultura ed è strumento di comunione fra i popoli. In un’epoca di scontro fra civiltà affidiamoci alla Vergine del Monte: lei ci aiuterà a entrare in quel connubio fra umano e divino che allontana il devozionismo e genera una fede capace di cultura.
La Virgen del Cerro, invece, rivolge occhi e orecchio, (ben visibile per l’orecchino a forma di rosario) alla Trinità. Come la cima del monte è rivolta verso il Cielo, così il cuore della Vergine è rivolto verso l'Altissimo. Come la montagna è bagnata dalle acque del Cielo che convoglia nelle valli fecondandole, così Maria riceve da Dio le grazie da distribuire ai fedeli a lei affidati. Una serie di personaggi, su scale differenti popolano la scena. Troviamo Papa Paolo III e re Carlo V, segni del potere spirituale e temporale, e ai lati i donatori. Su scala ridotta, lungo le pendici del monte, vediamo gli indigeni che scoprono giacimenti d’argento, il re Inca, fondatore di Potosí, e i conquistatori spagnoli che acclamano la regina del Cielo. L'opera narra l’integrazione avvenuta fra popoli diversi grazie alla fede. Come in Messico (con la Guadalupe), anche qui Maria forgia una nuova cultura ed è strumento di comunione fra i popoli. In un’epoca di scontro fra civiltà affidiamoci alla Vergine del Monte: lei ci aiuterà a entrare in quel connubio fra umano e divino che allontana il devozionismo e genera una fede capace di cultura.
Immagini:
Anonimo. Virgen del Cerro (Madonna del Monte), Olio su tela, 72 × 92 cm. 1701 – 1800 Museo Nazionale d'Arte (La Paz, Bolivia)
Anonimo Escuela Cuzqueňa. Virgen del Rosario de Pomata. Olio su tela, 163 x 110 cm XVIII sec. Museo di Arte Coloniale, Bogotà (Colombia).
Anonimo. Virgen del Cerro (Madonna del Monte), Olio su tela, 72 × 92 cm. 1701 – 1800 Museo Nazionale d'Arte (La Paz, Bolivia)
Anonimo Escuela Cuzqueňa. Virgen del Rosario de Pomata. Olio su tela, 163 x 110 cm XVIII sec. Museo di Arte Coloniale, Bogotà (Colombia).
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
venerdì 11 luglio 2014
Elefanti 2
Due elefanti, un maschio e una femmina, osservano il tramonto del sole e si tengono per le proboscidi. Lei chiede a lui: - Caro, mi ami davvero o mi prendi solo per il naso?
giovedì 10 luglio 2014
Principesse
Un tale trova una rana per strada e la raccoglie. La rana gli dice: - Io sono una principessa bellissima, baciami e ti renderò ricco. - Non ci penso neanche! - risponde il tizio. - Dico sul serio! Io sono una principessa bellissima. Baciami e ti renderò ricco! L'uomo prendere la rana, se la mette in tasca e dice: - Fossi matto! Ma lo sai quanti soldi ci faccio con una rana parlante?
L'iris, simbolo trinitario di amore e di dolore
Entra una luce chiara e ferma dall'arco in rovina davanti al quale siede la Madonna con l’iris di Albrecht Dürer e allievi. Le sue vesti rosso-arancio denunciano il fuoco della passione che attraverserà, a motivo del figlio che ha in grembo. Il volto non è ovale, affilato, come nelle Madonne fiamminghe, ben note a Dürer. L'artista dipinge volutamente una donna tedesca, soda, dai lineamenti marcati e la bellezza rustica. L'ambiente rupestre in cui siede le si confà perfettamente, ma ciò che a prima vista appare come amore di Dürer per il paesaggio, si rivela in realtà una selva di simboli. Spunta evidente, da dietro la Vergine, un iris. Il nome di questo fiore rimanda all'iride, dunque alla luce, ed è uno dei fiori più amati dall'arte e dall'araldica. Basterebbe citare l’antico stemma ghibellino di Firenze, composto da un iris bianco su fondo rosso, ma si potrebbe setacciare il panorama artistico europeo per veder spuntare giaggioli qua e là.
Viene alla mente, ad esempio, l’enigmatico vaso di fiori di Hans Memling. Il dipinto, che doveva far parte di un Trittico sulla Madonna, è associato al ritratto di un giovane orante, dall’espressione intensa e serena. Non conosciamo l’origine dell’opera, certo doveva comprendere anche un ritratto femminile: una giovane coppia di sposi che consacrava a Maria la sua unione. Doveva esserci anche un secondo vaso, forse di vetro, a completare la simbologia. Certo è che il vaso di ceramica di Memling reca l’acronimo del nome di Gesù JHS: Jesus Hominum Salvator. Da questo vaso spuntano due gigli bianchi, tre iris viola e fiori di aquilegia, simbolo dei sette dolori della Vergine. Con una simile natura morta, l’anonimo committente di questo trittico esprimeva, con simbolica discrezione, la sua fede in Cristo, nella Vergine Madre e in quel Sacrificio eucaristico che sigillava le sue nozze. L'iris, con i suoi tre petali, rimanda al mistero della Trinità e, per questa sua forma, è detto anche giglio a spada, con allusione, appunto, ai dolori di Maria per la morte in croce di Cristo.
