Una strana cena di Emmaus quella di Vittore Carpaccio. Non ci sono solo Cleopa e l'amico in fuga da Gerusalemme, ma si notano altri due figuri. L'opera fu attribuita al Bellini ma dopo il recente restauro, dove è emersa la data 1513, si attribuisce al Carpaccio. Il committente fu Girolamo Priuli un noto banchiere veneziano, ritratto, forse, alla destra del Cristo. Sul lato opposto, invece, siede un orientale con l'inconfondibile turbante. Benché enigmatico il simbolismo del dipinto è evidente. Cleopa si porta la mano al petto conquistato dal Mistero, è l’unico a vestire come Cristo. L’anonimo amico invece, veste da pellegrino, con tanto di ghette e di schiavina, tunica lunga con spacco per facilitare il cammino, porta anche pantaloni, indumento obbligatorio per i monaci.
Costui è l’uomo di fede, in cammino, nel quale tutti ci possiamo identificare. Nessuno guarda Cristo e solo Cristo guarda noi. Spezzando il pane, con tre pesci davanti a sé, il Salvatore chiede conto del nostro comportamento rispetto alla fede e alla vita: pani e pesci, infatti, cibo quaresimale, invitano alla sobrietà, mentre la mano benedicente sul pane, è rimando all’Eucaristia. I pellegrini mangiano pollame e sono invece a digiuno i due ospiti illustri. Il banchiere trattiene con una certa supponenza la veste, rendendo evidente la mano inanellata. La pernice in primo piano sembra monito per lui: se da un lato il volatile è simbolo di fedeltà per l’abitudine a seguire il compagno, dall'altro, rubando spesso uova da altri nidi e covando prole che, una volta adulta fuggirà associandosi alla propria specie, è segno di chi si appropria indebitamente di ricchezze altrui. Il banchiere è dunque invitato ad amministrare con lealtà i beni che gli sono affidati.
L'orientale rappresenta l'umanità lontana dai Sacramenti. Il Carpaccio aveva assegnato fogge orientali anche agli ebrei nel ciclo dedicato a Santo Stefano; un ghetto, del resto, sarà aperto a Venezia nel 1516, a causa dei dissidi con i cristiani. L'impero ottomano poi continuava a rappresentare una minaccia per la Serenissima e dunque, in quest’uomo scalzo e sorprendentemente rilassato, possiamo individuare quanti attendono con sufficienza l'ora propizia per ferire. L’anforisco in primo (vaso funerario), rappresenta una sorta di memento mori, tanto per il turco che per noi. Il Carpaccio ci aiuta a riflettere sul viaggio della fede lungo i secoli e le continue minacce mussulmane e non. Cristo ci guarda rilanciando a noi la domanda: non siamo forse più preoccupati dei crack finanziari che della difesa della nostra identità cristiana?
Carpaccio non fu il primo, del resto, a realizzare simili Cene in Emmaus. Un impianto scenico analogo, infatti, lo aveva già realizzato Marco Marziale, sempre a Venezia nel 1505. Qui i due invitati fuori programma rimandano alle conquiste del nuovo mondo e a quella parte di umanità che ancora non conosceva il Vangelo. Ai lati del Cristo, oltre allo schiavo di colore, abbiamo un devoto mercante, forse proprietario dello schiavo, che attesta la sua fede nel Mistero togliendosi il copricapo.
Se i due discepoli di Emmaus questa volta hanno entrambi abiti tipici dei romei e quindi esprimono la fede certa di quanti intraprendevano pellegrinaggi verso i luoghi santi mettendo spesso a rischio la vita, i due anonimi personaggi sullo sfondo hanno il compito di attualizzare la scena. È commovente lo sguardo dello schiavo, non al Cristo, ma al suo padrone che con il gesto umile di togliersi il berretto insegna la fede. Il Cristo, che anche qui ci guarda, interroga noi. Non le grandi gesta (quindi non solo pellegrinaggi e crociate), ma i gesti semplici vissuti nella fedeltà e nella verità possono, spesso, in-segnare la fede e cambiare il corso della storia.
ImmaginI Vittore Carpaccio, Cena in Emmaus, 1513, dipinto su tavola, 260 x 375 cm, Chiesa di San Salvador, Venezia
Marco Marziale, Cena in Emmaus, 1506, dipinto su tavola, 122 x 141 cm, Gallerie dell'Accademia, Venezia
da Avvenire, Rubrica Dentro la Bellezza
giovedì 16 aprile 2015
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