giovedì 6 novembre 2014

La nostra speranza non finirà in pasto ai corvi

L’artista danese August Friedrich Schenck scandaglia i rapporti umani attraverso la metafora degli animali. In uno dei suoi dipinti, un panorama innevato e freddo con un cielo plumbeo esprime fortemente la sensazione di angoscia di fronte alla morte. Angoscia, del resto, è il titolo stesso dell’opera. Una pecora madre sta al centro della composizione, statutaria. Le zampe, affondate nel suolo innevato, vogliono proteggere ancora un poco il giovane agnello che appare senza vita. Ignoriamo la causa della morte, vediamo solo un rigolo di sangue che traccia la neve. Capiamo che la pecora non si arrende alla sconfitta, il fiato disegna una colonna di vapor acqueo nell’aria che racconta il suo grido, il suo pianto. Attorno, corvi, come avvoltoi, attendono che la madre abbandoni la preda, ma essa la difende, sperando contro ogni speranza che il figlio torni a vivere. Scorgiamo in questa pecora, come in filigrana, l’uomo ferito dalla morte di coloro che gli sono cari. L’uomo che ha in sé il germe dell’eternità e vorrebbe gridare a chi ama: tu puoi non morire!

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Eppure accade ora di vedere, a tratti, che per qualcuno non è cosi. Qualcuno di fronte alla morte ha mollato la presa, si è arreso, l’ha accettata come componente normale dell’esistenza, anzi ha deciso di programmarla per sottrarsi alla morsa del dolore o dell’incognita. Così mi appaiono, in fondo, i corvi di Schenck: avidi nello sfruttare al minimo le occasioni, rapaci, appunto, per nulla scossi dalla determinazione fiera di quella madre a salvaguardare il suo piccolo fino all’ultimo respiro e anche oltre. Oltre la morte. No, quel piccolo non sarà abbandonato in pasto ai corvi, non finirà inghiottito dalla neve come dal nulla. Egli vivrà nella memoria di questo grido materno e di quella zampa protesa a preservare il suo corpo esanime.

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Viene in mente il cipresso di van Gogh nella notte stellata, dipinto quasi negli stessi anni. Anche quello è un grido di speranza che sale verso il cielo ingombro di stelle. In questa tela di van Gogh il cielo sembra essersi fatto così basso e le selle rotolare così gioiose per quella vita che esse conoscono ma che, in fondo, ignorano i parrocchiani di Saint Remy! Anche se la piccola chiesa lancia nel cielo il suo campanile come certezza di una vita senza fine, non sempre le sue pietre parlano al cuore di chi, come van Gogh, dispera. Per questo il pittore guarda il panorama notturno come dall’alto del cipresso. Quel cipresso segna il cimitero, il luogo della memoria, il luogo di chi non accetta la fine della vita come l’approdo a un nulla senza speranza. Di questo c’è bisogno. L’avventura dell’homo sapiens, del resto, incomincia con un cimitero, la civiltà comincia dall’uomo che vuole conservare la memoria della vita in attesa di una risposta definitiva. Molto più noi non possiamo rassegnarci a un di meno, non possiamo come i corvi sfruttare la vita al massimo possibile. Deve salire al cielo il nostro grido, simile a quello della pecora di Schenck, deve verdeggiare nel cuore la speranza, come verdeggia il cipresso di van Gogh: qualcuno ha attraversato la morte e ha dato all’uomo la certezza dell’eternità. È Cristo l’agnello mansueto che ha accettato la morte, ridonando all’uomo la vita.

Immagini
August Friedrich Schenck, Angoscia, 1880, olio su tela cm 151 x 251, Collezioni internazionali della Galleria Nazionale di Victoria, Melbourne.
 
Vincent van Gogh, Notte stellata 1889, olio su tela, cm 73 × 92 Museum of Modern Art, New York

da Avvenire, rubrica Dentro la Bellezza

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