Quando è bianco, come il giglio, simboleggia la purezza e la santità, se violaceo, invece, la passione. Nell'opera della bottega di Dürer, l’iris si erge immacolato e, nei suoi petali rovesciati, si colora di un azzurro violaceo; due pali di legno incrociati incorniciano un lembo di cielo dove, da dietro le nubi, si vede Dio Padre con lo stesso abito rosso di Maria. La Trinità è qui, in questa scena apparentemente quotidiana, e si rivela dentro a un mistero di amore e dolore. Qui c’è una vergine colta nel gesto, tutto materno, di allattare il Figlio e il latte di tal madre non viene dalla concupiscenza, ma da una sponsalità tutta celeste. Il Bimbo che allatta non è solo uomo, ma anche Dio: una creatura, dunque, nutre quel Dio che un giorno ci sazierà con il suo corpo e il suo sangue.
All’estrema destra del quadro, infatti, una vite si erge rigogliosa ma senza frutto. Il grappolo vero è lì, tra le braccia di Maria. Il miracolo di questo connubio tra natura umana e divina, tra dolore e amore è cantato nell'opera da due farfalle. Una, bianca, si è posata ai piedi della Madre, l’altra, viola è, a sinistra, sul lembo del suo mantello. L’arco in rovina sullo sfondo simboleggia la precarietà della vita umana che Dürer rassicura. Nessun timore, dunque, per l’uomo fedele: dietro ad ogni sofferenza c’è un tesoro di gloria che nasce, dentro la lotta quotidiana contro il male, c’è un seme di grazia che feconda la terra.
Viene alla mente, ad esempio, l’enigmatico vaso di fiori di Hans Memling. Il dipinto, che doveva far parte di un Trittico sulla Madonna, è associato al ritratto di un giovane orante, dall’espressione intensa e serena. Non conosciamo l’origine dell’opera, certo doveva comprendere anche un ritratto femminile: una giovane coppia di sposi che consacrava a Maria la sua unione. Doveva esserci anche un secondo vaso, forse di vetro, a completare la simbologia. Certo è che il vaso di ceramica di Memling reca l’acronimo del nome di Gesù JHS: Jesus Hominum Salvator. Da questo vaso spuntano due gigli bianchi, tre iris viola e fiori di aquilegia, simbolo dei sette dolori della Vergine. Con una simile natura morta, l’anonimo committente di questo trittico esprimeva, con simbolica discrezione, la sua fede in Cristo, nella Vergine Madre e in quel Sacrificio eucaristico che sigillava le sue nozze. L'iris, con i suoi tre petali, rimanda al mistero della Trinità e, per questa sua forma, è detto anche giglio a spada, con allusione, appunto, ai dolori di Maria per la morte in croce di Cristo.
Quando è bianco, come il giglio, simboleggia la purezza e la santità, se violaceo, invece, la passione. Nell'opera della bottega di Dürer, l’iris si erge immacolato e, nei suoi petali rovesciati, si colora di un azzurro violaceo; due pali di legno incrociati incorniciano un lembo di cielo dove, da dietro le nubi, si vede Dio Padre con lo stesso abito rosso di Maria. La Trinità è qui, in questa scena apparentemente quotidiana, e si rivela dentro a un mistero di amore e dolore. Qui c’è una vergine colta nel gesto, tutto materno, di allattare il Figlio e il latte di tal madre non viene dalla concupiscenza, ma da una sponsalità tutta celeste. Il Bimbo che allatta non è solo uomo, ma anche Dio: una creatura, dunque, nutre quel Dio che un giorno ci sazierà con il suo corpo e il suo sangue.
All’estrema destra del quadro, infatti, una vite si erge rigogliosa ma senza frutto. Il grappolo vero è lì, tra le braccia di Maria. Il miracolo di questo connubio tra natura umana e divina, tra dolore e amore è cantato nell'opera da due farfalle. Una, bianca, si è posata ai piedi della Madre, l’altra, viola è, a sinistra, sul lembo del suo mantello. L’arco in rovina sullo sfondo simboleggia la precarietà della vita umana che Dürer rassicura. Nessun timore, dunque, per l’uomo fedele: dietro ad ogni sofferenza c’è un tesoro di gloria che nasce, dentro la lotta quotidiana contro il male, c’è un seme di grazia che feconda la terra.
Immagini
Hans Memling. Natura morta con vaso di fiori, 1490 circa, olio su tavola, 29,2×22,5 cm, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
Bottega di Albrecht Dürer, 1471–1528 Vergine con il Bambino (o Madonna con l’Iris) 1500-10 circa Olio su calce , 149.2 x 117.2 cm National gallery Londra
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
mercoledì 9 luglio 2014
Equivoco
Un uomo va a ritirare il suo ritratto nello studio di un pittore, ma appena lo vede esclama: - Ma questo ritratto non mi assomiglia per niente, mi ha fatto una gran faccia da stupido! E il pittore: - Scusi signore, ma quello è lo specchio...
martedì 8 luglio 2014
Al ristorante
Un signore al ristorante si fa portare un tacchino tutto intero. Il suo vicino di tavolo lo guarda perplesso e gli chiede: - Ma non lo mangerà mica da solo? E quello: - Certo che no. Aspetto il contorno!
domenica 6 luglio 2014
Pierino
Pierino incontra un'amica per la strada. I due chiacchierano del più e del meno e alla fine Pierino chiede: - E tua nonna, come sta? - Meglio, grazie. É in via di guarigione. - Ma va? Ha traslocato?
sabato 5 luglio 2014
Pierino 2
Gli amici suonano alla porta di Pierino: - Vieni a giocare con noi? - Non posso...Devo aiutare il nonno a farmi i compiti!
giovedì 3 luglio 2014
Il «torchio mistico», sacrificio di Gesù per tutti
«Esser messi sotto torchio» non è per noi una bella espressione, tanto meno «pagare col sangue»; eppure nella fede, grazie alla Rivelazione, torchio e sangue sono diventati segno di una salvezza insperata.
Tra le iconografie più singolari sparse nella nostra penisola vi è quella del torchio mistico: Cristo, schiacciato dalla croce come da un torchio, spremuto nella passione, offre alla Chiesa il sacrificio del suo sangue per la salvezza.
Una cruda drammaticità che oggi fa un po’ specie. Ma il torchio mistico non è raro, ne troviamo un esemplare a Matelica (Macerata) nella chiesa di Sant’Agostino. Ernst Van Schayck dipinge un immenso tino entro al quale Cristo sta pigiando l’uva. La croce pesa su Gesù e si comprende che il frutto da pigiare è il suo stesso corpo. Del resto tra vino e sangue c’è, in ebraico, una stretta assonanza, poiché il «vino» è detto «sangue dell’uva».
Il mistero del torchio s’infittisce quando vediamo che è il Padre stesso a torchiare il Figlio suo e che lo Spirito Santo, poggiato sopra la croce, contribuisce a pesare il legno sul corpo del Redentore. L’espressione mesta e serena del Padre e del Figlio ci conferma che tutta la Trinità è unanime in quest’offerta sacrificale.
Una scritta latina, svela il mistero: Torcular calcavi solus et de gentibus non est vir mecum. È un versetto di Isaia (63,3): «Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me». La tela si trova in una chiesa dedicata a Sant’Agostino e fu proprio il vescovo di Ippona (con altri, come ad esempio Tertulliano) che, meditando questo passo, paragonò il torchio alla croce dove Cristo era stato premuto da solo, per la salvezza di tutti.
Due angeli, in primo piano, raccolgono il prezioso vino, cioè il sangue colato dalle piaghe del Salvatore, per spargerlo su Gerusalemme, le cui mura si vedono sullo sfondo.
Così il torchio, se da un lato è segno dell’ira divina, dall’altro è anche il luogo dove, pigiando uva, si ricava vino. Tale è l’opera della Trinità: trasformare il male in bene e il sangue sacrificale in bevanda per la vita e per la gioia. Testimoni, per noi, di tutto questo sono tre santi: Giovanni Battista, ultimo dei profeti dell’antico Testamento e primo del Nuovo, la Vergine Addolorata e Giovanni Evangelista, primizie della Chiesa presenti sotto la croce.
Anche in Germania, ad Ansbach nella chiesa di San Gumberto, c’è una tavoletta raffigurante il torchio mistico dove si vede Dio Padre manovrare il torchio-croce sotto il quale sta Gesù. Qui però lo Spirito aleggia in un cielo dorato indicando a tutti la promessa certa della risurrezione. È invece la Madre Addolorata che, con il cuore straziato, partecipa all’offerta del Figlio sorreggendolo in questo supplizio, uno dei cartigli, infatti, afferma che Cristo non era totalmente solo, perché Maria era con lui. Non ci sono angeli a raccogliere il frutto che sgorga dal tino ma san Pietro. E il frutto non è vino ma sono ostie, rimando teologico al Mistero Eucaristico frutto della passione del Redentore. Il donatore, anch’egli in primo piano ma proporzionalmente più piccolo, osserva estatico la scena, comprendendo il mistero. Quanto siamo lontani da tutto ciò!
E che libertà avevano gli antichi nel guardare a un Dio che torchia il Figlio! Noi, invece, che vogliamo salvare Dio da una tale immagine, cadiamo vittime di padri sanguinari dove il sangue versato non salva e le torchiature non restituiscono vino per la gioia.
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
Tra le iconografie più singolari sparse nella nostra penisola vi è quella del torchio mistico: Cristo, schiacciato dalla croce come da un torchio, spremuto nella passione, offre alla Chiesa il sacrificio del suo sangue per la salvezza.
Una cruda drammaticità che oggi fa un po’ specie. Ma il torchio mistico non è raro, ne troviamo un esemplare a Matelica (Macerata) nella chiesa di Sant’Agostino. Ernst Van Schayck dipinge un immenso tino entro al quale Cristo sta pigiando l’uva. La croce pesa su Gesù e si comprende che il frutto da pigiare è il suo stesso corpo. Del resto tra vino e sangue c’è, in ebraico, una stretta assonanza, poiché il «vino» è detto «sangue dell’uva».
Il mistero del torchio s’infittisce quando vediamo che è il Padre stesso a torchiare il Figlio suo e che lo Spirito Santo, poggiato sopra la croce, contribuisce a pesare il legno sul corpo del Redentore. L’espressione mesta e serena del Padre e del Figlio ci conferma che tutta la Trinità è unanime in quest’offerta sacrificale.
Una scritta latina, svela il mistero: Torcular calcavi solus et de gentibus non est vir mecum. È un versetto di Isaia (63,3): «Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me». La tela si trova in una chiesa dedicata a Sant’Agostino e fu proprio il vescovo di Ippona (con altri, come ad esempio Tertulliano) che, meditando questo passo, paragonò il torchio alla croce dove Cristo era stato premuto da solo, per la salvezza di tutti.
Due angeli, in primo piano, raccolgono il prezioso vino, cioè il sangue colato dalle piaghe del Salvatore, per spargerlo su Gerusalemme, le cui mura si vedono sullo sfondo.
Così il torchio, se da un lato è segno dell’ira divina, dall’altro è anche il luogo dove, pigiando uva, si ricava vino. Tale è l’opera della Trinità: trasformare il male in bene e il sangue sacrificale in bevanda per la vita e per la gioia. Testimoni, per noi, di tutto questo sono tre santi: Giovanni Battista, ultimo dei profeti dell’antico Testamento e primo del Nuovo, la Vergine Addolorata e Giovanni Evangelista, primizie della Chiesa presenti sotto la croce.
Anche in Germania, ad Ansbach nella chiesa di San Gumberto, c’è una tavoletta raffigurante il torchio mistico dove si vede Dio Padre manovrare il torchio-croce sotto il quale sta Gesù. Qui però lo Spirito aleggia in un cielo dorato indicando a tutti la promessa certa della risurrezione. È invece la Madre Addolorata che, con il cuore straziato, partecipa all’offerta del Figlio sorreggendolo in questo supplizio, uno dei cartigli, infatti, afferma che Cristo non era totalmente solo, perché Maria era con lui. Non ci sono angeli a raccogliere il frutto che sgorga dal tino ma san Pietro. E il frutto non è vino ma sono ostie, rimando teologico al Mistero Eucaristico frutto della passione del Redentore. Il donatore, anch’egli in primo piano ma proporzionalmente più piccolo, osserva estatico la scena, comprendendo il mistero. Quanto siamo lontani da tutto ciò!
E che libertà avevano gli antichi nel guardare a un Dio che torchia il Figlio! Noi, invece, che vogliamo salvare Dio da una tale immagine, cadiamo vittime di padri sanguinari dove il sangue versato non salva e le torchiature non restituiscono vino per la gioia.
Immagini:
Torchio Mistico. Ernst Van Schayck (Utrecht 1575-Castelfidardo 1631)
Secondo-terzo decennio del XVII secolo Olio su tela, 240 x 150 cm Chiesa di S. Agostino
Matelica (Macerata)
Torchio Mistico. Ernst Van Schayck (Utrecht 1575-Castelfidardo 1631)
Secondo-terzo decennio del XVII secolo Olio su tela, 240 x 150 cm Chiesa di S. Agostino
Matelica (Macerata)
Maria Corredentrice e il Torchio Mistico, Ansbach (Germania) - Chiesa di San Gumberto (Ritterkapelle) –tavoletta votiva di Maestro dei torchi (scuola Duhreriana) 1511
Da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza
mercoledì 2 luglio 2014
martedì 1 luglio 2014
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